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Autore: Momoko The Butterfly    14/11/2012    2 recensioni
Sono ormai passati cento anni dalla quasi distruzione del genere umano. Dopo un'estenuante battaglia tra bene e male, il mondo è caduto infine preda di tenebre fatte di solitudine e sofferenza; il Conte del Millennio regna baldanzoso su una terra devastata dalla fame e dalla morte, tartassata fin nel profondo dell'animo da eserciti di Akuma voraci e famelici. Ma l'umanità non demorde, per questo si nasconde dalla loro vista, fiduciosa di poter riassemblare i tasselli di una vita in frantumi. Leda e Alan, fratelli inseparabili, hanno perso ogni cosa. Eppure sembra che la sede Nord America possa davvero diventare la loro nuova casa, grazie a benevole persone che hanno saputo ridonare speranza ai loro cuori avviziti dal dolore.
Ma nulla andrà per il verso giusto. Quando la sede verrà messa sotto assedio, sarà tempo per loro di cominciare un viaggio fatto di rischi e incertezze alla ricerca di risposte. Ad accompagnarli, i paladini dell'Innocence, gli Esorcisti, e un sempre più enigmatico Tyki Mikk...
Genere: Angst, Avventura, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Bookman, Nuovo personaggio, Rabi/Lavi, Tyki Mikk, Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
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Lady War


Capitolo 3: Quell'abisso dal quale emergere...


“C’era stato un tempo, ormai sepolto sotto le ceneri del disastro, in cui l’umanità non era costretta a nascondersi sotto terra per sopravvivere.
Il sole splendeva tutti i giorni e la gente rideva felice per le strade. L’odore dei fiori impregnava l’aria, fresca e calda al tempo stesso. E c’erano gli Esorcisti, misteriose e sacre figure in nero che difendevano gli innocenti, combattendo con una mitica arma chiamata Innocence”.

Ed ora il cielo era grigio piombo. La gente piangeva disperata invocando aiuto. L’odore che si sentiva era quello del sangue, della polvere e della paura, misti in un conglomerato di terrore puro che cresceva ogni secondo sempre più nei cuori degli esseri umani.
 
Come aveva potuto Dio lasciare che succedesse? Come aveva potuto lasciare che i suoi figli sguazzassero nel fango come vili bestie? Come aveva potuto abbandonarli?
 
Quel mondo immaginario, descritto nei testi antichi, ora era solo un lontano ricordo, un utopia, irraggiungibile persino dall’immaginazione; da quando il mondo era crollato, inginocchiandosi ai piedi di un nemico la cui caratteristica più buffa eppure più ingannevole era l’aspetto: figura tonda, cappotto color crema, tuba, un perenne sorriso sul muso grigio nascosto da un piccolo paio di lenti tonde, il Conte del Millennio, aveva piegato le più grandi potenze mondiali senza dare nell’occhio. A guardarlo bene, pareva proprio essere un personaggio di una qualche opera teatrale. Ai bambini sembrava più il buffo mostro delle fiabe, dalle fattezze grottesche ma con l’animo d’oro zecchino.
Ma non era così. E l’umanità si pentì solo più tardi di non averlo capito subito.
 
Iniziò tutto nel silenzio. Da quei paeselli fatti di contadini, di gente che si conosceva sin dalla più tenera età. Bastava solo che uno di loro, magari giovane, fidanzato, con una famiglia e dei figli, tirasse le cuoia. Al come, se non c’era, ci pensava lui: un bell’incidente in carrozza, una malattia, un silente omicidio compiuto nella notte… Ogni cosa era plausibile e realizzabile.
Oh, ma le morti non erano scelte a caso. Il Costruttore badava sempre a selezionare con cura le vittime dei suoi orribili piani. Dopo infatti ci voleva qualcun altro che, distrutto dall’atroce perdita subita, sentisse l’impellente necessità di riavere accanto a sé il defunto. Ed ecco che si creava la situazione perfetta affinché potesse nascere un nuovo Akuma, una macchina assassina al servizio del Conte, fatta con un guscio di pelle e un’anima richiamata dal mondo dei morti. Il demone ritornava in città sotto mentite spoglie, e lì cominciavano gli omicidi e le sparizioni. Bambini, donne, uomini… Cibo. Solo nutrimento per quella creatura che di umano aveva solo l’aspetto. Un fiore che profumava di sangue. Bello ma nauseante. Fasullo.
 
Ma non era sempre così. A volte c’era una luce, inaspettata, che rischiarava le tenebre delle quali si erano tinte le povere animelle disperate di quel paese in rovina. Esorcisti, ecco chi erano. Qualcuno li chiamava apostoli, qualcun altro salvatori.
Nella loro uniforme nera e spessa c’era tutto e niente. La croce santa appuntata sul petto rappresentava non solo una fazione, ma un ideale. Il desiderio di semplici uomini di salvare l’umanità, aiutati da un potere che solo Dio era in grado di conferire loro: l’Innocence, la materia di luce, l’innocenza che doveva combattere il peccato.
Umani scelti tra tanti altri miliardi di individui per portare la luce laddove avanzavano le tenebre.
Il Conte però aveva qualche asso nella manica.
Il primo era la famiglia Noah: esseri superiori dagli incredibili poteri, che obbedivano ciecamente a qualsiasi suo ordine e che condividevano, come lui, il sogno di distruzione del mondo.
Il secondo era l’Arca di Noè.
Fu quella maledetta invenzione la causa di tutte le disgrazie del mondo. Un enorme congegno diabolico ideato dal Conte stesso, che aveva una terribile capacità: far scoppiare un secondo diluvio universale che avrebbe spazzato via ogni traccia di vita del creato.
L’Arca rappresentava sia la fine che l’inizio del mondo. Grazie a essa quella misera specie animale chiamata uomo sarebbe scomparsa, sostituita da un’altra più perfetta: i Noah.
Questo era quello che i discendenti di Noè credevano, finché non scoprirono di essere rimasti anch’essi vittime del giogo del Conte.
 
Per funzionare l’Arca aveva bisogno di una fonte di energia. Ma non di una qualsiasi. Necessitava di vite umane. Le loro.
Tredici sacrifici, l’Apocalisse, un solo e unico vincitore. Tutte cose, queste, che non somigliavano neanche un po’ alle promesse che il Conte aveva fatto loro riguardo al dominio del nuovo mondo insieme.
Il primo a reagire fu il Quattordicesimo Noah. Grazie alle sue conoscenze, egli fu in grado di neutralizzare il Conte, aiutato dagli Esorcisti, e bloccare temporaneamente le memory, ritardando la loro reincarnazione di mille anni.
Ci fu una grandiosa battaglia che vide schierate le due potenti fazioni l’una di fronte all’altra. Ci furono gridi di vittoria, pianti di dolore, morti e speranze. Gli Esorcisti sentirono il sangue ribollir loro in volto e sulle ferite, provarono quel dolore e quell’amarezza che in guerra bruciano più di qualsiasi taglio o ustione, fino all’anima, corrodendola. E i Noah perirono tutti, uno dopo l’altro, sentendosi presi in giro e ingannati, ma con l’orgoglio di rimanere uniti anche nella morte come la grande famiglia che erano e sarebbero stati fino alla fine dei tempi.
La prima grande guerra si concluse con una vittoria da parte degli Esorcisti. Il Conte del Millennio scomparve.
Ma l’Arca era riuscita a compiere ugualmente grandi disastri. La popolazione mondiale fu decimata; le terre si spaccarono a metà; le acque si ritirarono…
 
Dopo un centinaio di anni, la figura tondeggiante del Conte ricomparve, gettando nuovamente ombra sul mondo con i suoi piani di vendetta. Per compierla al meglio pensò, come prima cosa, a eliminare i suoi avversari.
Le città furono invase dagli Akuma come mai prima d’ora. Gli Ordini sparsi per tutto il mondo furono rasi al suolo. Gli Esorcisti vennero cacciati e sterminati, uno dopo l’altro. Fu per cancellare quell’atroce senso di umiliazione che non si era mai estinto, ma solo nascosto. Nascosto dietro quell’agghiacciante ghigno dentato.
L’età buia del mondo si presentò così, e persistette per centinaia di anni. L’umanità tremava di paura, il Conte riprendeva il mano quel grande impero perduto anni prima, Dio era scomparso. E così anche ogni speranza di poter rivedere, un giorno, quel mondo soleggiato e felice che profumava di fiori che si era ormai perso tra la realtà e la leggenda delle pagine di un vecchio libro.



 
Non sentiva più il piede. Era lì, lo vedeva chiaramente, stretto da quel grosso filo nero e appiccicoso, ma la sua volontà di muoverlo non riusciva a raggiungerlo.
L’Akuma rideva di gusto davanti a lei, mente le sue lunghe dita ossute di allungavano sinistre e frementi verso di lei.
Leda era in trappola. Sarebbe morta all’ombra di un vicolo scrostato e puzzolente, senza avere avuto nemmeno la certezza che suo fratello fosse vivo. Proprio a lui andarono i suoi ultimi più intensi pensieri, sperando così di poterlo raggiungere, ovunque si trovasse, per avere una conferma della sua salvezza. Per potergli dire addio…
Rivide il bagliore del sole dorato accarezzare dolce come il miele la figura del bambino che correva felice nel piccolo bosco. Rivide il suo livido al ginocchio dopo essere caduto da una roccia. Si vide dargli un bacetto consolatore sulla ferita. Vecchi ricordi che scorsero veloci come un lampo davanti a lei. Le fecero capire nel peggiore dei modi che avrebbe detto addio a tutto quello. Alla vita che aveva faticosamente lottato per avere. Alle speranze e alle tristezze dell’animo. Ad Alan.
- Alan… !
Ma non finì di formulare quell’ultimo disperato richiamo, che l’Akuma si bloccò. La sua risata malefica si spezzò, rimanendo sospesa sulle sue fauci aperte e immobili.
Le sue dita cercavano ancora di raggiungere Leda, ma riuscivano solo a eseguire brevi movimenti meccanici che terminavano con scatti convulsi. E prima che potesse riuscire a sfiorarle la guancia, esplose in mille pezzi.
Scaglie metalliche e detriti volarono in ogni direzione, frantumando i vetri delle finestre che caddero come una pioggia tagliente su di lei.
Leda nascose in viso tra le braccia per proteggersi, e in men che non si dica si sollevò attorno a lei una nube bianca e polverosa, all’interno della quale i rumori della battaglia perdevano ogni senso, confondendosi con quelli dei mattoni che crollavano e delle finestre che si spaccavano sotto la potente spinta dell’esplosione. E in mezzo a tutto quel caos Leda non ci capì più niente. Si lasciò trascinare da quei forti rumori e spense per un attimo il cervello, osservando, senza ragionarci sopra, tutto ciò che le capitava attorno.
Così, quando vide due braccia emergere dalla nebbia e sollevarla di peso per trascinarla via, non oppose troppa resistenza. Solo quella che faceva la sua caviglia malandata.
Una figura scura avvolta da uno spesso mantello la afferrò stretta per un polso e cominciò a tirarla in una direzione, forse nord. Pian piano che la nebbia si diradava, Leda vedeva sempre più dettagli affiorare da quella sagoma che l’aveva salvata. Oltre al mantello, notò anche un paio di stivali neri e lucidi, e una cicatrice sul braccio destro. Tuttavia, non faticò molto a riconoscere lo straniero della locanda.
Come lo capì, ritrovò magicamente la forza di resistere alla sua forza e a scrollarsi di dosso la sua mano.
- Lasciami! – gridò, con una stizza che mai aveva sentito di possedere – Che vuoi da me?!
L’altro non rispose. Leda vide solo le sue labbra serrarsi ancora di più all’ombra del mantello, forse per trattenere la volontà di reagire. Evidentemente non avevano molto tempo per stare lì a parlare.
- Chi sei?! – gridò ancora la ragazza. Ma il silenzio del suo interlocutore non faceva altro che accrescere la sua rabbia.
Invece di risponderle infatti le afferrò nuovamente il polso, più saldamente questa volta; ricominciò così a correre, badando a non farsi scappare più via Leda, sfrecciando veloce da un vicolo all’altro e gettando solo una breve occhiata agli incroci prima di attraversarli. La ragazza non aveva la benché minima idea di cosa stava succedendo. Sapeva solo che lo straniero la conduceva lontano dalla battaglia, lontano dalle porte. Lontano da Alan. Si divincolò gridando.
- Mollami, bastardo! – inveì, tentando di mollargli un calcio tra le gambe, per ostacolarlo. Non ci riuscì, perché uno strattone più forte degli altri la costrinse a tirare fuori tutta la sua forza di volontà per stargli dietro senza inciampare.
- Ti ho detto di lasciarmi!! – gridò ancora, provando a minacciarlo. Niente.
Le sue urla di protesta venivano sommerse dai pesanti rumori della battaglia. Lo straniero però non la stava ascoltando volontariamente. Una fitta di dolore le invase il piede, tornato normale, ma rosso e gonfio. Leda si sforzò di non gridare e tentò di correre senza poggiarlo a terra troppo forte. Cosa impossibile, però. Aveva il fiatone, i capelli incollati alla faccia dal sudore e acciacchi su tutto il corpo, coperto di lividi e sporco di terra, polvere e sangue.
Lo straniero sembrava non farsi troppi problemi. Correva con un’agilità impressionante, e Leda non aveva notato su di lui alcun tipo di ferita.
Ma questo poco importava. La stava portando via, forse per salvarla o forse per farle del male lui stesso. Si stavano allontanando da Alan, da Theodore, da Anais, da tutti, e questo Leda non poteva sopportarlo. Non smise nemmeno per un secondo di agitarsi e opporre resistenza, cercò in tutti i modi di arrestare la corsa del suo apparente salvatore, insultandolo e gridando a squarciagola. Ogni sforzo risultava sempre, però, vano. L’altro aveva su di lei una presa spaventosa, per nulla paragonabile a quella di un essere umano. Non dava segni di cedimento, di stanchezza… Non sembrava persino riprendere fiato. E se Leda avesse guardato verso il basso invece che concentrarsi sul suo polso bloccato, avrebbe notato di non stare totalmente camminando. I suoi piedi di sollevavano ad intervalli irregolari dal terreno e la facevano fluttuare per qualche millisecondo. Poi, ritoccavano terra e la caviglia le doleva più di prima.
 
La corsa finì accanto a una delle mura della Sede, davanti a una porta nera e spessa, serrata da grossi cardini arrugginiti ma impossibili da sbloccare.
Lo straniero la fece sbattere contro un muro, lasciandola cadere a terra per l’impatto con poche forze nel corpo perché potesse risollevarsi. E quando Leda sollevò lo sguardo, notò che era sparito.
Colse al volo l’occasione, senza stare a riflettere troppo su dove e perché non fosse più nei paraggi. Sicuramente non si trovava dall’altra parte della porta. Probabilmente era scappato, rinunciando all’idea di... Non sapeva bene cosa lo avesse spinto a comportarsi in quel modo.
Si mise a quattro zampe sul terreno, pieno di calcinacci e detriti. Schiacciò qualche sassolino coi palmi delle mani, ritirandoli subito dopo per il dolore. Spolverò la strada con i dorsi e poi tentò di gattonare lontano, il più velocemente possibile.
Alan.
Doveva andare da Alan.
Non poteva lasciare che gli accadesse qualcosa, aveva fatto una solenne promessa. Mai e poi mai lo avrebbe perso di vista di nuovo, mai e poi mai avrebbe riprovato quel dolore all’anima, mai e poi mai…
 
Qualcosa la sbatté a terra. Si sentì schiacciare da un piede sulla zona lombare della schiena. Non riuscì a sollevare lo sguardo perché subito dopo lo straniero la issò quasi con rabbia e la trascinò nuovamente verso la porta. Le gettò un rapido sguardo: era aperta.
Qualcosa scattò dentro di lei, distogliendo la sua attenzione da Alan e concentrandola sull’uomo che, con poca eloquenza, la conduceva all’interno di un vecchio canale fognario bagnato e puzzolente.
Come era stato possibile? Quella porta, sigillata da tempo, non avrebbe dovuto aprirsi… Che cosa stava cercando di fare?!
- Fermo!! – strillò Leda, rendendosi conto in quel momento di ciò che le stava accadendo. La stava forse rapendo?
- Fermati!! – ripeté, divincolandosi con tutta la forza che riuscì a richiamare. Agitò gambe a braccia su e giù, scalciando e picchiando i pugni ovunque le capitasse.
Lo straniero alla fine la mollò, gettandola in avanti nell’acqua putrida sulle cui sponde alcuni topi grigi e pelosi bevevano.
Quando Leda si sollevò, pulendosi la faccia sputacchiando, vide che stava richiudendo la porta.
- Che diavolo stai facendo?! – gridò, allibita. Quella era l’unica via di fuga che conosceva. Senza quella non sarebbe mai potuta tornare indietro!
Voleva alzarsi, ma ad ogni tentativo il suo corpo menomato tremava, e poi la ributtava in acqua senza pietà.
Sentì la sua unica via di salvezza chiudersi con un pesante clangore. La fine di una speranza. L’inizio della sua rovina.
- Ti ho chiesto cosa diavolo stai facendo! – la forza d’animo non era scomparsa, però. Aveva ancora la volontà di reagire. Per questo non smise nemmeno per un attimo di combattere.
- Ti salvo – rispose per la prima volta lo straniero, all’ombra del cappuccio del mantello che indossava. La sua voce era grave e suadente, come la ricordava Leda la prima volta che l’aveva sentita. Tuttavia, la sua risposta improvvisa la spiazzò.
- Che significa?! – ruggì, facendo appello a tutte le sue forze per sollevarsi. I suoi vestiti gocciolarono sulla superficie metallica arrugginita del condotto, ripetendosi all’infinito fin nell’oscurità.
- Dobbiamo tornare indietro! Devo salvare… - tentò di gridare. Ma l’uomo la interruppe bruscamente.
- Ormai sono tutti morti.
 
Leda si bloccò. Si suoi occhi neri si fissarono vacui sulle labbra che avevano appena pronunciato quell’amara sentenza.
Morti. . . ?
- Non dire cavolate! – esplose improvvisamente, mentre sentiva il suo corpo prendere fuoco – Non è possibile! Non è assolutamente possibile!! Se torniamo indietro possiamo aiutarli!!
L’uomo strinse ancora le labbra.
- E’ troppo tardi – ripeté, con voce priva di sentimento.
Leda serrò i denti per la rabbia. Come si permetteva di dire certe cose?!
Non sapeva se fossero vivi o morti, non aveva alcun diritto di negarle la possibilità di salvarli! Non poteva e non voleva credergli. Si sforzò di contenere la furia a tal punto che le parve di avvertire il suo cervello esplodere. I muscoli tesi come corde di chitarra, le vene blu affioranti dai polsi e la faccia rossa e bollente. Ogni cosa di lei riconduceva a una bomba in procinto di detonarsi.
- NO! – strillò, con voce tremante – RIAPRI IMMEDIATAMENTE QUELLA PORTA!
Lo straniero non si mosse. Come la quercia che non si piega alla furia del vento.
- TI HO DETTO DI APRIRLA!!  - ripeté Leda, ancora più forte. Perché potesse sentirla bene – DEVO ANDARE A SALVARLI!!! APRILAAA!!
E, in men che non di dica, si ritrovò inchiodata al muro. Il collo stretto sotto la pesante forza dell’avanbraccio destro dello straniero. Con l’altra mano le aveva bloccato i polsi al muro, sopra la sua testa, e ora i suoi occhi a lei imperscrutabili la fissavano come luci sinistre nella notte.
- Cerca di capirlo in fretta, ragazzina – pronunciò, con una voce per nulla suadente. Leda l’avrebbe definita… agghiacciante. Poi sentenziò, sillabico. – E’ tardi. Non puoi più fare nulla. Sono tutti M O R T I.
- No… - tentò di mormorare Leda, che sotto a quella imposizione violenta aveva visto demolire l’ultimo briciolo di speranza rimastole.
La parola ‘morti’ si ripeteva quasi ossessivamente nel suo cervello, e le immagini delle persone che fino a qualche ora prima le avevano sorriso, l’avevano accolta festosi, l’avevano accarezzata… bruciavano. Bruciavano come vecchie foto gettate nel camino. E le sue mani non potevano più salvarle, perché si ustionavano ad ogni minimo contatto col fuoco di quella orribile realtà che le stava dando un orrendo schiaffo in faccia.
Theodore… Anais… Emily… Persino Alan… Tutti morti… cancellati per sempre… diventati polvere…
 
Cominciò a piangere, e la gola le fece male perché tentava di trattenersi e allo stesso tempo l’uomo gliela stringeva. Lacrime calde e umide cominciarono a scendere a fiotti dalle sue guance, amare, terribili, sofferte…
Non vedeva più niente. Solo una realtà distorta dalle lacrime. Come se fosse sott’acqua. Come se stesse affondando nel mare della disperazione.
La presa dell’uomo si azzerò, lasciandola scivolare a terra, senza forze. Si richiuse in sé stessa, mormorando i nomi dei suoi cari. I suoi cari, che ora non c’erano più. Scomparsi. La sua voce tremava, le sue unghie affondavano nelle sue spalle lasciandovi sopra graffi arrossati.
‘Perché?’, si chiedeva, ripetutamente. Perché erano morti?
Per colpa sua… ? Perché non era arrivata in tempo.
E se… ce l’avesse fatta… avrebbero avuto una possibilità? Sarebbero stati lì, accanto a lei?
L’uomo si chinò su di lei. Tentò di prenderle la mano con innaturale gentilezza, ma Leda fu più veloce. Gli mollò un violento schiaffo in faccia, tanto forte da scaraventarlo lontano da lei con un tonfo impressionante.
Nella caduta, il cappuccio scivolò via.
- Maledetto… - sibilò con rabbia e amarezza Leda, alzandosi a fatica. La voce le tremava, e per quanto si sforzasse non riusciva più a controllarla, per cui ogni parola si dimostrava essere una fatica immane.
Una rabbia senza precedenti era emersa in lei. I suoi occhi di liquirizia sembravano colti da brevi lampi vermigli simili a tuoni, che si accendevano e si spegnevano illuminandole lo sguardo d’ira. O forse, disperazione? Quell’attimo in cui l’essere umano lotta per scalare, a costo di graffiarsi a sangue le dita delle mani, la lunga parete di quello che pareva essere il dolore più vivo e puro mai esistito. Quell’attimo in cui qualsiasi appiglio sembra valido. Quell’attimo in cui la rabbia esplode incontrollata.
- Maledetto!! – gridò ancora Leda, avvicinandosi minacciosamente a lui stringendo forte i pugni. Se avesse stretto ancora di più, le sarebbero sanguinati. Il dolore fisico in quel momento era una sensazione secondaria, per non dire inutile. Che non lo provasse era fuori discussione. Ma che lo ignorasse, considerandolo un’estensione di quello che le stava divorando l’anima in quel momento era più che plausibile. I due dolori, entrambi allucinanti, si erano fusi in uno solo, spietato e implacabile.
E ora, l’unica destinazione del suo dolore era lo straniero, che senza più il cappuccio a coprirlo rivelava d’essere un giovane uomo dai capelli scuri, con due occhi felini e un neo proprio sotto a quello sinistro.
Leda lo strinse violentemente per il colletto del mantello e lo attirò a sé, senza il minimo sforzo.
Cercò di osservarlo bene, con quanta rabbia riusciva a incanalare nei due occhi furenti luccicanti di lampi che ora sembravano non appartenere più a Leda, ma a un mostro spaventoso.
L’uomo la fissò intensamente, con aria seria. Non sembrava volersi difendere, forse perché la reazione della ragazza non lo aveva intimorito neanche un po’. Non mosse un dito nemmeno quando la vide sollevare il braccio, teso, col pugno stretto e le nocche bianche.
Ma mentre stava per ricevere il colpo, una voce spezzò quel tombale silenzio.
- Leda!
Chiara, giovanile, il quel momento il più bel suono del mondo. Leda si voltò, con ancora negli occhi la furia che ribolliva in lei. Ma quando lo vide, la perse completamente. Rimasero solo un’espressione allibita, sconcertata, ma anche gioiosa, e un piccolo appiglio cui aggrapparsi per scalare quel buio dirupo dentro al quale era caduta la sua anima.
Lui era lì, immobile, la guardava contento e preoccupato al tempo stesso.
Leda non ci credette, all’inizio, ma la sua disperazione la portò a cedere presto alla diffidenza. Davanti a lei c’era la piccola e luminosa figura di Alan. 




Angolo di Momoko

Heylà! Sono tornata con un nuovo capitolo!
Spero di aver chiarito ben bene i dubbi sui retroscena della trama, sul perché e come si è arrivati a questo casino di situazione.
Allora, prima di dire qualsiasi cosa, devo fare un annuncio importante.
Tyki: ò_ò Spara.
Di recente la mia amica Myrae  ha postato una bellissima oneshot che ha dedicato anche a me, linkando la mia pagina e questa storia. Dato che il suo gesto è stato gentilissimo, la ringrazio tantissimo e le dedico l'intero capitolo (l'entrata in scena di Tyki per te <3). Inoltre vi linko la os in questione (viva lo spam :D) : Raison d'être.
Dato che dopo cose del genere mi sento un'ingrata patentata, spero che accetti questo mio gesto di riconoscenza *si inchina*. Arigatou gozaimasu, Myrae san!
Tyki: finalmente hai fatto qualcosa di utile! ù-ù.
E se riesco le organizzo il matrimonio con Tyki! *parte coi viaggi mentali*.
Tyki: hey, ferma, brutta lunatica, basta con la gratitudineee!!
Bene, ora andiamo al capitolo. Ci ho messo molto a postarlo, ma spero tuttavia di poter stabilizzare i tempi con un capitolo ogni due o tre settimane, se riesco. Se la scuola non dovesse impegnarmi troppo, e la voglia non dovesse mancarmi, in questo modo dovrei riuscire a scrivere e postare i capitoli con più regolarità (anche perché questa storia ne avrà un po'...).
Con meno 'robe amorose' e molto più angst penso che scrivere questa storia mi piacerà tantissimo! *ride malignamente*.
Sono contenta di dare una sferzata 'non yaoi' a questo fandom, che ultimamente vede molto di moda questo genere di storie. A me lo yaoi piace, per carità... ma non penso che debba diventare il tema dominante, qui. Perché, a dirla tutta, nelle coppie trattate, la solfa è sempre la stessa, e dopo un po' mi diventa monotona.
Penso che D. Gray-man non sia fatto solo di yaoi (sennò diventerebbe D. Gay-man), ma che al suo interno racchiuda molto di più! Spremete la vostra fantasia, e non abbiate paura di scrivere qualcosa solo per le recensioni che penserete di non ricevere! Se amate davvero scrivere, state tranquilli che non vi sarà difficile né trovare idee né trovare fidati lettori!
Ok, dopo questo piccolo sfogo, vi saluto, vado a vedere One Piece. Devo trovare il modo di rapire Sanji e aggiungerlo alla mia lista di adepti! Muhahahah!
Tyki: OAO'' Oddio...
Finalmente avrò un cuoco vero che mi cucini cose vere! Giusto, Tyki-pon?
Tyki: non è colpa mia se non so cucinare ''>.>

A prestoooo,

Momoko <3
   
 
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