Lady
War
Capitolo 3:
Quell'abisso dal quale emergere...
“C’era
stato un tempo, ormai sepolto sotto le ceneri del disastro, in cui
l’umanità non era costretta a nascondersi sotto
terra per sopravvivere.
Il
sole splendeva tutti i giorni e la gente rideva felice per le strade.
L’odore dei fiori impregnava l’aria, fresca e calda
al tempo stesso. E c’erano gli Esorcisti, misteriose e sacre
figure in nero che difendevano gli innocenti, combattendo con una
mitica arma chiamata Innocence”.
Ed ora il cielo era grigio piombo. La gente piangeva disperata
invocando aiuto. L’odore che si sentiva era quello del
sangue, della polvere e della paura, misti in un conglomerato di
terrore puro che cresceva ogni secondo sempre più nei cuori
degli esseri umani.
Come aveva potuto Dio lasciare che succedesse? Come aveva potuto
lasciare che i suoi figli sguazzassero nel fango come vili bestie? Come
aveva potuto abbandonarli?
Quel mondo immaginario, descritto nei testi antichi, ora era solo un
lontano ricordo, un utopia, irraggiungibile persino
dall’immaginazione; da quando il mondo era crollato,
inginocchiandosi ai piedi di un nemico la cui caratteristica
più buffa eppure più ingannevole era
l’aspetto: figura tonda, cappotto color crema, tuba, un
perenne sorriso sul muso grigio nascosto da un piccolo paio di lenti
tonde, il Conte del Millennio, aveva piegato le più grandi
potenze mondiali senza dare nell’occhio. A guardarlo bene,
pareva proprio essere un personaggio di una qualche opera teatrale. Ai
bambini sembrava più il buffo mostro delle fiabe, dalle
fattezze grottesche ma con l’animo d’oro zecchino.
Ma non era così. E l’umanità si
pentì solo più tardi di non averlo capito subito.
Iniziò tutto nel silenzio. Da quei paeselli fatti di
contadini, di gente che si conosceva sin dalla più tenera
età. Bastava solo che uno di loro, magari giovane,
fidanzato, con una famiglia e dei figli, tirasse le cuoia. Al come, se
non c’era, ci pensava lui: un bell’incidente in
carrozza, una malattia, un silente omicidio compiuto nella
notte… Ogni cosa era plausibile e realizzabile.
Oh, ma le morti non erano scelte a caso. Il Costruttore badava sempre a
selezionare con cura le vittime dei suoi orribili piani. Dopo infatti
ci voleva qualcun altro che, distrutto dall’atroce perdita
subita, sentisse l’impellente necessità di riavere
accanto a sé il defunto. Ed ecco che si creava la situazione
perfetta affinché potesse nascere un nuovo Akuma, una
macchina assassina al servizio del Conte, fatta con un guscio di pelle
e un’anima richiamata dal mondo dei morti. Il demone
ritornava in città sotto mentite spoglie, e lì
cominciavano gli omicidi e le sparizioni. Bambini, donne,
uomini… Cibo. Solo nutrimento per quella creatura che di
umano aveva solo l’aspetto. Un fiore che profumava di sangue.
Bello ma nauseante. Fasullo.
Ma non era sempre così. A volte c’era una luce,
inaspettata, che rischiarava le tenebre delle quali si erano tinte le
povere animelle disperate di quel paese in rovina. Esorcisti, ecco chi
erano. Qualcuno li chiamava apostoli, qualcun altro salvatori.
Nella loro uniforme nera e spessa c’era tutto e niente. La
croce santa appuntata sul petto rappresentava non solo una fazione, ma
un ideale. Il desiderio di semplici uomini di salvare
l’umanità, aiutati da un potere che solo Dio era
in grado di conferire loro: l’Innocence, la materia di luce,
l’innocenza che doveva combattere il peccato.
Umani scelti tra tanti altri miliardi di individui per portare la luce
laddove avanzavano le tenebre.
Il Conte però aveva qualche asso nella manica.
Il primo era la famiglia Noah: esseri superiori dagli incredibili
poteri, che obbedivano ciecamente a qualsiasi suo ordine e che
condividevano, come lui, il sogno di distruzione del mondo.
Il secondo era l’Arca di Noè.
Fu quella maledetta invenzione la causa di tutte le disgrazie del
mondo. Un enorme congegno diabolico ideato dal Conte stesso, che aveva
una terribile capacità: far scoppiare un secondo diluvio
universale che avrebbe spazzato via ogni traccia di vita del creato.
L’Arca rappresentava sia la fine che l’inizio del
mondo. Grazie a essa quella misera specie animale chiamata uomo sarebbe
scomparsa, sostituita da un’altra più perfetta: i
Noah.
Questo era quello che i discendenti di Noè credevano,
finché non scoprirono di essere rimasti anch’essi
vittime del giogo del Conte.
Per funzionare l’Arca aveva bisogno di una fonte di energia.
Ma non di una qualsiasi. Necessitava di vite umane. Le loro.
Tredici sacrifici, l’Apocalisse, un solo e unico vincitore.
Tutte cose, queste, che non somigliavano neanche un po’ alle
promesse che il Conte aveva fatto loro riguardo al dominio del nuovo
mondo insieme.
Il primo a reagire fu il Quattordicesimo Noah. Grazie alle sue
conoscenze, egli fu in grado di neutralizzare il Conte, aiutato dagli
Esorcisti, e bloccare temporaneamente le memory, ritardando la loro
reincarnazione di mille anni.
Ci fu una grandiosa battaglia che vide schierate le due potenti fazioni
l’una di fronte all’altra. Ci furono gridi di
vittoria, pianti di dolore, morti e speranze. Gli Esorcisti sentirono
il sangue ribollir loro in volto e sulle ferite, provarono quel dolore
e quell’amarezza che in guerra bruciano più di
qualsiasi taglio o ustione, fino all’anima, corrodendola. E i
Noah perirono tutti, uno dopo l’altro, sentendosi presi in
giro e ingannati, ma con l’orgoglio di rimanere uniti anche
nella morte come la grande famiglia che erano e sarebbero stati fino
alla fine dei tempi.
La prima grande guerra si concluse con una vittoria da parte degli
Esorcisti. Il Conte del Millennio scomparve.
Ma l’Arca era riuscita a compiere ugualmente grandi disastri.
La popolazione mondiale fu decimata; le terre si spaccarono a
metà; le acque si ritirarono…
Dopo un centinaio di anni, la figura tondeggiante del Conte ricomparve,
gettando nuovamente ombra sul mondo con i suoi piani di vendetta. Per
compierla al meglio pensò, come prima cosa, a eliminare i
suoi avversari.
Le città furono invase dagli Akuma come mai prima
d’ora. Gli Ordini sparsi per tutto il mondo furono rasi al
suolo. Gli Esorcisti vennero cacciati e sterminati, uno dopo
l’altro. Fu per cancellare quell’atroce senso di
umiliazione che non si era mai estinto, ma solo nascosto. Nascosto
dietro quell’agghiacciante ghigno dentato.
L’età buia del mondo si presentò
così, e persistette per centinaia di anni.
L’umanità tremava di paura, il Conte riprendeva il
mano quel grande impero perduto anni prima, Dio era scomparso. E
così anche ogni speranza di poter rivedere, un giorno, quel
mondo soleggiato e felice che profumava di fiori che si era ormai perso
tra la realtà e la leggenda delle pagine di un vecchio libro.
†
Non sentiva più il piede. Era lì, lo vedeva
chiaramente, stretto da quel grosso filo nero e appiccicoso, ma la sua
volontà di muoverlo non riusciva a raggiungerlo.
L’Akuma rideva di gusto davanti a lei, mente le sue lunghe
dita ossute di allungavano sinistre e frementi verso di lei.
Leda era in trappola. Sarebbe morta all’ombra di un vicolo
scrostato e puzzolente, senza avere avuto nemmeno la certezza che suo
fratello fosse vivo. Proprio a lui andarono i suoi ultimi
più intensi pensieri, sperando così di poterlo
raggiungere, ovunque si trovasse, per avere una conferma della sua
salvezza. Per potergli dire addio…
Rivide il bagliore del sole dorato accarezzare dolce come il miele la
figura del bambino che correva felice nel piccolo bosco. Rivide il suo
livido al ginocchio dopo essere caduto da una roccia. Si vide dargli un
bacetto consolatore sulla ferita. Vecchi ricordi che scorsero veloci
come un lampo davanti a lei. Le fecero capire nel peggiore dei modi che
avrebbe detto addio a tutto quello. Alla vita che aveva faticosamente
lottato per avere. Alle speranze e alle tristezze dell’animo.
Ad Alan.
- Alan… !
Ma non finì di formulare quell’ultimo disperato
richiamo, che l’Akuma si bloccò. La sua risata
malefica si spezzò, rimanendo sospesa sulle sue fauci aperte
e immobili.
Le sue dita cercavano ancora di raggiungere Leda, ma riuscivano solo a
eseguire brevi movimenti meccanici che terminavano con scatti convulsi.
E prima che potesse riuscire a sfiorarle la guancia, esplose in mille
pezzi.
Scaglie metalliche e detriti volarono in ogni direzione, frantumando i
vetri delle finestre che caddero come una pioggia tagliente su di lei.
Leda nascose in viso tra le braccia per proteggersi, e in men che non
si dica si sollevò attorno a lei una nube bianca e
polverosa, all’interno della quale i rumori della battaglia
perdevano ogni senso, confondendosi con quelli dei mattoni che
crollavano e delle finestre che si spaccavano sotto la potente spinta
dell’esplosione. E in mezzo a tutto quel caos Leda non ci
capì più niente. Si lasciò trascinare
da quei forti rumori e spense per un attimo il cervello, osservando,
senza ragionarci sopra, tutto ciò che le capitava attorno.
Così, quando vide due braccia emergere dalla nebbia e
sollevarla di peso per trascinarla via, non oppose troppa resistenza.
Solo quella che faceva la sua caviglia malandata.
Una figura scura avvolta da uno spesso mantello la afferrò
stretta per un polso e cominciò a tirarla in una direzione,
forse nord. Pian piano che la nebbia si diradava, Leda vedeva sempre
più dettagli affiorare da quella sagoma che
l’aveva salvata. Oltre al mantello, notò anche un
paio di stivali neri e lucidi, e una cicatrice sul braccio destro.
Tuttavia, non faticò molto a riconoscere lo straniero della
locanda.
Come lo capì, ritrovò magicamente la forza di
resistere alla sua forza e a scrollarsi di dosso la sua mano.
- Lasciami! – gridò, con una stizza che mai aveva
sentito di possedere – Che vuoi da me?!
L’altro non rispose. Leda vide solo le sue labbra serrarsi
ancora di più all’ombra del mantello, forse per
trattenere la volontà di reagire. Evidentemente non avevano
molto tempo per stare lì a parlare.
- Chi sei?! – gridò ancora la ragazza. Ma il
silenzio del suo interlocutore non faceva altro che accrescere la sua
rabbia.
Invece di risponderle infatti le afferrò nuovamente il
polso, più saldamente questa volta; ricominciò
così a correre, badando a non farsi scappare più
via Leda, sfrecciando veloce da un vicolo all’altro e
gettando solo una breve occhiata agli incroci prima di attraversarli.
La ragazza non aveva la benché minima idea di cosa stava
succedendo. Sapeva solo che lo straniero la conduceva lontano dalla
battaglia, lontano dalle porte. Lontano da Alan. Si
divincolò gridando.
- Mollami, bastardo! – inveì, tentando di
mollargli un calcio tra le gambe, per ostacolarlo. Non ci
riuscì, perché uno strattone più forte
degli altri la costrinse a tirare fuori tutta la sua forza di
volontà per stargli dietro senza inciampare.
- Ti ho detto di lasciarmi!! – gridò ancora,
provando a minacciarlo. Niente.
Le sue urla di protesta venivano sommerse dai pesanti rumori della
battaglia. Lo straniero però non la stava ascoltando
volontariamente. Una fitta di dolore le invase il piede, tornato
normale, ma rosso e gonfio. Leda si sforzò di non gridare e
tentò di correre senza poggiarlo a terra troppo forte. Cosa
impossibile, però. Aveva il fiatone, i capelli incollati
alla faccia dal sudore e acciacchi su tutto il corpo, coperto di lividi
e sporco di terra, polvere e sangue.
Lo straniero sembrava non farsi troppi problemi. Correva con
un’agilità impressionante, e Leda non aveva notato
su di lui alcun tipo di ferita.
Ma questo poco importava. La stava portando via, forse per salvarla o
forse per farle del male lui stesso. Si stavano allontanando da Alan,
da Theodore, da Anais, da tutti, e questo Leda non poteva sopportarlo.
Non smise nemmeno per un secondo di agitarsi e opporre resistenza,
cercò in tutti i modi di arrestare la corsa del suo
apparente salvatore, insultandolo e gridando a squarciagola. Ogni
sforzo risultava sempre, però, vano. L’altro aveva
su di lei una presa spaventosa, per nulla paragonabile a quella di un
essere umano. Non dava segni di cedimento, di stanchezza…
Non sembrava persino riprendere fiato. E se Leda avesse guardato verso
il basso invece che concentrarsi sul suo polso bloccato, avrebbe notato
di non stare totalmente camminando. I suoi piedi di sollevavano ad
intervalli irregolari dal terreno e la facevano fluttuare per qualche
millisecondo. Poi, ritoccavano terra e la caviglia le doleva
più di prima.
La corsa finì accanto a una delle mura della Sede, davanti a
una porta nera e spessa, serrata da grossi cardini arrugginiti ma
impossibili da sbloccare.
Lo straniero la fece sbattere contro un muro, lasciandola cadere a
terra per l’impatto con poche forze nel corpo
perché potesse risollevarsi. E quando Leda
sollevò lo sguardo, notò che era sparito.
Colse al volo l’occasione, senza stare a riflettere troppo su
dove e perché non fosse più nei paraggi.
Sicuramente non si trovava dall’altra parte della porta.
Probabilmente era scappato, rinunciando all’idea di... Non
sapeva bene cosa lo avesse spinto a comportarsi in quel modo.
Si mise a quattro zampe sul terreno, pieno di calcinacci e detriti.
Schiacciò qualche sassolino coi palmi delle mani,
ritirandoli subito dopo per il dolore. Spolverò la strada
con i dorsi e poi tentò di gattonare lontano, il
più velocemente possibile.
Alan.
Doveva andare da Alan.
Non poteva lasciare che gli accadesse qualcosa, aveva fatto una solenne
promessa. Mai e poi mai lo avrebbe perso di vista di nuovo, mai e poi
mai avrebbe riprovato quel dolore all’anima, mai e poi
mai…
Qualcosa la sbatté a terra. Si sentì schiacciare
da un piede sulla zona lombare della schiena. Non riuscì a
sollevare lo sguardo perché subito dopo lo straniero la
issò quasi con rabbia e la trascinò nuovamente
verso la porta. Le gettò un rapido sguardo: era aperta.
Qualcosa scattò dentro di lei, distogliendo la sua
attenzione da Alan e concentrandola sull’uomo che, con poca
eloquenza, la conduceva all’interno di un vecchio canale
fognario bagnato e puzzolente.
Come era stato possibile? Quella porta, sigillata da tempo, non avrebbe
dovuto aprirsi… Che cosa stava cercando di fare?!
- Fermo!! – strillò Leda, rendendosi conto in quel
momento di ciò che le stava accadendo. La stava forse
rapendo?
- Fermati!! – ripeté, divincolandosi con tutta la
forza che riuscì a richiamare. Agitò gambe a
braccia su e giù, scalciando e picchiando i pugni ovunque le
capitasse.
Lo straniero alla fine la mollò, gettandola in avanti
nell’acqua putrida sulle cui sponde alcuni topi grigi e
pelosi bevevano.
Quando Leda si sollevò, pulendosi la faccia sputacchiando,
vide che stava richiudendo la porta.
- Che diavolo stai facendo?! – gridò, allibita.
Quella era l’unica via di fuga che conosceva. Senza quella
non sarebbe mai potuta tornare indietro!
Voleva alzarsi, ma ad ogni tentativo il suo corpo menomato tremava, e
poi la ributtava in acqua senza pietà.
Sentì la sua unica via di salvezza chiudersi con un pesante
clangore. La fine di una speranza. L’inizio della sua rovina.
- Ti ho chiesto cosa diavolo stai facendo! – la forza
d’animo non era scomparsa, però. Aveva ancora la
volontà di reagire. Per questo non smise nemmeno per un
attimo di combattere.
- Ti salvo – rispose per la prima volta lo straniero,
all’ombra del cappuccio del mantello che indossava. La sua
voce era grave e suadente, come la ricordava Leda la prima volta che
l’aveva sentita. Tuttavia, la sua risposta improvvisa la
spiazzò.
- Che significa?! – ruggì, facendo appello a tutte
le sue forze per sollevarsi. I suoi vestiti gocciolarono sulla
superficie metallica arrugginita del condotto, ripetendosi
all’infinito fin nell’oscurità.
- Dobbiamo tornare indietro! Devo salvare… -
tentò di gridare. Ma l’uomo la interruppe
bruscamente.
- Ormai sono tutti morti.
Leda si bloccò. Si suoi occhi neri si fissarono vacui sulle
labbra che avevano appena pronunciato quell’amara sentenza.
Morti. . . ?
- Non dire cavolate! – esplose improvvisamente, mentre
sentiva il suo corpo prendere fuoco – Non è
possibile! Non è assolutamente possibile!! Se torniamo
indietro possiamo aiutarli!!
L’uomo strinse ancora le labbra.
- E’ troppo tardi – ripeté, con voce
priva di sentimento.
Leda serrò i denti per la rabbia. Come si permetteva di dire
certe cose?!
Non sapeva se fossero vivi o morti, non aveva alcun diritto di negarle
la possibilità di salvarli! Non poteva e non voleva
credergli. Si sforzò di contenere la furia a tal punto che
le parve di avvertire il suo cervello esplodere. I muscoli tesi come
corde di chitarra, le vene blu affioranti dai polsi e la faccia rossa e
bollente. Ogni cosa di lei riconduceva a una bomba in procinto di
detonarsi.
- NO! – strillò, con voce tremante –
RIAPRI IMMEDIATAMENTE QUELLA PORTA!
Lo straniero non si mosse. Come la quercia che non si piega alla furia
del vento.
- TI HO DETTO DI APRIRLA!! - ripeté Leda, ancora
più forte. Perché potesse sentirla bene
– DEVO ANDARE A SALVARLI!!! APRILAAA!!
E, in men che non di dica, si ritrovò inchiodata al muro. Il
collo stretto sotto la pesante forza dell’avanbraccio destro
dello straniero. Con l’altra mano le aveva bloccato i polsi
al muro, sopra la sua testa, e ora i suoi occhi a lei imperscrutabili
la fissavano come luci sinistre nella notte.
- Cerca di capirlo in fretta, ragazzina –
pronunciò, con una voce per nulla suadente. Leda
l’avrebbe definita… agghiacciante. Poi
sentenziò, sillabico. – E’ tardi. Non
puoi più fare nulla. Sono tutti M O R T I.
- No… - tentò di mormorare Leda, che sotto a
quella imposizione violenta aveva visto demolire l’ultimo
briciolo di speranza rimastole.
La parola ‘morti’ si ripeteva quasi ossessivamente
nel suo cervello, e le immagini delle persone che fino a qualche ora
prima le avevano sorriso, l’avevano accolta festosi,
l’avevano accarezzata… bruciavano. Bruciavano come
vecchie foto gettate nel camino. E le sue mani non potevano
più salvarle, perché si ustionavano ad ogni
minimo contatto col fuoco di quella orribile realtà che le
stava dando un orrendo schiaffo in faccia.
Theodore… Anais… Emily… Persino
Alan… Tutti morti… cancellati per
sempre… diventati polvere…
Cominciò a piangere, e la gola le fece male
perché tentava di trattenersi e allo stesso tempo
l’uomo gliela stringeva. Lacrime calde e umide cominciarono a
scendere a fiotti dalle sue guance, amare, terribili,
sofferte…
Non vedeva più niente. Solo una realtà distorta
dalle lacrime. Come se fosse sott’acqua. Come se stesse
affondando nel mare della disperazione.
La presa dell’uomo si azzerò, lasciandola
scivolare a terra, senza forze. Si richiuse in sé stessa,
mormorando i nomi dei suoi cari. I suoi cari, che ora non
c’erano più. Scomparsi. La sua voce tremava, le
sue unghie affondavano nelle sue spalle lasciandovi sopra graffi
arrossati.
‘Perché?’, si chiedeva, ripetutamente.
Perché erano morti?
Per colpa sua… ? Perché non era arrivata in tempo.
E se… ce l’avesse fatta… avrebbero
avuto una possibilità? Sarebbero stati lì,
accanto a lei?
L’uomo si chinò su di lei. Tentò di
prenderle la mano con innaturale gentilezza, ma Leda fu più
veloce. Gli mollò un violento schiaffo in faccia, tanto
forte da scaraventarlo lontano da lei con un tonfo impressionante.
Nella caduta, il cappuccio scivolò via.
- Maledetto… - sibilò con rabbia e amarezza Leda,
alzandosi a fatica. La voce le tremava, e per quanto si sforzasse non
riusciva più a controllarla, per cui ogni parola si
dimostrava essere una fatica immane.
Una rabbia senza precedenti era emersa in lei. I suoi occhi di
liquirizia sembravano colti da brevi lampi vermigli simili a tuoni, che
si accendevano e si spegnevano illuminandole lo sguardo
d’ira. O forse, disperazione? Quell’attimo in cui
l’essere umano lotta per scalare, a costo di graffiarsi a
sangue le dita delle mani, la lunga parete di quello che pareva essere
il dolore più vivo e puro mai esistito.
Quell’attimo in cui qualsiasi appiglio sembra valido.
Quell’attimo in cui la rabbia esplode incontrollata.
- Maledetto!! – gridò ancora Leda, avvicinandosi
minacciosamente a lui stringendo forte i pugni. Se avesse stretto
ancora di più, le sarebbero sanguinati. Il dolore fisico in
quel momento era una sensazione secondaria, per non dire inutile. Che
non lo provasse era fuori discussione. Ma che lo ignorasse,
considerandolo un’estensione di quello che le stava divorando
l’anima in quel momento era più che plausibile. I
due dolori, entrambi allucinanti, si erano fusi in uno solo, spietato e
implacabile.
E ora, l’unica destinazione del suo dolore era lo straniero,
che senza più il cappuccio a coprirlo rivelava
d’essere un giovane uomo dai capelli scuri, con due occhi
felini e un neo proprio sotto a quello sinistro.
Leda lo strinse violentemente per il colletto del mantello e lo
attirò a sé, senza il minimo sforzo.
Cercò di osservarlo bene, con quanta rabbia riusciva a
incanalare nei due occhi furenti luccicanti di lampi che ora sembravano
non appartenere più a Leda, ma a un mostro spaventoso.
L’uomo la fissò intensamente, con aria seria. Non
sembrava volersi difendere, forse perché la reazione della
ragazza non lo aveva intimorito neanche un po’. Non mosse un
dito nemmeno quando la vide sollevare il braccio, teso, col pugno
stretto e le nocche bianche.
Ma mentre stava per ricevere il colpo, una voce spezzò quel
tombale silenzio.
- Leda!
Chiara, giovanile, il quel momento il più bel suono del
mondo. Leda si voltò, con ancora negli occhi la furia che
ribolliva in lei. Ma quando lo vide, la perse completamente. Rimasero
solo un’espressione allibita, sconcertata, ma anche gioiosa,
e un piccolo appiglio cui aggrapparsi per scalare quel buio dirupo
dentro al quale era caduta la sua anima.
Lui era lì, immobile, la guardava contento e preoccupato al
tempo stesso.
Leda non ci credette, all’inizio, ma la sua disperazione la
portò a cedere presto alla diffidenza. Davanti a lei
c’era la piccola e luminosa figura di Alan.
Angolo di Momoko
Heylà! Sono tornata con un nuovo capitolo!
Spero di aver chiarito ben bene i dubbi sui retroscena della trama, sul
perché e come si è arrivati a questo casino di
situazione.
Allora, prima di dire qualsiasi cosa, devo fare un annuncio importante.
Tyki: ò_ò Spara.
Di recente la mia amica Myrae ha postato una bellissima
oneshot
che ha dedicato anche a me, linkando la mia pagina e questa storia.
Dato che il suo gesto è stato gentilissimo, la ringrazio
tantissimo e le dedico l'intero capitolo (l'entrata in scena di Tyki
per te <3). Inoltre vi linko la os in questione (viva lo spam
:D) :
Raison d'être.
Dato che dopo cose del genere mi sento un'ingrata patentata, spero che
accetti questo mio gesto di riconoscenza *si inchina*. Arigatou
gozaimasu, Myrae san!
Tyki: finalmente hai fatto qualcosa di utile! ù-ù.
E se riesco le organizzo il matrimonio con Tyki! *parte coi viaggi
mentali*.
Tyki: hey, ferma, brutta lunatica, basta con la gratitudineee!!
Bene, ora andiamo al capitolo. Ci ho messo molto a postarlo, ma spero
tuttavia di poter stabilizzare i tempi con un capitolo ogni due o tre
settimane, se riesco. Se la scuola non dovesse impegnarmi troppo, e la
voglia non dovesse mancarmi, in questo modo dovrei riuscire a scrivere
e postare i capitoli con più regolarità (anche
perché questa storia ne avrà un po'...).
Con meno 'robe amorose' e molto più angst penso che scrivere
questa storia mi piacerà tantissimo! *ride malignamente*.
Sono contenta di dare una sferzata 'non yaoi' a questo fandom, che
ultimamente vede molto di moda questo genere di storie. A me lo yaoi
piace, per carità... ma non penso che debba diventare il
tema
dominante, qui. Perché, a dirla tutta, nelle coppie
trattate, la
solfa è sempre la stessa, e dopo un po' mi diventa monotona.
Penso che D. Gray-man non sia fatto solo di yaoi (sennò
diventerebbe D. Gay-man), ma che al suo interno racchiuda molto di
più! Spremete la vostra fantasia, e non abbiate paura di
scrivere qualcosa solo per le recensioni che penserete di non ricevere!
Se amate davvero scrivere, state tranquilli che non vi sarà
difficile né trovare idee né trovare fidati
lettori!
Ok, dopo questo piccolo sfogo, vi saluto, vado a vedere One Piece. Devo
trovare il modo di rapire Sanji e aggiungerlo alla mia lista di adepti!
Muhahahah!
Tyki: OAO'' Oddio...
Finalmente avrò un cuoco vero che mi cucini cose vere!
Giusto, Tyki-pon?
Tyki: non è colpa mia se non so cucinare ''>.>
A prestoooo,
Momoko <3
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