La chiave del futuro è
andare avanti
Quinn non aveva mai desiderato tanto
di dormire come in quel
momento; quella notte li aveva provati tutti ed ora che sembrava tutto
finito
la fatica mentale e fisica iniziava a farsi sentire. Almeno a lei era
stata risparmiata
la fatica dei remi, visto che portava in braccio quella bambina; non
che con
lei si stesse più tranquilli. Parlare di
“tranquillità” in quel frangente, poi,
era un assurdità. Per quanto l’avesse stretta a
sé, consolata e baciata, alla
fine si era calmata perché stremata dal pianto e si era
assopita.
Quinn avrebbe voluto sfilarsi una
manica della sua giacca
per coprire meglio la bimba ma il salvagente glielo impediva e quindi
dovette
limitarsi a stringerla ancora di più e a soffiarle il suo
alito caldo sulle
manine intirizzite.
Avrebbe dovuto sentirsi orgogliosa
per quella vita strappata
al pericolo, ma quel visino imbronciato ancora scosso dai singhiozzi le
riportò
alla mente la sua missione fallita: a Beth, a Puck. Continuava a
chiedersi “si
saranno salvati?”, “forse sono su
un’altra scialuppa?”, “perché
ho lasciato che
Kurt mi facesse salire su questa scialuppa?”. Le
ritornò in mente anche Kurt,
suo padre e il suo fratellastro. Forse loro erano riusciti a mettersi
in salvo.
Ma Beth e Puck. Quali sicurezze poteva nutrire per loro?
Ma poi, potevano dirsi davvero in
salvo? Separati, su quelle
piccole imbarcazioni in mezzo all’oceano, senza un
po’ di luce a parte la luna
e le stelle? Qualche altra nave, più sicura del Titanic, li
avrebbe soccorsi o
si sarebbero ritrovati a solcare le acque come spettri di una tragedia
appena
conclusasi? Se continuava con questi interrogativi sentiva che sarebbe
impazzita.
“Vorrei solo addormentarmi,
come questa bambina,
addormentarmi e smettere di pensare”.
Quasi sul punto di assopirsi,
sentì un piccolo movimento
seguito da un debole piagnucolio da parte della bambina.
- Cosa c’è
piccola? – le sussurrò teneramente con uno stanco
sospiro. Un calore umido sul suo grembo fu la risposta. Fu tentata, di
scatto,
di allontanarla ma la stanchezza unita alla compassione la frenarono;
iniziò a
cullarla e ad accarezzarle la testolina bionda – No, no, non
piangere. Non è
nulla, piccola, non è nulla. Tranquilla, non è
nulla. Non piangere, su. Va
tutto bene.
Dopo un po’, i lamenti si
placarono e anche Quinn cadde in
dormiveglia, lasciandosi andare a pochi minuti di riposo, prima che le
prime
luci rischiarassero il cielo.
A risvegliarla la seconda volta ci
pensarono le persone
sulla scialuppa, scosse da una forte agitazione. La ragazza fu quasi
tentata di
far finta di nulla e di continuare a tenere gli occhi chiusi;
l’ultima cosa che
voleva era un ennesimo motivo per allarmarsi. Ma quando una donna,
seduta a
fianco a lei, esclamò “Una nave!
Laggiù!” spalancò di scatto gli occhi,
vedendo
in lontananza proprio una nave.
In quel momento non importava quanto
fosse meno maestosa e
meno ricca del Titanic; nessuno era mai stato così sollevato
al pensiero di non
essere più soli e abbandonati nell’oceano.
Per segnalare la loro presenza,
alcuni diedero fuoco a
fazzoletti e a pezzi di carta che si trovavano nelle loro tasche,
sventolandole
a mo’ di lanterne; una signora fece accendere anche il suo
ricco e grande
cappello, alzandolo sulle teste di tutti come la fiaccola della Statua
della
Libertà.
Quando la raggiunsero, lessero sulla
sua fiancata
“Carpathia”.
Dal ponte chiesero “Ci sono
feriti?” Risposta negativa. E di
nuovo “Ci sono bambini?” Risposta affermativa. E
assieme ad una scaletta
calarono anche un sacco di tela legato ad una corda. “Usate
questa per far
salire i bambini. Avanti, chi sale per prima?”
Gli eventi, la stanchezza, il dolore
avevano tolto la forza
di muoversi alle donne sulle scialuppe; ma Quinn, col cuore della
bambina che
sentiva battere contro il suo, si alzò all’istante
e si avvicinò all’enorme
fiancata della nave. Quando fece per mettere nel sacco la piccola,
quest’ultima
le si strinse ancora di più al collo, non volendo essere
lasciata.
- Non avere paura – le
disse subito Quinn – Non ti lascio,
tranquilla. Ti metto in questo sacco così puoi salire sulla
nave, poi ti
riprendo subito appena siamo sopra.
- No, nave no – pianse
debolmente la bambina – Nave brutta.
Nave si rompe e va in acqua.
- No, no, no – la
baciò Quinn, sentendosi stringere il cuore
– Questa nave non si rompe, tranquilla, non si rompe
– e la adagiò nel sacco
facendo una leggera pressione affinché la lasciasse.
E senza lasciare i suoi occhi che la
fissavano facendo
capolino dal sacco, salì la scala di corde, arrivando a
bordo nello stesso
momento in cui i marinai avevano issato la bambina, riprendendola
subito in
braccio per tranquillizzarla.
- Avete bisogno di qualcosa, signora?
– le chiese
educatamente un marinaio.
- Del latte caldo, per la bambina
– rispose subito Quinn –
E, se è possibile, anche un cambio di biancheria e un
vestito pulito.
- Per voi, signora?
- No, sempre per la bambina. A me non
occorre nulla –
rispose nuovamente, dimenticando lo stato pietoso in cui versava lei
stessa.
Furono accompagnate in una cabina
messa a disposizione da
una dei passeggeri del Carpathia; c’erano già
molti altri naufraghi del
Titanic: i più ricchi erano stati ospitati nelle cabine dei
passeggeri della
nave che li aveva raccolti; i più poveri erano stati
spostati nei solai assieme
ai feriti o nelle sale di ritrovo delle varie classi. Quinn venne fatta
accomodare in una piccola cabina di seconda classe.
- La signora che alloggia qui
– disse il marinaio – sta
assistendo alcune delle persone che abbiamo raccolto qualche ora fa.
E’
un’infermiera, sapete? Ma ha lasciato detto che la sua cabina
era a
disposizione di chiunque ne avesse avuto bisogno.
- Grazie. Potrei permettermi, quindi,
di usare la toilette
per pulire la bambina?
- Sì, certo. Vi
farò portare subito del latte e un cambio
per la bimba.
Leggermente in imbarazzo, il marinaio
uscì subito dalla
cabina, lasciandole da sole.
Sicuramente ancora sconvolta da
quello che aveva vissuto, la
bambina non alzò la testa dal seno di Quinn e le manine
tennero strette i bordi
del salvagente di Quinn, decise a non lasciarla. Ma la ragazza non
poteva
lasciarla in quelle condizioni pietose.
- Su, piccola, adesso ci laviamo, ci
mettiamo dei vestiti
puliti e ci prendiamo un po’ di latte così
poi… - si interruppe, dopo averla
fatta sedere sul
piccolo letto della
cabina per toglierle l’ingombrante salvagente (dopo esserselo
tolto a sua volta
per essere più libera nei movimenti), colpita
dall’espressione triste e
imbronciata… che era sicurissima di aver già
visto, come quei capelli biondi, i
contorni stessi del viso – Mi vuoi dire come ti chiami,
tesoro? – le chiese
dolcemente, ridestandosi.
La bambina rimase in silenzio, con lo
sguardo basso.
Proprio in quel momento il marinaio
ritornò portando con sé
un vestito pulito e un cambio di biancheria di una fattura molto
più curata di
quella che la bambina senza nome aveva, per poi uscire di nuovo
promettendo di
portare subito anche il latte.
Visto che la piccola senza nome si
ostinava a tenderle le
braccia, Quinn la riprese in braccio, appoggiandosela sul fianco e,
prendendo
vestiti e biancheria col braccio libero la portò nella
toilette; non era grande
come quella della sua cabina, pensò rabbrividendo ricordando
che quel piccolo
spazio intimo si trovava, in quel momento, sul fondo
dell’oceano, ma quel che
le occorreva c’era: un lavandino e degli asciugamani.
Mise la bambina seduto sul
rivestimento in legno che
circondava il lavandino e le tolse il vestitino e la biancheria sporca
e quando
la lasciò nuda, con i piedini che si strofinavano tra loro
per il freddo, vide
un’altra cosa che le trapassò il petto da parte a
parte: un neo vicino
all’ombelico. Si passò involontariamente la mano
sul ventre, lì dove sapeva
esserci un segno identico a quello che vedeva.
Poteva essere… ma forse
no, forse era un caso… ma perché,
allora… era la paura di sbagliarsi o di illudersi o forse
proprio che tutto
quello che pensava fosse vero…
Un breve lamento a labbra serrate da
parte della bambina a
causa del freddo, riportarono alla realtà Quinn che subito,
quasi a voler
tenere la mente occupata, prese uno degli asciugamani, lo
bagnò con dell’acqua
tiepida e iniziò a passarlo sulle gambine, sulle
intimità e sul pancino
infantili ripulendoli dall’urina; ma tutto questo non le
impediva certo di
pensare. Se teneva lo sguardo basso vedeva quel neo e se lo alzava
incontrava
quel volto familiare.
- Voglio papà Puck e mamma
Shelby – mormorò la bambina
mentre due lacrime le fuggivano dagli occhi.
Ogni muro, ogni resistenza
crollò in quel preciso istante.
Quinn rivolse gli occhi, stavolta in
maniera definitiva, a…
poteva chiamarla per nome.
- Beth.
Sentendosi interpellata,
quest’ultima alzò a sua volta lo
sguardo, incuriosita e titubante.
Stava accadendo tutto troppo in
fretta e Quinn sentì ancora
la stanchezza assalirla; ma aveva aspettato quel momento da anni, lo
aveva
desiderato, se ne era resa conto quel giorno sul ponte del Titanic, ma
non se
lo sarebbe mai immaginato, né lo avrebbe mai voluto
così, da sola, senza sapere
che dire pur avendo tante cose da dire. Ma forse, anzi sicuramente, era
troppo
presto per entrambe.
Per le parole ci sarebbe stato
tempo… ma adesso…
Come per darle una risposta, Quinn si
alzò la veste fin
sopra il ventre scoprendo ed indicando quello stesso punto un
po’ più sopra
dell’ombelico, desiderosa di farle capire con un dito quello
che non avrebbe
saputo spiegarle a parole.
Con quel linguaggio per lei
comprensibilissimo, Beth rispose
a Quinn indicando a sua volta il suo stesso neo. Si presentarono in
quel modo
bizzarro.
- Mamma Stella? – chiese
Beth, spostando il ditino da sé
verso Quinn che la fissò un po’ basita.
- Mamma – disse la ragazza
indicandosi, con un groppo alla
gola che le strozzò la parola.
Era una situazione stranissima e
anche imbarazzante ma Quinn
avrebbe solo voluto abbracciarla; sentiva il forte desiderio di
stringere quel
piccolo pezzo di sé che aveva ritrovato
ma non avrebbe mai voluto forzare la bambina a fare una cosa che lei
non
voleva. Eppure, inaspettatamente, Beth si sporse verso di lei con le
piccole
braccia tese per ricevere un abbraccio; non c’era gioia o
emozione alcuna sul
suo viso però, sembrava solo che stesse adempiendo ad un
obbligo, per
educazione e Quinn non avrebbe potuto richiedere di più.
Più in là, magari… Ma
adesso aveva l’obbligo di cercare Puck e la donna che aveva
cresciuto Beth per
rassicurarli sulla salvezza di quest’ultima; sicuramente per
restituirla, ma
adesso l’aveva vista, erano entrate insieme in una nuova vita
e non si
sarebbero mai più perse.
Chissà la confusione che
ci sarebbe stata nel ritrovare i
parenti e gli amici persi di vista… e di certo, il dolore
per chi non ce
l’aveva fatta. Avrebbe cercato di rintracciare anche gli
Hummel-Hudson per
accertarsi della loro sopravvivenza.
Quinn asciugò Beth e la
rivestì con i panni puliti portati
dal marinaio. La riportò, poi, sul letto per farla riposare
un po’; anche quando
fece per distenderla, la bambina si tenne aggrappata a lei e Quinn non
poté
fare altro che stendersi a sua volta sul letto.
Dopo un po’ la porta della
cabina si aprì ed una signora
magra, con addosso una vestaglia di lana, entrò portando su
un vassoio due
tazze di latte fumante.
- No, state, state – fece
la donna vedendo Quinn pronta ad
alzarsi – Mi hanno detto di voi e mi sono permessa di
portarvi personalmente il
latte per la bambina ed ho pensato di portarne anche per voi. Ah, se vi
occorrono dei vestiti puliti potete usare in miei, naturalmente. Sono
l’inquilina della cabina.
- Mi dispiace per il fastidio che vi
stiamo dando – si scusò
Quinn.
- Non ditelo nemmeno –
replicò la donna, sincera – Dopo
quello che avete passato – e non aggiunse altro per paura di
mettere il dito in
una piaga ancora fresca e, di questo, Quinn le fu grata – Che
bella bambina –
cambiò argomento la donna guardando Beth addormentata
– E’ vostra?
- Sì. E’ mia
figlia.
E con quelle parole, Quinn diede la
buonanotte alla vecchia
se stessa per accogliere la nuova.
* * *
Da quando era salita sul Carpathia,
la battagliera Sue
Sylvester non aveva detto nulla, non si era lamentata né
aveva strepitato
contro l’organizzazione dei soccorsi. Aveva rifiutato ogni
aiuto offertole
dallo staff e dai passeggeri della nave, si era rimboccata le maniche
ed aveva
iniziato a girare tra tutti i suoi compagni di sventura; non chiedeva
loro a
quale classe appartenessero, chiedeva solo se avessero bisogno qualcosa
e,
assieme ad altre donne iniziò a prendersi cura dei feriti e
delle madri con i
loro figli che avevano perso i loro compagni.
Quando il grosso dei naufraghi fu
recuperato, gli ufficiali
del Carpathia, con l’aiuto degli ufficiali in seconda del
Titanic,
ricostruirono il corso degli eventi e stilarono una lista
approssimativa dei
passeggeri del transatlantico affondato, chiedendo anche alle persone a
bordo
nomi e informazioni su possibili dispersi in modo da aiutarli a
ritrovare amici
e parenti separati durante gli imbarchi.
Essendo nell’elenco di
quelli di prima classe, Carole riuscì
subito a ritrovare suo marito Burt; ebbero solo il tempo di
abbracciarsi per
poi concentrarsi su ciò che per loro era più
importante: i loro figli. Girarono
disperati per tutta la nave chiedendo loro notizie ad ogni marinaio
munito di
un elenco di nomi o ad ogni persona che conoscevano ma con nessun
risultato.
Col cuore in gola, i due coniugi andarono nella sala adibita a
infermeria e
zona ospedaliera, passando in rassegna tutte le brandine, con la
speranza di
trovare Kurt e Finn, magari anche feriti ma almeno vivi. Arrivarono
anche a
sollevare le coperte per vedere meglio chi vi si nascondeva e nessuno
disse
loro nulla, forse per la stanchezza o più probabilmente
perché potevano capire
il loro stato d’animo.
- Eccolo –
scattò Carole ad un tratto, correndo verso una
determinata branda seguita da un pallido Burt.
C’era Finn su quella
brandina, con un braccio fasciato e un
occhio bendato e la schiena appoggiata interamente su un cuscino
sollevato. Una
ragazza minuta stava cercando di fargli mandar giù qualche
cucchiaio di brodo.
- Finn! Finn sei vivo –
disse Carole gettandosi ai piedi
della branda afferrando le mani del figlio, strappandogli un leggero
gemito –
Cosa gli è successo? – chiese con apprensione alla
ragazza che si era alzata in
piedi.
- E’ caduto nella scialuppa
dove mi trovavo – spiegò lei, la
voce fievole per l’agitazione – A quanto ho capito
ha spezzato una delle funi
che si era inceppata e che ci impediva di scendere in mare e quella
stessa fune
lo ha colpito all’occhio e lo ha fatto cadere. Io e due mie
amiche gli abbiamo
fasciato l’occhio meglio che potevamo, ma si è
ferito anche al braccio e alla
schiena. Dopo passerà il medico per visitarlo.
Ma le parole della ragazza, sebbene
ascoltate con attenzione
da Carole, furono subito coperte da quelle più forti,
allarmate, di Burt che
aveva raggiunto la moglie al capezzale di Finn dopo essere rimasto per
un bel
po’ fermo a guardarsi intorno, sperando di incontrare lo
sguardo di suo figlio.
- Dov’è Kurt?
– quasi urlò l’uomo, chinandosi su Finn
–
Finn, dov’è Kurt?
Finn non ebbe alcuna reazione, come
se avesse avuto due
bende su entrambi gli occhi invece di una.
Comprendendo il momento delicato, la
ragazza, mormorando
qualche parola di scuse che nessuno sentì, posò
la scodella di brodo su una
sedia lì vicino e se ne andò lanciando delle
occhiate colme di rimorso verso
quel doloroso terzetto.
- Finn, dimmi
dov’è Kurt? – strepitò di
nuovo Burt,
trattenendosi per non strattonare il ragazzo.
- Finn, ti prego,
cos’è successo? – ebbe solo la forza di
chiedere Carole , temendo il peggio.
- L’ho cercato dappertutto
– la voce di Finn uscì rauca e
gracchiante dal profondo della sua gola secca –
C’era tanta gente che correva e
urlava. Io lo chiamavo ma nessuno rispondeva. Poi quel ragazzo mi ha
chiesto di
aiutarli ed io ho usato l’accetta per tagliare la corda. Mi
hanno colpito in
faccia. Sono caduto. Ho cercato di ritornare indietro e risalire sulla
nave ma
la gente mi impediva di muovermi. Io dovevo risalire. Nessuno lo voleva
capire.
Non potevo lasciarlo solo. Dovevo trovarlo. Lui è mio
fratello… - quel confuso
ammasso di mezze frasi si ridusse ad un rantolo ripetuto
all’infinito , il
delirio di una mente sconvolta e ferita.
- O mio Dio, no! –
saltò su Burt, correndo come un pazzo
continuando a chiamare – Kurt! Kurt!
Mentre Carole affondava il viso nel
petto di Finn,
soffocando un grido, e suo figlio continuava a borbottare sotto voce in
maniera
lamentosa, senza pensare alla scarica di dolore che la stretta della
madre gli
causava.
* * *
Dopo essersi ristorate e riposate,
Quinn decise di salire
sul ponte con Beth, sia per far prendere un po’
d’aria a quest’ultima, sia per
farsi registrare e farsi dare notizie di Puck o di qualcun altro che
volesse
sapere della bambina. Il sole era sorto su un nuovo giorno e sullo
sfondo del
mare, quasi bianco dopo averlo visto completamente nero la notte prima;
ciò di
cui erano stati testimoni aveva lasciato i suoi segni su tutti, sulle
persone
che si erano autorecluse negli interni, su quelle che guardavano il
mare con
occhi sbarrati e rabbiosi, su chi vagava sul ponte del Carpathia come
uno
spettro, su Beth che, terrorizzata, rimaneva aggrappata a Quinn e il
visino
sepolto nell’incavo del collo della ragazza; e anche Quinn si
sentiva rabbrividire
e non certo per il freddo.
Disse il suo nome e quello della
bambina al primo marinaio
munito di elenco che incontrò e gli diede anche il nome di
Noah Puckerman e di
Shelby Corcoran (sperava di non aver sbagliato nome) cercando loro
notizie.
- Non sono sugli elenchi –
e Quinn si sentì morire a quelle
parole – Ma non dovete preoccuparvi; dobbiamo ancora
registrare altre persone e
chissà quante altre dobbiamo ancora recuperare. Provate a
domandare di nuovo
tra un’ora, o due – Quinn si sentì un
po’ rassicurato ma il senso di dolore non
la lasciò; diede un bacio a Beth fingendo di rassicurarla
quando, in realtà,
era lei ad aver bisogno di rassicurazione.
Si era completamente scordata dei
suoi genitori tanto che
rimase per qualche istante stupita quando sentì la voce di
sua madre chiamarla,
emozionata, seguita da una stretta soffocante. L’odore dei
capelli biondicci
che le solleticarono il naso era senza ombra di dubbio di sua madre.
- Oh, Quinn, Quinn –
piagnucolò la donna senza nemmeno
accorgersi della bambina tenuta in braccio dalla figlia che iniziava a
dimenarsi in mezzo a quelle due masse che quasi la schiacciavano
– Non hai idea
di quanta paura ho avuto. Temevo di non rivederti mai più.
Alle spalle di Judy Fabray, Quinn
vide avanzare anche la
figura di suo padre che, prima, le lanciò
un’occhiata basita che si cambiò,
poi, in truce e severa.
- Cosa ti è saltato in
mente!? – esclamò, spingendo la
moglie a lasciare la sua presa sulla figlia per guardarla in faccia
– Sai cosa
ci hai fatto passare? Tu... – proprio in quel momento Fabray
notò la bambina in
braccio a Quinn – E questa da dove salta fuori?
In quei pochi secondi, Quinn si era
già preparata a non dare
importanza a qualunque cosa il padre le avrebbe detto; ciò
che l’aveva spinta a
separarsi da loro quella fatidica notte era ancora viva dentro di lei
e,
sicuramente, suo padre non si era nemmeno sforzato di capirla. Per lui
era
stata una mossa ribelle dettata da un’indole capricciosa. Un
solo secondo e
aveva capito che non aveva motivi per mentire
sull’identità di Beth e sul
perché fosse con lei.
- Non la riconosci? –
chiese al padre, con una punta di
dispetto nella voce – No, non credo. Non ti sei nemmeno
preoccupato di vederla
quando è nata ma una certa somiglianza dovresti almeno
notarla.
- Quinn, dà questa
mocciosa a qualche marinaio e vieni
subito con noi – saltò su Fabray.
Aveva capito, come anche sua moglie
che guardava Quinn e
Beth come se stesse lottando per non stringerle ancora a sé
ma la figura
autoritaria del marito la frenava.
- No, io non verrò con voi
– rispose Quinn, con una serietà
disarmante.
- Quinn, per favore, smettila con
questo tuo atteggiamento –
replicò suo padre, con aria minacciosa – Fai come
ti ho detto ed evitiamo
scenate.
- Io non sto facendo nessuna scenata.
Sto solo dicendo che
non verrò con voi.
- Cosa diamine stai dicendo? Sei
impazzita!
- No, anzi adesso ragiono meglio di
prima.
- Quinn, ti avverto…
- E’ inutile – lo
interruppe Quinn senza scomporsi – Puoi
minacciarmi e strepitare quanto vuoi, ormai non mi interessa
più quello che
pensi, quello che hai da dire. Ancora non l’hai capito?
Eppure non ho tremato
quando ti ho visto né ho abbassato la testa. Non sono
più la
Quinn che conoscevi; la
vecchia Quinn è rimasta sul Titanic. Adesso so cosa voglio
fare della mia vita,
ho scoperto la forza che pensavo di non avere. Voglio essere libera e
indipendente, ne ho tutto il diritto.
- Quinn, ti avverto,
finché vivrai sotto il mio tetto…
- Qui non siamo sotto il tuo tetto e
non sono più una
bambina. Non ti sto chiedendo alcun permesso, ti sto solo riferendo le
mie
intenzioni; pensavo di essere stata chiara ieri notte ma, se invece non
lo sono
stata, torno a ripeterlo per correttezza: prendo la mia strada ed
è diversa
dalla vostra. Non riguarda più voi e me, ma solo
me… e lei – strinse un po’
più
forte Beth che stava guardando quella scena senza azzardarsi a fiatare,
guardando una volta Quinn e un’altra quei due signori a lei
sconosciuti.
Come Judy Fabray era sbiancata e
guardava la figlia con gli
occhi appannati dalle lacrime, Fabray era arrossito per la collera e
solo la
presenza di altre persone che andavano su e giù, con lo
sguardo smorto, fermò
la sua intenzione di gridare.
- Ah, sono queste le tue intenzioni
– disse lui, con una
calma inquietante – E come speri di sopravvivere nel mondo?
Non hai niente.
- Sono viva, sono sopravvissuta, ho
due bracca e due gambe
che funzionano… ho mia figlia. E questo basta.
Fabray sembrò sul punto di
scoppiare, più per il fatto di
non riuscire a trovare una risposta a quelle parole che per le parole
stesse.
Ma sì, che facesse pure come voleva; dopo solo qualche
giorno sarebbe ritornata
strisciando sotto il tetto paterno, allora avrebbe riso lui.
Sì, sarebbe andata
così, ne era certo… sì, sarebbe andata
così… sarebbe andata…
- Judy, vieni via –
ordinò alla moglie, facendo per
andarsene, ma lei non si mosse: spostò lo sguardo
dall’uno all’altra, come
stava facendo Beth solo che, a differenza di quest’ultima,
aveva più
consapevolezza e più possibilità di prendere
partito. Da una parte, ancora una
volta, c’era suo marito, l’uomo che amava
nonostante tutto, e dall’altra sua
figlia che era tutto ciò che lei non era mai stata, che
aveva vista bambina
fino a quel momento ma che adesso era la donna della quale ogni madre
è
orgogliosa. “Ho fatto così poco eppure come
è cresciuta. Mia figlia”. La donna
fece per dire qualcosa ma Fabray la richiamò nuovamente.
Judy non disse nulla;
lanciò un ultimo sguardo a Quinn e a
Beth e seguì il marito.
* * *
Le due scialuppe guidate
dall’ufficiale Lowe, che erano
ritornate indietro per recuperare qualche sopravvissuto tra le persone
finite
in mare, ritornarono con solo sei persone strappate ancora vive
dall’acqua
gelata; altre due erano morte assiderate dopo essere state ripescate ed
erano
state ributtate fuori bordo.
Tutti gli altri erano morti; 1.518
persone.
Quando anche quei sei sopravvissuti
furono issati a bordo
del Carpathia mediante delle barelle improvvisate, la maggior parte
delle 700
persone che aveva a lungo atteso capì che non avrebbe mai
più rivisto i suoi
parenti, i suoi amici, i suoi cari. Puck, Shelby, Kurt, Blaine, Mike,
Tina,
Dave e altri mille nomi; di loro non era rimasto altro che un freddo
involucro
ricoperto di ghiaccio galleggiante sull’acqua.
“Come potrò
dirle cos’è accaduto?” pensò
Quinn, guardando Beth
che, vedendo alcuni bambini aveva preferito scendere dal suo fianco per
unirsi
a loro. “Dovrò dirle di suo padre, di Shelby, di
questa notte ma non adesso;
non ce la farei”. Come stava giocando tranquilla con quei
bambini ed anche loro
erano così sereni come se fosse stato tutto un brutto sogno.
Non c’è posto per
il dolore nella mente di un bambino.
Erano su un ponte aperto in direzione
della prua e lì,
aggrappata alla balaustra, una dei tanti spettri, Carole Hummel-Hudson.
Subito
le si avvicinò con timore, leggendo in quello sguardo perso
il dolore per una
perdita.
- Signora Carole? – la
chiamò piano.
La donna si voltò con uno
scatto; Quinn non si era
sbagliata: sul suo volto era disegnato un dolore di quelli che lasciano
un
segno indelebile.
- Oh, Quinn – disse Carole
con voce fievole, cercando
inutilmente di sorridere – Sono felice che anche tu ce
l’abbia fatta.
- E vostro marito? E Finn?
E… Kurt? – si informò Quinn.
- Anche Burt e Finn sono qui. Kurt,
invece… - Carole non
riuscì a completare la frase perché
un’ondata di lacrime le si bloccò in gola
costringendola a coprire un singhiozzo con la mano. Quinn si
sentì morire
ancora una volta. Era bastata una sola notte a farle perdere il
compagno e
l’amico, a cambiare in maniera così drastica
un’intera esistenza.
- Mi dispiace –
mormorò la ragazza.
- Come è potuta accadere
una cosa simile? – chiese Carole,
non sapendo nemmeno a chi e, in fondo, non aveva nemmeno importanza
– Perché è
successo?
- Non lo so – le rispose
Quinn, perché quella era l’unica
risposta. Non lo so.
Senza che se lo aspettasse, Quinn
sentì Beth afferrarle la
mano con entusiasmo e trascinarla via, con un sorriso emozionato in
volto,
verso un gruppetto di bambini che si era radunato attorno ad una donna
che
faceva ascoltare loro un’allegra musichetta da un piccolo
carillon a forma di
maialino pezzato che suonava dopo avergli tirato la coda, invitando i
bambini a
fare lo stesso*.
Lì intorno si poteva
sentire ciò che non ci si aspettava di
ascoltare in tutta la nave: la risata di un bambino. La vita
continuava,
nonostante tutto. Anche e soprattutto quella di Beth che saltellava
come una
molla, ridacchiando come tutti gli altri bambini ogni volta che la coda
del
maialino veniva tirata. Quinn non trattenne un sorriso che premeva per
uscire.
Così le vide Mercedes che,
quando ritornò da Rachel e Sugar,
disse loro che almeno una vita era stata risparmiata.
* * *
Dopo quattro giorni di viaggio, il
Carpathia arrivò a New
York, di notte, sotto una pioggia scrosciante illuminata solo dai fari
piazzati
sul porto per aiutare i parenti a ritrovarsi e anche dai flash dei
fotografi
che non aspettavano altro che immortalare il momento dello sbarco dei
sopravvissuti e farsi raccontare dai testimoni l’intera
dinamica dei fatti
accaduti.
Raccolte sotto un ampio cappotto per
ripararsi dalla
pioggia, in mezzo a tutti gli altri sopravvissuti di terza classe,
c’erano
anche Mercedes, Rachel e Sugar.
- Chi l’avrebbe mai
immaginato, quando siamo partiti, che
saremo arrivati come un corpo privo di un arto –
meditò Mercedes, guardando le
luci della città farsi sempre più nitide.
- Nessuno avrebbe mai potuto
immaginare una cosa simile –
replicò Rachel che, tra le tre, sembrava quella che meglio
riusciva a resistere
al corso degli eventi – La vita è anche questo,
purtroppo.
- Che cosa faremo, adesso?
– si chiese Sugar, debolmente,
rifugiandosi sotto il braccio di Mercedes.
- Tutto quello che avevamo in mente
di fare all’inizio di
questo viaggio – le rispose Mercedes, riparandola meglio
dalla pioggia – Quello
che abbiamo passato non deve fermarci; tutto andrà come
doveva andare, con i
nostri sogni, le nostre speranze. Ci vorrà ben altro che un
naufragio per
abbatterci.
- Intanto scendiamo – disse
Rachel con un sospiro – Non vedo
l’ora di toccare terra.
E quando il Carpathia, finalmente,
attraccò, le luci vennero
puntate sulle passerelle, dalle quali scesero prima i passeggeri di
prima
classe sui quali scattarono i primi flash, sui coniugi Duff-Gordon che
già
avevano stampato sulle loro fronti il marchio dei codardi, su Madeleine
Astor,
neo sposa e già vedova e su tutto ciò che
rimaneva dei nomi del gran mondo; in
mezzo a loro, nella maniera più anonima possibile, scesero
anche i coniugi
Fabray, più dignitosi di quanto non erano mai stati; venne
poi data la
precedenza ai feriti e agli invalidi e con loro scesero gli
Hummel-Hudson,
azzoppati senza uno dei loro cari, e Sue Sylvester che sosteneva per le
spalle
un ragazzo col piede congelato; per finire, accompagnati solo
dall’interesse
dei parenti in attesa, scesero anche i passeggeri di seconda e di terza
classe.
Con loro scesero, sotto un enorme cappotto, Rachel e Mercedes e Sugar
e, con in
braccio Beth insonnolita che si copriva gli occhi per non farsi
accecare da
quelle luci troppo forti, anche Quinn, in lei la forza e la decisione
di chi
vuole iniziare e affrontare la vita che prosegue in una nuova
direzione.
Quando anche l’ultimo
passeggero toccò il suolo americano e
le passerelle furono ritirate, i fari si spensero come le luci di un
palcoscenico alla fine di uno spettacolo. Se la fu, fu solo la fine di
un primo
atto.
Quando
ripenso a tutte
le persone che conoscevo e che si trovavano lì con me, su
quella nave e che
sono affondate assieme ad essa, mi domando sempre: perché io
sono sopravvissuto
e loro no? Sono finito su quella scialuppa solo per sentire il pianto
di mia
madre? E la disperazione di Burt? Per leggere le mie stesse domande sul
volto
di tutte quelle altre persone che si sono salvate?
Quando sono
partita da
Southampton ero ancora una ragazza della buona società che
credeva che tutto le
fosse concesso perché apparteneva ad una classe
più elevata; solo ora, dopo
aver visto quanto può costare la separazione in classi,
quanto può essere
straziante l’urlo di centinaia di persone che muoiono
nell’acqua gelata, mi
sento veramente una donna in dovere di farsi carico del suo ruolo nel
mondo e
il mio ruolo non sarà facile ma ce la farò a
sostenerlo. Perché ho la vita
dalla mia parte. Mi chiamo Quinn Lucy Fabray e questa è
Beth, mia figlia.
Kurt Hummel, Shelby Corcoran,
Noah Puckerman,
Dave Karofsky, Blaine Anderson, Tina Cohen Chang, Mike
Chang… Persone
che conoscevamo e altre che invece abbiamo, forse, solo intravisto in
uno di
quei corridoi adesso sommersi dalle acque e dove si aggirano solo le
creature
delle profondità dell’oceano.
Ci hanno
ossessionati
con i loro richiami e le loro richieste di aiuto quando noi non li
ascoltavamo;
adesso che noi li chiamiamo sono loro che non ci ascoltano.
* * *
Il naufragio del Titanic
segnò la fine della Belle Epoque,
l’epoca del “progresso” e
dell’illusione di aver raggiunto una nuova età
dell’oro con il suo mondo ricco e pieno di sorrisi
soddisfatti e vanagloriosi.
Due anni dopo, a Sarajevo, un altro
tragico avvenimento
scatenò l’irreparabile e quel secolo che era stato
salutato come l’epoca della
prosperità sarebbe stato soffocato dal fumo della Prima
Guerra Mondiale.
FINE
Nota
dell’autore:
* La donna in questione era Edith
Russel (1879-1975),
passeggera di prima classe che, prima di salire su una scialuppa,
ritornò in
cabina solo per recuperare il suo portafortuna: un carillon a forma di
maialino
pezzato. Ed ecco il maialino (del quale oggi non rimangono che pochi
frammenti
battuti all’asta):
http://i.telegraph.co.uk/multimedia/archive/02649/titanic-musical-pi_2649693k.jpg
Ed eccoci, finalmente, giunti alla
conclusione di questa
storia. Vi ho fatto penare e vi chiedo scusa; se può
consolarvi, ho sofferto di
più io ad arrivare alla conclusione.
Avrei voluto che mi riuscisse meglio
come finale visto che
mi è venuto un po’ troppo stiracchiato,
specialmente verso la fine ma con la
testa sono già ad una OS che mi è venuta in mente
qualche settimana fa. Sì
perché, tranne una rara eccezione (coff*smut*coff)
passerò alle OS per il
momento.
Mi permetto di concludere qui,
ringraziando di cuore tutte
le carissime persone che mi hanno seguito in questo
“viaggio” (scusate il
triste esempio), che hanno inserito questa fanfiction tra le preferite,
le
ricordate e le seguite, chi mi ha fatto sapere la sua opinione e chi ha
semplicemente letto; mi avete dato voi la forza di arrivare fino al
capitolo
finale J
Se volete continuare a seguirmi e per
sapere quando posterò
la mia OS e un’altra possibile mini-long
(coff*smut*coff*smut*coff*smut*coff) questo
è l’indirizzo della mia pagina facebook: http://www.facebook.com/pages/Lusio-EFP/162610203857483
Mando un
“Ciaoooooo” a tutti e auguro una buona visione a
chi vedrà la diretta stanotte (io no perché ho
sempre la sveglia alle sette -
-‘)
Lusio
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