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Autore: Lusio    08/11/2012    6 recensioni
A diciannove anni Quinn Lucy Fabray continuava a credere che tutto le fosse concesso, ma con le dovute conseguenze.
Noah Puckerman (ma preferiva essere chiamato Puck) voleva dare a sua figlia la vita migliore che potesse offrirle.
I Fabray volevano il loro posto nel mondo.
Gli Hummel-Hudson volevano scoprire il mondo.
Sue Sylvester voleva cambiare il mondo.
Dave Karofsky voleva una vita che fosse solo sua.
Rachel, Mercedes e Sugar avevano i loro sogni e le loro aspirazioni.
Mike e Tina volevano sposarsi nella terra delle grandi opportunità.
Blaine voleva raggiungere suo fratello.
Beth voleva stare in braccio a mamma Shelby.
Vite diverse che si incontrano in un unico destino. Un passato che ritorna. Una splendida nave che solca l'oceano. Un enorme blocco di ghiaccio alla deriva. Una data fatale.
14 Aprile 1912
Genere: Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Quinn Fabray, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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La chiave del futuro è andare avanti

 

Quinn non aveva mai desiderato tanto di dormire come in quel momento; quella notte li aveva provati tutti ed ora che sembrava tutto finito la fatica mentale e fisica iniziava a farsi sentire. Almeno a lei era stata risparmiata la fatica dei remi, visto che portava in braccio quella bambina; non che con lei si stesse più tranquilli. Parlare di “tranquillità” in quel frangente, poi, era un assurdità. Per quanto l’avesse stretta a sé, consolata e baciata, alla fine si era calmata perché stremata dal pianto e si era assopita.

Quinn avrebbe voluto sfilarsi una manica della sua giacca per coprire meglio la bimba ma il salvagente glielo impediva e quindi dovette limitarsi a stringerla ancora di più e a soffiarle il suo alito caldo sulle manine intirizzite.

Avrebbe dovuto sentirsi orgogliosa per quella vita strappata al pericolo, ma quel visino imbronciato ancora scosso dai singhiozzi le riportò alla mente la sua missione fallita: a Beth, a Puck. Continuava a chiedersi “si saranno salvati?”, “forse sono su un’altra scialuppa?”, “perché ho lasciato che Kurt mi facesse salire su questa scialuppa?”. Le ritornò in mente anche Kurt, suo padre e il suo fratellastro. Forse loro erano riusciti a mettersi in salvo. Ma Beth e Puck. Quali sicurezze poteva nutrire per loro?

Ma poi, potevano dirsi davvero in salvo? Separati, su quelle piccole imbarcazioni in mezzo all’oceano, senza un po’ di luce a parte la luna e le stelle? Qualche altra nave, più sicura del Titanic, li avrebbe soccorsi o si sarebbero ritrovati a solcare le acque come spettri di una tragedia appena conclusasi? Se continuava con questi interrogativi sentiva che sarebbe impazzita.

“Vorrei solo addormentarmi, come questa bambina, addormentarmi e smettere di pensare”.

Quasi sul punto di assopirsi, sentì un piccolo movimento seguito da un debole piagnucolio da parte della bambina.

- Cosa c’è piccola? – le sussurrò teneramente con uno stanco sospiro. Un calore umido sul suo grembo fu la risposta. Fu tentata, di scatto, di allontanarla ma la stanchezza unita alla compassione la frenarono; iniziò a cullarla e ad accarezzarle la testolina bionda – No, no, non piangere. Non è nulla, piccola, non è nulla. Tranquilla, non è nulla. Non piangere, su. Va tutto bene.

Dopo un po’, i lamenti si placarono e anche Quinn cadde in dormiveglia, lasciandosi andare a pochi minuti di riposo, prima che le prime luci rischiarassero il cielo.

A risvegliarla la seconda volta ci pensarono le persone sulla scialuppa, scosse da una forte agitazione. La ragazza fu quasi tentata di far finta di nulla e di continuare a tenere gli occhi chiusi; l’ultima cosa che voleva era un ennesimo motivo per allarmarsi. Ma quando una donna, seduta a fianco a lei, esclamò “Una nave! Laggiù!” spalancò di scatto gli occhi, vedendo in lontananza proprio una nave.

In quel momento non importava quanto fosse meno maestosa e meno ricca del Titanic; nessuno era mai stato così sollevato al pensiero di non essere più soli e abbandonati nell’oceano.

Per segnalare la loro presenza, alcuni diedero fuoco a fazzoletti e a pezzi di carta che si trovavano nelle loro tasche, sventolandole a mo’ di lanterne; una signora fece accendere anche il suo ricco e grande cappello, alzandolo sulle teste di tutti come la fiaccola della Statua della Libertà.

Quando la raggiunsero, lessero sulla sua fiancata “Carpathia”.

Dal ponte chiesero “Ci sono feriti?” Risposta negativa. E di nuovo “Ci sono bambini?” Risposta affermativa. E assieme ad una scaletta calarono anche un sacco di tela legato ad una corda. “Usate questa per far salire i bambini. Avanti, chi sale per prima?”

Gli eventi, la stanchezza, il dolore avevano tolto la forza di muoversi alle donne sulle scialuppe; ma Quinn, col cuore della bambina che sentiva battere contro il suo, si alzò all’istante e si avvicinò all’enorme fiancata della nave. Quando fece per mettere nel sacco la piccola, quest’ultima le si strinse ancora di più al collo, non volendo essere lasciata.

- Non avere paura – le disse subito Quinn – Non ti lascio, tranquilla. Ti metto in questo sacco così puoi salire sulla nave, poi ti riprendo subito appena siamo sopra.

- No, nave no – pianse debolmente la bambina – Nave brutta. Nave si rompe e va in acqua.

- No, no, no – la baciò Quinn, sentendosi stringere il cuore – Questa nave non si rompe, tranquilla, non si rompe – e la adagiò nel sacco facendo una leggera pressione affinché la lasciasse.

E senza lasciare i suoi occhi che la fissavano facendo capolino dal sacco, salì la scala di corde, arrivando a bordo nello stesso momento in cui i marinai avevano issato la bambina, riprendendola subito in braccio per tranquillizzarla.

- Avete bisogno di qualcosa, signora? – le chiese educatamente un marinaio.

- Del latte caldo, per la bambina – rispose subito Quinn – E, se è possibile, anche un cambio di biancheria e un vestito pulito.

- Per voi, signora?

- No, sempre per la bambina. A me non occorre nulla – rispose nuovamente, dimenticando lo stato pietoso in cui versava lei stessa.

Furono accompagnate in una cabina messa a disposizione da una dei passeggeri del Carpathia; c’erano già molti altri naufraghi del Titanic: i più ricchi erano stati ospitati nelle cabine dei passeggeri della nave che li aveva raccolti; i più poveri erano stati spostati nei solai assieme ai feriti o nelle sale di ritrovo delle varie classi. Quinn venne fatta accomodare in una piccola cabina di seconda classe.

- La signora che alloggia qui – disse il marinaio – sta assistendo alcune delle persone che abbiamo raccolto qualche ora fa. E’ un’infermiera, sapete? Ma ha lasciato detto che la sua cabina era a disposizione di chiunque ne avesse avuto bisogno.

- Grazie. Potrei permettermi, quindi, di usare la toilette per pulire la bambina?

- Sì, certo. Vi farò portare subito del latte e un cambio per la bimba.

Leggermente in imbarazzo, il marinaio uscì subito dalla cabina, lasciandole da sole.

Sicuramente ancora sconvolta da quello che aveva vissuto, la bambina non alzò la testa dal seno di Quinn e le manine tennero strette i bordi del salvagente di Quinn, decise a non lasciarla. Ma la ragazza non poteva lasciarla in quelle condizioni pietose.

- Su, piccola, adesso ci laviamo, ci mettiamo dei vestiti puliti e ci prendiamo un po’ di latte così poi… - si interruppe, dopo averla fatta sedere  sul piccolo letto della cabina per toglierle l’ingombrante salvagente (dopo esserselo tolto a sua volta per essere più libera nei movimenti), colpita dall’espressione triste e imbronciata… che era sicurissima di aver già visto, come quei capelli biondi, i contorni stessi del viso – Mi vuoi dire come ti chiami, tesoro? – le chiese dolcemente, ridestandosi.

La bambina rimase in silenzio, con lo sguardo basso.

Proprio in quel momento il marinaio ritornò portando con sé un vestito pulito e un cambio di biancheria di una fattura molto più curata di quella che la bambina senza nome aveva, per poi uscire di nuovo promettendo di portare subito anche il latte.

Visto che la piccola senza nome si ostinava a tenderle le braccia, Quinn la riprese in braccio, appoggiandosela sul fianco e, prendendo vestiti e biancheria col braccio libero la portò nella toilette; non era grande come quella della sua cabina, pensò rabbrividendo ricordando che quel piccolo spazio intimo si trovava, in quel momento, sul fondo dell’oceano, ma quel che le occorreva c’era: un lavandino e degli asciugamani.

Mise la bambina seduto sul rivestimento in legno che circondava il lavandino e le tolse il vestitino e la biancheria sporca e quando la lasciò nuda, con i piedini che si strofinavano tra loro per il freddo, vide un’altra cosa che le trapassò il petto da parte a parte: un neo vicino all’ombelico. Si passò involontariamente la mano sul ventre, lì dove sapeva esserci un segno identico a quello che vedeva.

Poteva essere… ma forse no, forse era un caso… ma perché, allora… era la paura di sbagliarsi o di illudersi o forse proprio che tutto quello che pensava fosse vero…

Un breve lamento a labbra serrate da parte della bambina a causa del freddo, riportarono alla realtà Quinn che subito, quasi a voler tenere la mente occupata, prese uno degli asciugamani, lo bagnò con dell’acqua tiepida e iniziò a passarlo sulle gambine, sulle intimità e sul pancino infantili ripulendoli dall’urina; ma tutto questo non le impediva certo di pensare. Se teneva lo sguardo basso vedeva quel neo e se lo alzava incontrava quel volto familiare.

- Voglio papà Puck e mamma Shelby – mormorò la bambina mentre due lacrime le fuggivano dagli occhi.

Ogni muro, ogni resistenza crollò in quel preciso istante.

Quinn rivolse gli occhi, stavolta in maniera definitiva, a… poteva chiamarla per nome.

- Beth.

Sentendosi interpellata, quest’ultima alzò a sua volta lo sguardo, incuriosita e titubante.

Stava accadendo tutto troppo in fretta e Quinn sentì ancora la stanchezza assalirla; ma aveva aspettato quel momento da anni, lo aveva desiderato, se ne era resa conto quel giorno sul ponte del Titanic, ma non se lo sarebbe mai immaginato, né lo avrebbe mai voluto così, da sola, senza sapere che dire pur avendo tante cose da dire. Ma forse, anzi sicuramente, era troppo presto per entrambe.

Per le parole ci sarebbe stato tempo… ma adesso…

Come per darle una risposta, Quinn si alzò la veste fin sopra il ventre scoprendo ed indicando quello stesso punto un po’ più sopra dell’ombelico, desiderosa di farle capire con un dito quello che non avrebbe saputo spiegarle a parole.

Con quel linguaggio per lei comprensibilissimo, Beth rispose a Quinn indicando a sua volta il suo stesso neo. Si presentarono in quel modo bizzarro.

- Mamma Stella? – chiese Beth, spostando il ditino da sé verso Quinn che la fissò un po’ basita.

- Mamma – disse la ragazza indicandosi, con un groppo alla gola che le strozzò la parola.

Era una situazione stranissima e anche imbarazzante ma Quinn avrebbe solo voluto abbracciarla; sentiva il forte desiderio di stringere  quel piccolo pezzo di sé che aveva ritrovato ma non avrebbe mai voluto forzare la bambina a fare una cosa che lei non voleva. Eppure, inaspettatamente, Beth si sporse verso di lei con le piccole braccia tese per ricevere un abbraccio; non c’era gioia o emozione alcuna sul suo viso però, sembrava solo che stesse adempiendo ad un obbligo, per educazione e Quinn non avrebbe potuto richiedere di più. Più in là, magari… Ma adesso aveva l’obbligo di cercare Puck e la donna che aveva cresciuto Beth per rassicurarli sulla salvezza di quest’ultima; sicuramente per restituirla, ma adesso l’aveva vista, erano entrate insieme in una nuova vita e non si sarebbero mai più perse.

Chissà la confusione che ci sarebbe stata nel ritrovare i parenti e gli amici persi di vista… e di certo, il dolore per chi non ce l’aveva fatta. Avrebbe cercato di rintracciare anche gli Hummel-Hudson per accertarsi della loro sopravvivenza.

Quinn asciugò Beth e la rivestì con i panni puliti portati dal marinaio. La riportò, poi, sul letto per farla riposare un po’; anche quando fece per distenderla, la bambina si tenne aggrappata a lei e Quinn non poté fare altro che stendersi a sua volta sul letto.

Dopo un po’ la porta della cabina si aprì ed una signora magra, con addosso una vestaglia di lana, entrò portando su un vassoio due tazze di latte fumante.

- No, state, state – fece la donna vedendo Quinn pronta ad alzarsi – Mi hanno detto di voi e mi sono permessa di portarvi personalmente il latte per la bambina ed ho pensato di portarne anche per voi. Ah, se vi occorrono dei vestiti puliti potete usare in miei, naturalmente. Sono l’inquilina della cabina.

- Mi dispiace per il fastidio che vi stiamo dando – si scusò Quinn.

- Non ditelo nemmeno – replicò la donna, sincera – Dopo quello che avete passato – e non aggiunse altro per paura di mettere il dito in una piaga ancora fresca e, di questo, Quinn le fu grata – Che bella bambina – cambiò argomento la donna guardando Beth addormentata – E’ vostra?

- Sì. E’ mia figlia.

E con quelle parole, Quinn diede la buonanotte alla vecchia se stessa per accogliere la nuova.

 

* * *

 

Da quando era salita sul Carpathia, la battagliera Sue Sylvester non aveva detto nulla, non si era lamentata né aveva strepitato contro l’organizzazione dei soccorsi. Aveva rifiutato ogni aiuto offertole dallo staff e dai passeggeri della nave, si era rimboccata le maniche ed aveva iniziato a girare tra tutti i suoi compagni di sventura; non chiedeva loro a quale classe appartenessero, chiedeva solo se avessero bisogno qualcosa e, assieme ad altre donne iniziò a prendersi cura dei feriti e delle madri con i loro figli che avevano perso i loro compagni.

Quando il grosso dei naufraghi fu recuperato, gli ufficiali del Carpathia, con l’aiuto degli ufficiali in seconda del Titanic, ricostruirono il corso degli eventi e stilarono una lista approssimativa dei passeggeri del transatlantico affondato, chiedendo anche alle persone a bordo nomi e informazioni su possibili dispersi in modo da aiutarli a ritrovare amici e parenti separati durante gli imbarchi.

Essendo nell’elenco di quelli di prima classe, Carole riuscì subito a ritrovare suo marito Burt; ebbero solo il tempo di abbracciarsi per poi concentrarsi su ciò che per loro era più importante: i loro figli. Girarono disperati per tutta la nave chiedendo loro notizie ad ogni marinaio munito di un elenco di nomi o ad ogni persona che conoscevano ma con nessun risultato. Col cuore in gola, i due coniugi andarono nella sala adibita a infermeria e zona ospedaliera, passando in rassegna tutte le brandine, con la speranza di trovare Kurt e Finn, magari anche feriti ma almeno vivi. Arrivarono anche a sollevare le coperte per vedere meglio chi vi si nascondeva e nessuno disse loro nulla, forse per la stanchezza o più probabilmente perché potevano capire il loro stato d’animo.

- Eccolo – scattò Carole ad un tratto, correndo verso una determinata branda seguita da un pallido Burt.

C’era Finn su quella brandina, con un braccio fasciato e un occhio bendato e la schiena appoggiata interamente su un cuscino sollevato. Una ragazza minuta stava cercando di fargli mandar giù qualche cucchiaio di brodo.

- Finn! Finn sei vivo – disse Carole gettandosi ai piedi della branda afferrando le mani del figlio, strappandogli un leggero gemito – Cosa gli è successo? – chiese con apprensione alla ragazza che si era alzata in piedi.

- E’ caduto nella scialuppa dove mi trovavo – spiegò lei, la voce fievole per l’agitazione – A quanto ho capito ha spezzato una delle funi che si era inceppata e che ci impediva di scendere in mare e quella stessa fune lo ha colpito all’occhio e lo ha fatto cadere. Io e due mie amiche gli abbiamo fasciato l’occhio meglio che potevamo, ma si è ferito anche al braccio e alla schiena. Dopo passerà il medico per visitarlo.

Ma le parole della ragazza, sebbene ascoltate con attenzione da Carole, furono subito coperte da quelle più forti, allarmate, di Burt che aveva raggiunto la moglie al capezzale di Finn dopo essere rimasto per un bel po’ fermo a guardarsi intorno, sperando di incontrare lo sguardo di suo figlio.

- Dov’è Kurt? – quasi urlò l’uomo, chinandosi su Finn – Finn, dov’è Kurt?

Finn non ebbe alcuna reazione, come se avesse avuto due bende su entrambi gli occhi invece di una.

Comprendendo il momento delicato, la ragazza, mormorando qualche parola di scuse che nessuno sentì, posò la scodella di brodo su una sedia lì vicino e se ne andò lanciando delle occhiate colme di rimorso verso quel doloroso terzetto.

- Finn, dimmi dov’è Kurt? – strepitò di nuovo Burt, trattenendosi per non strattonare il ragazzo.

- Finn, ti prego, cos’è successo? – ebbe solo la forza di chiedere Carole , temendo il peggio.

- L’ho cercato dappertutto – la voce di Finn uscì rauca e gracchiante dal profondo della sua gola secca – C’era tanta gente che correva e urlava. Io lo chiamavo ma nessuno rispondeva. Poi quel ragazzo mi ha chiesto di aiutarli ed io ho usato l’accetta per tagliare la corda. Mi hanno colpito in faccia. Sono caduto. Ho cercato di ritornare indietro e risalire sulla nave ma la gente mi impediva di muovermi. Io dovevo risalire. Nessuno lo voleva capire. Non potevo lasciarlo solo. Dovevo trovarlo. Lui è mio fratello… - quel confuso ammasso di mezze frasi si ridusse ad un rantolo ripetuto all’infinito , il delirio di una mente sconvolta e ferita.

- O mio Dio, no! – saltò su Burt, correndo come un pazzo continuando a chiamare – Kurt! Kurt!

Mentre Carole affondava il viso nel petto di Finn, soffocando un grido, e suo figlio continuava a borbottare sotto voce in maniera lamentosa, senza pensare alla scarica di dolore che la stretta della madre gli causava.

 

* * *

 

Dopo essersi ristorate e riposate, Quinn decise di salire sul ponte con Beth, sia per far prendere un po’ d’aria a quest’ultima, sia per farsi registrare e farsi dare notizie di Puck o di qualcun altro che volesse sapere della bambina. Il sole era sorto su un nuovo giorno e sullo sfondo del mare, quasi bianco dopo averlo visto completamente nero la notte prima; ciò di cui erano stati testimoni aveva lasciato i suoi segni su tutti, sulle persone che si erano autorecluse negli interni, su quelle che guardavano il mare con occhi sbarrati e rabbiosi, su chi vagava sul ponte del Carpathia come uno spettro, su Beth che, terrorizzata, rimaneva aggrappata a Quinn e il visino sepolto nell’incavo del collo della ragazza; e anche Quinn si sentiva rabbrividire e non certo per il freddo.

Disse il suo nome e quello della bambina al primo marinaio munito di elenco che incontrò e gli diede anche il nome di Noah Puckerman e di Shelby Corcoran (sperava di non aver sbagliato nome) cercando loro notizie.

- Non sono sugli elenchi – e Quinn si sentì morire a quelle parole – Ma non dovete preoccuparvi; dobbiamo ancora registrare altre persone e chissà quante altre dobbiamo ancora recuperare. Provate a domandare di nuovo tra un’ora, o due – Quinn si sentì un po’ rassicurato ma il senso di dolore non la lasciò; diede un bacio a Beth fingendo di rassicurarla quando, in realtà, era lei ad aver bisogno di rassicurazione.

Si era completamente scordata dei suoi genitori tanto che rimase per qualche istante stupita quando sentì la voce di sua madre chiamarla, emozionata, seguita da una stretta soffocante. L’odore dei capelli biondicci che le solleticarono il naso era senza ombra di dubbio di sua madre.

- Oh, Quinn, Quinn – piagnucolò la donna senza nemmeno accorgersi della bambina tenuta in braccio dalla figlia che iniziava a dimenarsi in mezzo a quelle due masse che quasi la schiacciavano – Non hai idea di quanta paura ho avuto. Temevo di non rivederti mai più.

Alle spalle di Judy Fabray, Quinn vide avanzare anche la figura di suo padre che, prima, le lanciò un’occhiata basita che si cambiò, poi, in truce e severa.

- Cosa ti è saltato in mente!? – esclamò, spingendo la moglie a lasciare la sua presa sulla figlia per guardarla in faccia – Sai cosa ci hai fatto passare? Tu... – proprio in quel momento Fabray notò la bambina in braccio a Quinn – E questa da dove salta fuori?

In quei pochi secondi, Quinn si era già preparata a non dare importanza a qualunque cosa il padre le avrebbe detto; ciò che l’aveva spinta a separarsi da loro quella fatidica notte era ancora viva dentro di lei e, sicuramente, suo padre non si era nemmeno sforzato di capirla. Per lui era stata una mossa ribelle dettata da un’indole capricciosa. Un solo secondo e aveva capito che non aveva motivi per mentire sull’identità di Beth e sul perché fosse con lei.

- Non la riconosci? – chiese al padre, con una punta di dispetto nella voce – No, non credo. Non ti sei nemmeno preoccupato di vederla quando è nata ma una certa somiglianza dovresti almeno notarla.

- Quinn, dà questa mocciosa a qualche marinaio e vieni subito con noi – saltò su Fabray.

Aveva capito, come anche sua moglie che guardava Quinn e Beth come se stesse lottando per non stringerle ancora a sé ma la figura autoritaria del marito la frenava.

- No, io non verrò con voi – rispose Quinn, con una serietà disarmante.

- Quinn, per favore, smettila con questo tuo atteggiamento – replicò suo padre, con aria minacciosa – Fai come ti ho detto ed evitiamo scenate.

- Io non sto facendo nessuna scenata. Sto solo dicendo che non verrò con voi.

- Cosa diamine stai dicendo? Sei impazzita!

- No, anzi adesso ragiono meglio di prima.

- Quinn, ti avverto…

- E’ inutile – lo interruppe Quinn senza scomporsi – Puoi minacciarmi e strepitare quanto vuoi, ormai non mi interessa più quello che pensi, quello che hai da dire. Ancora non l’hai capito? Eppure non ho tremato quando ti ho visto né ho abbassato la testa. Non sono più la Quinn che conoscevi; la vecchia Quinn è rimasta sul Titanic. Adesso so cosa voglio fare della mia vita, ho scoperto la forza che pensavo di non avere. Voglio essere libera e indipendente, ne ho tutto il diritto.

- Quinn, ti avverto, finché vivrai sotto il mio tetto…

- Qui non siamo sotto il tuo tetto e non sono più una bambina. Non ti sto chiedendo alcun permesso, ti sto solo riferendo le mie intenzioni; pensavo di essere stata chiara ieri notte ma, se invece non lo sono stata, torno a ripeterlo per correttezza: prendo la mia strada ed è diversa dalla vostra. Non riguarda più voi e me, ma solo me… e lei – strinse un po’ più forte Beth che stava guardando quella scena senza azzardarsi a fiatare, guardando una volta Quinn e un’altra quei due signori a lei sconosciuti.

Come Judy Fabray era sbiancata e guardava la figlia con gli occhi appannati dalle lacrime, Fabray era arrossito per la collera e solo la presenza di altre persone che andavano su e giù, con lo sguardo smorto, fermò la sua intenzione di gridare.

- Ah, sono queste le tue intenzioni – disse lui, con una calma inquietante – E come speri di sopravvivere nel mondo? Non hai niente.

- Sono viva, sono sopravvissuta, ho due bracca e due gambe che funzionano… ho mia figlia. E questo basta.

Fabray sembrò sul punto di scoppiare, più per il fatto di non riuscire a trovare una risposta a quelle parole che per le parole stesse. Ma sì, che facesse pure come voleva; dopo solo qualche giorno sarebbe ritornata strisciando sotto il tetto paterno, allora avrebbe riso lui. Sì, sarebbe andata così, ne era certo… sì, sarebbe andata così… sarebbe andata…

- Judy, vieni via – ordinò alla moglie, facendo per andarsene, ma lei non si mosse: spostò lo sguardo dall’uno all’altra, come stava facendo Beth solo che, a differenza di quest’ultima, aveva più consapevolezza e più possibilità di prendere partito. Da una parte, ancora una volta, c’era suo marito, l’uomo che amava nonostante tutto, e dall’altra sua figlia che era tutto ciò che lei non era mai stata, che aveva vista bambina fino a quel momento ma che adesso era la donna della quale ogni madre è orgogliosa. “Ho fatto così poco eppure come è cresciuta. Mia figlia”. La donna fece per dire qualcosa ma Fabray la richiamò nuovamente.

Judy non disse nulla; lanciò un ultimo sguardo a Quinn e a Beth e seguì il marito.

 

* * *

 

Le due scialuppe guidate dall’ufficiale Lowe, che erano ritornate indietro per recuperare qualche sopravvissuto tra le persone finite in mare, ritornarono con solo sei persone strappate ancora vive dall’acqua gelata; altre due erano morte assiderate dopo essere state ripescate ed erano state ributtate fuori bordo.

Tutti gli altri erano morti; 1.518 persone.

Quando anche quei sei sopravvissuti furono issati a bordo del Carpathia mediante delle barelle improvvisate, la maggior parte delle 700 persone che aveva a lungo atteso capì che non avrebbe mai più rivisto i suoi parenti, i suoi amici, i suoi cari. Puck, Shelby, Kurt, Blaine, Mike, Tina, Dave e altri mille nomi; di loro non era rimasto altro che un freddo involucro ricoperto di ghiaccio galleggiante sull’acqua.

“Come potrò dirle cos’è accaduto?” pensò Quinn, guardando Beth che, vedendo alcuni bambini aveva preferito scendere dal suo fianco per unirsi a loro. “Dovrò dirle di suo padre, di Shelby, di questa notte ma non adesso; non ce la farei”. Come stava giocando tranquilla con quei bambini ed anche loro erano così sereni come se fosse stato tutto un brutto sogno. Non c’è posto per il dolore nella mente di un bambino.

Erano su un ponte aperto in direzione della prua e lì, aggrappata alla balaustra, una dei tanti spettri, Carole Hummel-Hudson. Subito le si avvicinò con timore, leggendo in quello sguardo perso il dolore per una perdita.

- Signora Carole? – la chiamò piano.

La donna si voltò con uno scatto; Quinn non si era sbagliata: sul suo volto era disegnato un dolore di quelli che lasciano un segno indelebile.

- Oh, Quinn – disse Carole con voce fievole, cercando inutilmente di sorridere – Sono felice che anche tu ce l’abbia fatta.

- E vostro marito? E Finn? E… Kurt? – si informò Quinn.

- Anche Burt e Finn sono qui. Kurt, invece… - Carole non riuscì a completare la frase perché un’ondata di lacrime le si bloccò in gola costringendola a coprire un singhiozzo con la mano. Quinn si sentì morire ancora una volta. Era bastata una sola notte a farle perdere il compagno e l’amico, a cambiare in maniera così drastica un’intera esistenza.

- Mi dispiace – mormorò la ragazza.

- Come è potuta accadere una cosa simile? – chiese Carole, non sapendo nemmeno a chi e, in fondo, non aveva nemmeno importanza – Perché è successo?

- Non lo so – le rispose Quinn, perché quella era l’unica risposta. Non lo so.

Senza che se lo aspettasse, Quinn sentì Beth afferrarle la mano con entusiasmo e trascinarla via, con un sorriso emozionato in volto, verso un gruppetto di bambini che si era radunato attorno ad una donna che faceva ascoltare loro un’allegra musichetta da un piccolo carillon a forma di maialino pezzato che suonava dopo avergli tirato la coda, invitando i bambini a fare lo stesso*.

Lì intorno si poteva sentire ciò che non ci si aspettava di ascoltare in tutta la nave: la risata di un bambino. La vita continuava, nonostante tutto. Anche e soprattutto quella di Beth che saltellava come una molla, ridacchiando come tutti gli altri bambini ogni volta che la coda del maialino veniva tirata. Quinn non trattenne un sorriso che premeva per uscire.

Così le vide Mercedes che, quando ritornò da Rachel e Sugar, disse loro che almeno una vita era stata risparmiata.

 

* * *

 

Dopo quattro giorni di viaggio, il Carpathia arrivò a New York, di notte, sotto una pioggia scrosciante illuminata solo dai fari piazzati sul porto per aiutare i parenti a ritrovarsi e anche dai flash dei fotografi che non aspettavano altro che immortalare il momento dello sbarco dei sopravvissuti e farsi raccontare dai testimoni l’intera dinamica dei fatti accaduti.

Raccolte sotto un ampio cappotto per ripararsi dalla pioggia, in mezzo a tutti gli altri sopravvissuti di terza classe, c’erano anche Mercedes, Rachel e Sugar.

- Chi l’avrebbe mai immaginato, quando siamo partiti, che saremo arrivati come un corpo privo di un arto – meditò Mercedes, guardando le luci della città farsi sempre più nitide.

- Nessuno avrebbe mai potuto immaginare una cosa simile – replicò Rachel che, tra le tre, sembrava quella che meglio riusciva a resistere al corso degli eventi – La vita è anche questo, purtroppo.

- Che cosa faremo, adesso? – si chiese Sugar, debolmente, rifugiandosi sotto il braccio di Mercedes.

- Tutto quello che avevamo in mente di fare all’inizio di questo viaggio – le rispose Mercedes, riparandola meglio dalla pioggia – Quello che abbiamo passato non deve fermarci; tutto andrà come doveva andare, con i nostri sogni, le nostre speranze. Ci vorrà ben altro che un naufragio per abbatterci.

- Intanto scendiamo – disse Rachel con un sospiro – Non vedo l’ora di toccare terra.

E quando il Carpathia, finalmente, attraccò, le luci vennero puntate sulle passerelle, dalle quali scesero prima i passeggeri di prima classe sui quali scattarono i primi flash, sui coniugi Duff-Gordon che già avevano stampato sulle loro fronti il marchio dei codardi, su Madeleine Astor, neo sposa e già vedova e su tutto ciò che rimaneva dei nomi del gran mondo; in mezzo a loro, nella maniera più anonima possibile, scesero anche i coniugi Fabray, più dignitosi di quanto non erano mai stati; venne poi data la precedenza ai feriti e agli invalidi e con loro scesero gli Hummel-Hudson, azzoppati senza uno dei loro cari, e Sue Sylvester che sosteneva per le spalle un ragazzo col piede congelato; per finire, accompagnati solo dall’interesse dei parenti in attesa, scesero anche i passeggeri di seconda e di terza classe. Con loro scesero, sotto un enorme cappotto, Rachel e Mercedes e Sugar e, con in braccio Beth insonnolita che si copriva gli occhi per non farsi accecare da quelle luci troppo forti, anche Quinn, in lei la forza e la decisione di chi vuole iniziare e affrontare la vita che prosegue in una nuova direzione.

Quando anche l’ultimo passeggero toccò il suolo americano e le passerelle furono ritirate, i fari si spensero come le luci di un palcoscenico alla fine di uno spettacolo. Se la fu, fu solo la fine di un primo atto.

 

Quando ripenso a tutte le persone che conoscevo e che si trovavano lì con me, su quella nave e che sono affondate assieme ad essa, mi domando sempre: perché io sono sopravvissuto e loro no? Sono finito su quella scialuppa solo per sentire il pianto di mia madre? E la disperazione di Burt? Per leggere le mie stesse domande sul volto di tutte quelle altre persone che si sono salvate?

 

Quando sono partita da Southampton ero ancora una ragazza della buona società che credeva che tutto le fosse concesso perché apparteneva ad una classe più elevata; solo ora, dopo aver visto quanto può costare la separazione in classi, quanto può essere straziante l’urlo di centinaia di persone che muoiono nell’acqua gelata, mi sento veramente una donna in dovere di farsi carico del suo ruolo nel mondo e il mio ruolo non sarà facile ma ce la farò a sostenerlo. Perché ho la vita dalla mia parte. Mi chiamo Quinn Lucy Fabray e questa è Beth, mia figlia.

 

Kurt Hummel, Shelby Corcoran, Noah Puckerman, Dave Karofsky, Blaine Anderson, Tina Cohen Chang, Mike Chang… Persone che conoscevamo e altre che invece abbiamo, forse, solo intravisto in uno di quei corridoi adesso sommersi dalle acque e dove si aggirano solo le creature delle profondità dell’oceano.

Ci hanno ossessionati con i loro richiami e le loro richieste di aiuto quando noi non li ascoltavamo; adesso che noi li chiamiamo sono loro che non ci ascoltano.

 

* * *

 

Il naufragio del Titanic segnò la fine della Belle Epoque, l’epoca del “progresso” e dell’illusione di aver raggiunto una nuova età dell’oro con il suo mondo ricco e pieno di sorrisi soddisfatti e vanagloriosi.

Due anni dopo, a Sarajevo, un altro tragico avvenimento scatenò l’irreparabile e quel secolo che era stato salutato come l’epoca della prosperità sarebbe stato soffocato dal fumo della Prima Guerra Mondiale.

 

 

 

FINE

 

 

 

Nota dell’autore:

* La donna in questione era Edith Russel (1879-1975), passeggera di prima classe che, prima di salire su una scialuppa, ritornò in cabina solo per recuperare il suo portafortuna: un carillon a forma di maialino pezzato. Ed ecco il maialino (del quale oggi non rimangono che pochi frammenti battuti all’asta): http://i.telegraph.co.uk/multimedia/archive/02649/titanic-musical-pi_2649693k.jpg

 

Ed eccoci, finalmente, giunti alla conclusione di questa storia. Vi ho fatto penare e vi chiedo scusa; se può consolarvi, ho sofferto di più io ad arrivare alla conclusione.

Avrei voluto che mi riuscisse meglio come finale visto che mi è venuto un po’ troppo stiracchiato, specialmente verso la fine ma con la testa sono già ad una OS che mi è venuta in mente qualche settimana fa. Sì perché, tranne una rara eccezione (coff*smut*coff) passerò alle OS per il momento.

Mi permetto di concludere qui, ringraziando di cuore tutte le carissime persone che mi hanno seguito in questo “viaggio” (scusate il triste esempio), che hanno inserito questa fanfiction tra le preferite, le ricordate e le seguite, chi mi ha fatto sapere la sua opinione e chi ha semplicemente letto; mi avete dato voi la forza di arrivare fino al capitolo finale J

Se volete continuare a seguirmi e per sapere quando posterò la mia OS e un’altra possibile mini-long (coff*smut*coff*smut*coff*smut*coff) questo è l’indirizzo della mia pagina facebook: http://www.facebook.com/pages/Lusio-EFP/162610203857483

Mando un “Ciaoooooo” a tutti e auguro una buona visione a chi vedrà la diretta stanotte (io no perché ho sempre la sveglia alle sette - -‘)

 

Lusio

  
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