16
Ingiustizia.
Febbraio, 2022.
Marion aggrottò la
fronte,
concentrata, contemplando gli scarabocchi a matita cancellati e
sovrapposti sui fogli bianchi, in un disordinato ordine mentale.
-La
risposta è... 6782, 0481123?- chiese, reggendosi la testa
con una mano. Near non distolse gli occhi dal castello di carte che
stava diligentemente erigendo.
-6782, 0481729, in realtà. Cerca di essere più
attenta
nei calcoli. Questi sono errori di distrazione.- S'interruppe e
riflettè per un istante. -Sei stata brava lo stesso,
comunque.-
Lidner glie l'aveva
detto, l'altro giorno, di incoraggiarla e farle
complimenti. Così nello studio si sarebbe sentita
più motivata.
Però lui lo trovava piuttosto diseducativo, oltre che
sciocco. Si
rese conto, quasi con sgomento, che il tempo di educarla era passato
ormai: era una ragazzina, un'adolescente. E stava diventando in gamba.
Marion, dal canto suo, represse a fatica un gemito disperato.
Distrazione?! Distrazione?! Distrarsi significava la morte in quel tipo
di esercizi. Lei non era attenta, era attentissima! Ricontrollava
sempre ogni singolo risultato, calcolo, prodotto, persino i
più
banali. Si soffermava a lungo e ragionava su quelli complessi.
Revisionava gli appunti per trovare gli errori, quando aveva finito.
Com'era possibile che sbagliasse comunque?! Che apparisse agli occhi
del tutore come una... scansafatiche pigra che si distraeva durante gli
esercizi?! Non c'era niente di più importante dello studio,
per
Marion. Lo prendeva molto sul serio.
-Lo rifaccio.- decise infine, decisa a far quadrare il risultato. Non
si sarebbe lasciata sconfiggere così, senza combattere, da
quella stupida trigonometria.
Near scosse impercettibilmente la testa, assorto. -Non è il
caso. Sei stanca. Vai a dormire e riposa.- ordinò con voce
autoritaria ma pacata.
Marion lo osservò, tormentata. -Senti, Near, io... io mi
impegno, mi dispiace che tu pensi...-
-Lo so.- la interruppe lui, quasi annoiato. -Non preoccuparti. Lo vedo.
Però, se non impari a sfruttare le tue capacità
al cento
per cento e mettere in gioco il tuo potenziale per intero,
finirà sprecato. Tu sei intelligente, Marion, molto
intelligente. Se così non fosse, non pretenderei tanto da
te.-
Quelle parole furono rigeneranti per lei. Un balsamo fresco, a lenire
le sue ferite pulsanti. Sentì d'un tratto il cuore
più
leggero e la stanchezza avvincerla meno tenacemente.
Annuì, compiaciuta ed orgogliosa. Sentirsi dire una cosa del
genere da Near era ciò che sperava più di
qualunque altra
cosa! Le venne quasi da ridere dalla felicità.
-Anche tuo padre era intelligente.- aggiunse Near inaspettatamente,
rigirandosi nervosamente una ciocca candida fra le dita. Il suo sguardo
era cupo. -Ma sbagliò tutto. Sprecò la sua vita,
sprecò le sue energie... si sprecò.-
Prima che Marion potesse azzardarsi a chiedere cautamente cosa
intendesse (non poteva dire una cosa del genere e non aspettarsi
domande!), la porta si spalancò all'improvviso, senza che
nessuno chiedesse il permesso. Near parve sorpreso, ma non innervosito.
La figura di Gevanni si stagliò come un'ombra fredda nella
lucentezza azzurra dell'ufficio. Il suo volto esibiva un'espressione
inorridita e sconvolta, i suoi lineamenti contratti e tesi in un
terrore sgomento attirarono lo sguardo gravoso del suo principale.
-Qualcosa la turba?- domandò asciutto, con voce
più
fredda che interessata. Come se non fosse evidente, pensò
Marion. Era un po' interdetta, nel vedere Gevanni in un simile stato, e
si chiese curiosa ma riluttante cosa potesse essere accaduto. In quel
millesimo di secondo che precedette la risposta, sperò di
cuore
che non fosse capitato nulla a Lidner o Tennyson: la sola idea faceva
echeggiare cupamente una cavernosa voragine nel suo petto.
Gevanni fissò Near, aggrappandosi ai suoi occhi, un'angoscia
antica incisa nello sguardo che Marion non comprese. Quasi una vecchia
ferita, una cicatrice ancora visibile.
-Kira è tornato.-
Quelle parole, poco più di una confessione spezzata
dall'ansia,
provocarono nella ragazzina una vuota indifferenza. Kira? Forse parlava
di quel criminale che Near aveva messo spalle al muro all'inizio della
sua carriera? Sapeva poco o nulla di lui, se non che aveva combinato
parecchi fastidi all'Interpol.
Near, invece, rimase immobile nella sua posizione. Non battè
le palpebre nemmeno una volta.
-Hai delle prove a fondamento di ciò?- chiese infine, con un
tono indecifrabile.
-Tutti i giornali ne parlano.- ribattè Gevanni, inquieto.
Near abbassò lo sguardo. A chiunque sarebbe apparso apatico,
ma
Marion sapeva bene distinguere i calcoli e i pensieri fulminei che in
quel momento saettavano dietro le sue iridi d'onice.
Osservò il suo castello di carte, seguendo ogni profilo
della trama complessa.
-Immaginavo che prima o poi la storia si sarebbe ripetuta, ma non
così... presto.- La sua voce parve incrinarsi appena, ma fu
una
flessione impercettibile. -Bisogna andarci cauti. Ciò
presupporrebbe un altro quaderno, altri genocidi... trarre conclusioni
affrettate mi pare fuori luogo. Farò tutti gli accertamenti
necessari.-
Marion, di quella criptica discussione, capì poco o nulla.
Parlavano seguendo un codice che non conosceva. Ma quel Kira non era
morto, alla fine? Che significava allora "è tornato"?! E
soprattutto, perchè Near avrebbe dovuto aspettarselo? Cosa
diavolo c'entravano i quaderni ed i genocidi?! Era così
frustrante non sapere le cose.
-Ma di cosa state parlando?!- ebbe il coraggio di domandare, confusa.
Il tutore la zittì con un'occhiata penetrante.
Gevanni non le badò. -E... se la notizia fosse vera?-
Near non rispose subito. Soppesò stancamente un dado,
scrutando
con attenzione il piccolo punto bianco posizionato al centro di una
delle facce. Lui era stanco, erano passati anni. Non ne aveva
più diciannove, e non aveva più nè la
forza
nè la prontezza di un tempo. La noia l'aveva estenuato, fino
a
trasformare i suoi giorni in una lineare, piatta successione senza
curve.
-Se malauguratamente la notizia fosse vera,- riprese, -torneremo a
combattere.-
Ma sapeva che quella non era la sua guerra, non più.
Cambiano i
nemici, cambiano gli eroi. La gloria gli era già spettata un
tempo.
Gevanni parve esitare. -Per quanto riguarda, invece... Marion? Bisogna
portarla al sicuro, trovare un modo per proteggerla...-
Questa volta lo sguardo di Near lo stordì, trafiggendolo
rapido e acuminato come un dardo.
-Nessuno torcerà un capello a Marion, fintanto che lei
sarà qui di fianco a me.-
E Marion, perplessa e dubbiosa, iniziò ad avvertire una
sottile
viscerale paura, che scivolava placida nel suo sangue come un veleno
certo della propria efficacia.
Giugno,
2025.
Faceva davvero caldo. Law sbuffò, infastidito
dal sottile
strato ardente di sudore a fior di pelle, e utilizzò uno dei
giornali di gossip che aveva comprato a Rail per farsi aria,
avvolgendolo su sè stesso. Rowena non pareva avere problemi
del
genere: correva allegra ed energica, senza dare segno di essere
importunata da quel sole infame e prepotente, e più che una
ragazza adulta e matura sembrava una bambina ad un picnic.
Però
come darle torto? L'incontaminata e lussureggiante distesa verde di
Central Park era davvero un luogo perfetto per fare le capriole
sull'erba.
Era una giornata afosa a New York. L'aria era soffocante, immobile, e
nemmeno la più lieve delle brezze giungeva a regolarizzare
la
delirante temperatura di quella mattinata stagnante. I turisti si
radunavano a frotte davanti ai baracchini dove vendevano
l'acqua, ansiosi di attaccarsi ad una bottiglietta di minerale e
placare l'arsura nella gola.
Però, nonostante le condizioni climatiche che poco
entusiasmavano Law, il ragazzo era convinto di avere fatto una scelta
azzeccata a fare tappa nella Grande Mela. Quale città
migliore
per disperdersi e passare inosservati? I turisti erano migliaia e
migliaia.
Anche Rail mal sopportava il caldo terribile, ma i negozi e le
novità di quella città frizzante e piena di vita
le
avevano restituito un po' di buonumore. In quel momento era sdraiata
sornionamente su una panchina, sul naso i grossi occhiali da sole presi
in un negozio di souvenir, e osservava in silenzio il sole spandersi
sul colore vivace dei prati.
Rowena saltellò fra gli alberi finchè le gambe
non
iniziarono a dolerle; si lasciò scivolare fra le margherite,
che
erano sbocciate furiosamente le une contro le altre, a spintonarsi fra
l'erba. Terra umida e scura macchiò
irreparabilmente i
jeans che Law le aveva imposto di indossare (aveva fatto mille
capricci, perchè proprio non li poteva soffrire) e la
rugiada le
imperlò la pelle.
Law si avvicinò, lasciando Rail al suo bagno di sole.
Vestita
così, come una ragazza normale, Rowena era ancora
più
bella. Era un peccato, pensò lui, che ci fosse quella
parrucca
biondastra a coprire i suoi boccoli castani, e quelle lenti a contatto
grigie sulle sue iridi fiammanti. Aveva un'espressione assorta,
lontana, come al solito.
-Sei felice?- le chiese dolcemente, guardandosi bene
dall'inginocchiarsi anche lui. Non voleva certo sporcare in quel modo
disgustoso anche i suoi, di vestiti.
La ragazza battè le ciglia diverse volte, come se la
realtà iniziasse a sfrigolare e farsi indistinta ai suoi
occhi.
-Non voglio tornare a casa.- affermò con decisione.
Artigliò l'erba bagnata con le mani, a quel pensiero.
L'altro si affrettò a tranquillizzarla. -E non ci
ritornerai,
piccola. Adesso andrà tutto bene. Vedremo un sacco di
città nuove e continueremo a fare il nostro lavoretto. Ti
va?-
Le parlò con pazienza e condiscendenza, così come
avrebbe
potuto fare con suo cugino. Ma pensare a lui, e quindi a Sayu e la sua
famiglia, fu un errore. Scacciò malamente la loro immagine
dalla
testa.
Rowena tacque e fissò la cresta dell'orizzonte frastagliata
dai
grattacieli, stancamente, come se fosse una routine durata tanti anni e
ormai noiosa. Ormai, per lei, era ovvio attendere che Law le infilasse
la parrucca e la vestisse, prima di uscire. Non strappò
l'erba,
come immaginava che avrebbe fatto, ma la sua presa
s'indebolì e
ci lasciò scivolare le dita attraverso.
-Faremo anche le passeggiate la sera, vero?- chiese, aggrottando la
fronte, come se l'idea di un suo diniego la inquietasse.
-Ma certo.- Law si rilassò in un sorriso. -Ora, che ne dici
di parlarmi di L?-
-L non mi chiede più di venire a giocare da lei.-
osservò, più confusa che contrariata.
Lui decise di insistere. -Quindi è una ragazza?-
Rowena spostò gli occhi su di lui e lo fissò con
sguardo
vuoto, inespressivo, come se quell'osservazione fosse stata fatta in
russo. Law si sentì un po' stupido, cosa che non capitava
molto
spesso.
-Già. E... sai chi sono i suoi genitori?- Non credeva di
essere
così fortunato da ottenere una risposta, men che meno di
senso
compiuto, ma forse avrebbe potuto trarre qualcosa. E Rowena era la sua
unica speranza di arrivare ad L, in fin dei conti.
La ragazza increspò la fronte, scavando in ricordi
remoti. Riuscì a recuperare solo brandelli, frammenti.
-Suo padre... non c'è. E anche sua madre. Lei
è
orfana. Come me.- concluse, in un attimo di fugace e sorprendente
lucidità. Abbassò lo sguardo sulle sue mani
lucide di
rugiada e imbrattate di terra, quasi cercandoci qualcosa che aveva
perso.
Law annuì lentamente con la testa. Non era poi
granchè,
come risposta. Calibrò bene le parole nello scandire: -E...
dove... abita?-
-Viaggia.- mormorò Rowena, spelacchiando con noncuranza una
margherita. -Tanto, troppo, così non sa più
dov'è
la sua casa. Però io... posso sempre scriverle una lettera.-
Il ragazzo annuì, come se avesse proposto di andare a bere
un cappuccino. -Perchè no.-
Lei sgranò un sorriso ampio, quasi trasognato, prima di
alzarsi
di scatto e fare un'altra corsa. Le sue gambe lunghe e snelle
scintillavano al sole di Giugno.
Rail, dalla sua panchina, inarcò le sopracciglia e
svolazzò rapidamente verso di lui. Lo osservò di
storto.
-Come, "perchè no"?! E a che indirizzo, scusa? Speri davvero
che la lettera arriverà ad L?!-
Law sorrise, vagamente, come intendendo qualcosa di divertente fra le
righe. -Lasciamola fare, ti dico. Mai sottovalutare i pazzi. Qualcosa
mi dice che funzionerà, Rail... questa ragazza vuole trovare
L
almeno quanto lo voglio io.-
Osservarono in silenzio la ragazza correre, saltellare nell'erba, come
fosse l'oracolo di un futuro troppo torbido per intuirne i profili.
Marion non volle sentire nemmeno una parola in più.
Rifiutò ogni scusa patetica che Halle tentò di
propinarle, quali "Non è proprio un essere umano, tesoro...
non
possiamo esserne sicuri!" e se ne andò in uno stato di
stordimento. Procedette per il corridoio senza avere idea di dove
andare, confusa, e nessuno dei due agenti la seguì.
Quella nuova scoperta le ingombrava la mente, offuscandole la vista e
impedendole di realizzare un qualsiasi altro pensiero. Non era
possibile, non lo era, non lo era.
Una figlia. Near aveva una figlia! E non l'aveva nemmeno mai saputo!
Quegli stronzi del laboratorio genetico si erano guardati bene di
spedire la lettera quand'avevano la certezza che fosse morto, e non
potesse avanzare diritti su di lei. Sicuramente era un genio, quella
bambina sconosciuta, e veniva sottoposta regolarmente a test ed
esperimenti. Nei laboratori è così.
Sconvolta, Marion si passò una mano sul volto. Qualcosa nel
suo
petto scottava e pulsava orribilmente. Con un po' di romanticismo, si
sarebbe potuto affermare che fosse il cuore.
Una patina di lacrime sciocche e fugaci le incrostò le iridi
cristalline. Come avevano potuto, Lidner e Gevanni, tenerla all'oscuro
di tutto?! Come avevano potuto ignorare l'esistenza di una piccola Near
nascosta da qualche parte?! Come avevano potuto sentirsi con la
coscienza a posto, dopo averla abbandonata al suo destino?!
E poi, che diavolo significava "non è un essere umano"?!
Certo
che lo era! Come si permettevano, loro, di dire una simile cattiveria?!
Cosa c'entrava il modo in cui era nata? Aveva gli stessi identici
diritti di tutti loro.
Digrignò i denti, infuriata e sbalordita e ancora incapace
di
inquadrare la situazione. Un incubo, solo un incubo dai colori troppo
vivaci.
Una figlia... Near sarebbe stato contento di scoprirlo? In ogni caso,
l'avrebbe presa con sè. Non si era mai sottratto a nessuna
responsabilità, figuriamoci occuparsi di una creatura che
aveva
il suo sangue. Ma la verità era che ormai era tardi: lui non
si
sarebbe svegliato mai più, non avrebbe mai neppure
sospettato la
sua esistenza.
Come avrebbe mai potuto essere, questa bambina? L'immagine di una
piccoletta con le trecce candide e una scatola di puzzle in braccio le
si affacciò in mente, e Marion l'accolse con sgomento.
Ancora non sapeva come procedere. Si accorse di essere scesa e salita
dalle scale in maniera ossessiva, e cercò di darsi
una
calmata. Appoggiò il gomito al corrimano e
riordinò i
pensieri, nervosa. Ne avrebbe parlato con gli altri, prima di tutto,
con Craig e Harmony e L. E insieme avrebbero organizzato le mosse
successive. L'unica certezza che aveva, incrollabile e
tenacemente salda come nient'altro mai, era che quella bambina avrebbe
abitato la casa che le spettava. Ovvero il quartier generale.
Forte del suo proposito, si diresse nuovamente al piano superiore.
Trasse il cellulare dalla tasca dei jeans e compose al volo il numero
di Harmony. Rispose dopo qualche squillo, in sottofondo brusii e
chiasso da locale.
-Ancora tu! Siamo usciti per avere un po' pace e rompi lo
stesso!- esclamò la ragazza, ridacchiando distrattamente.
Marion alzò gli occhi al soffitto. -Dove accidenti siete?!-
-Pizzeria.- borbottò l'amica.
-Novità. Sbrigatevi a venire.-
-Comandi.- sbuffò l'altra, riagganciando.
Per la precisione arrivarono circa un quarto d'ora dopo -con tutta la
calma del mondo- le mani sprofondate nelle tasche uno, l'immancabile
sigaretta fra le labbra l'altra, i capelli spettinati dal vento
entrambi. La bionda li fulminò con lo sguardo azzurro vivo,
irata.
-Cosa c'è in "sbrigatevi-a-venire" che non vi torna?!-
Craig le mise un braccio attorno alle spalle, conciliante. -Dai, su,
cara. Non fare la puntigliosa. Siamo curiosi di scoprire questa famosa
novità.-
-Certo, non vedevamo l'ora.- rincarò la gemella,
aggiustandosi un codino mezzo sciolto.
Marion fece una smorfia. -Andiamo di sopra, così ne parliamo
anche con L.-
I due scrollarono le spalle in un assenso e la seguirono placidi.
Raggiunto l'ufficio di Near e composto il codice, la visuale che si
presentò ai loro occhi non era molto diversa da prima,
l'investigatrice dalla chioma celeste era china sulla scrivania. Marion
notò che però non stava scrivendo niente.
-L, ho scoperto una cosa.-
Lei si voltò, gli occhi bicolori sgranati. -Stai per
mettermi al
corrente dell'esistenza della figlia del tuo tutore, se non erro.-
-E quando mai erri.- ribattè Craig, osservando divertito
l'espressione stupefatta di Marion. Poi sgranò gli occhi.
-Eh?!
Che?!-
Marion lo ignorò. -Te l'ha detto Lidner?!-
-A dire la verità, me ne ha informato la Wammy's House un
po' di tempo fa.- rispose la ragazza.
L'unica che non sa le cose sono io, alla fine,
pensò Marion risentita. Poi riprese a parlare.
-Sì, Near ha una figlia. O meglio, questa bambina
è nata
dal suo DNA... Si trova in un laboratorio genetico in America, al
momento, ma ho intenzione di tirarla fuori. L'unico problema
è
come.-
Harmony inarcò un sopracciglio, dubbiosa. -Oooo...k. Sembra
di
essere in un film horror. E com'è che Near non ti ha mai
detto
niente? Insomma, se ha tenuto te poteva ben tenersi anche l'altra.-
-Perchè Near non ha mai saputo della sua esistenza. Questi
famosi scienziati hanno inviato solo dopo la sua morte una lettera,
dove dicevano che l'esperimento era riuscito. Sospetto che il motivo
sia il desiderio di tenersi la bambina.-
-Che è una specie di Near in miniatura, ci scommetto,-
aggiunse Craig, -e tornerebbe utile in un laboratorio genetico.-
-E' quello che penso io.- confermò Marion contrariata.
L la fissò intensamente. -E' vero quello che dici? Vuoi
andarla a prendere?-
-Non ho idea di come fare, è per questo che sono qui.-
ammise la
ragazza, aggrottando gli occhi. -Io... io voglio trovarla. E
conoscerla. E invitarla a vivere qui.-
-Non è facile come sembra. Non è mica una bambina
come
tutte le altre, non puoi andare lì e portartela via.-
obiettò la detective, poco convinta.
-Sì, ma pur sempre bambina è. Merita di crescere
in una
casa vera, no? Dimmi tutto quello che sai di lei.- ordinò
Marion, curiosa.
L sospirò. -Ha nove anni. Reagisce molto bene ai test che le
vengono sottoposti, oltre ogni aspettativa. Poichè Near non
ha
richiesto di tenerla con sè, continuerà a vivere
in
laboratorio fino alla maggiore età. Le verranno concessi
documenti particolari, ovviamente, non potrà essere
considerata
come una donna normale.-
-E' un'ingiustizia!- sbottò la bionda, indignata,
incrociando le braccia.
-La vita è un'ingiustizia.- tagliò corto L.
-Dubito che
tu, da sola, potresti trovare il modo di ottenere la custodia della
bambina. Ma ci sono io qui.-
Harmony fece un sorriso graffiante di scherno. -Eh, meno male che ci
sei tu.-
-E cosa puoi fare?!- esclamò Marion, sgranando gli occhi.
-Ho contatti con una persona fidata alla Wammy's, che può
risolvere questa faccenda in quattro e quattr'otto. Visto che sono
colei che Near ha designato come sua erede, posso prendere delle
decisioni che sarebbero dovute spettare a lui. Quella bambina
è
nata per il bene dell'umanità, quindi quale occasione
può
essere migliore del caso Kira?-
Marion la ascoltò senza fiatare, poi le sorrise. -Beh,
grazie.
E' davvero importante per me. E, come hai detto tu, potrebbe darci una
grossa mano.-
-Allora è deciso.- commentò Harmony.
-Quando sarà possibile averla qui?- chiese Marion.
L ci pensò un momento. -Credo fra qualche giorno. Inoltre,
propongo che sia Craig ad andarla a prendere.-
Craig sussultò improvvisamente, l'attenzione destata dalle
sue parole. -Ma... che?! Io, perchè io?!-
-Perchè di sì.- replicò L, laconica.
-Chi sarebbe questa tua conoscenza alla Wammy's, poi? Dài,
ce lo
puoi dire. Stiamo dalla stessa parte.- insistette Marion, spazientita
da tutti quegli enigmi.
L'esitazione non durò a lungo, e la detective cedette. -Si
chiama Travis,- rivelò
infine, -ed è il nipote di Quillsh Wammy. Il figlio di sua
sorella. Fa diverse cose per mio conto.-
Marion aggrottò la fronte. Aveva notato la schermata del
computer: la posta. Il mittente dell'ultima mail le balzò
agli
occhi.
-Parlando del diavolo...Ti ha appena spedito un'e-mail, guarda.
C'è scritto Travis. L'hai letta?-
L osservò assorta l'icona, una piccola busta gialla.
-Sì. L'ho letta.-
***
14 Giugno 2025, Londra,
studio
ore 15:03 pm
L, ho trovato una lettera nella tua cassetta della posta, al tuo
indirizzo di Sarajevo. Te la riporto. Non c'è mittente, ma
immagino che tu leggendo lo intuirai.
L? Toc toc! Come stai?
Perchè non vieni più a giocare da me? Era
così divertente. Sei cattiva, L.
Forse è meglio ricoprirti di rosso e farti stare zitta
sempre. Perchè non mi vuoi bene, L?
Non credi che sia ora di
smetterla di scappare?
Tu hai la mia vendetta e io ho il tuo criminale. Come la mettiamo?
Facciamo cambio, L. Dammi la mia vendetta.
Mi è piaciuto venire a trovarti, ma perchè ti
nascondevi? Tu sei bella, L, non hai bisogno delle maschere.
Io ti darò il tuo criminale, L.
Vieni a trovarmi tu, stavolta. Oppure
La vendetta
hai forse paura?
***
L sospirò
apatica, rileggendo quelle poche righe. Travis aveva annotato che sul
retro della lettera c'era un indirizzo, a Kyoto. Oppure hai forse paura?
Scosse la testa, tentando di cacciare via dalla testa quei
frustranti sussurri. Rowena era tornata, irrompendo bruscamente nel suo
presente, quasi facendosi largo con un coltello. Ancora, come molti
anni prima. D'altronde, avevano parecchi conti in sospeso e dovevano
essere pareggiati tutti.
Pareggiati significava una cosa sola. Una di loro due avrebbe perso.
E una avrebbe vinto. Una vecchia storia già raccontata, di
cui Rowena credeva di poter cambiare il finale.
Per distrarsi, cercò il cellulare in mezzo ad un ammasso di
fogli svincolati dalle loro pile e compose un numero in fretta.
Ascoltò impaziente l'apatica sinfonia, che canticchiava
lentamente, come avesse tutto il tempo del mondo. Poi qualcuno si
degnò di rispondere.
-S...sì?- bofonchiò Craig, probabilmente premendo
il
cellulare all'orecchio grazie a qualche strana e inquietante manovra.
-Dove sei?- tagliò corto la detective. Udì un
sospiro esasperato.
-Sto uscendo dall'aeroporto... c'è una folla allucinante. Ti
sento abbastanza male. Adesso fermo un taxi e mi dirigo al
laboratorio... sperando che il tuo amico abbia fatto tutto quel che
avrebbe dovuto fare.-
-Indubbiamente.- ribattè L. -Mi raccomando, devi sbrigare
tutto
in meno di due ore. Il tuo aereo parte alle sette di stasera.-
Craig sbuffò, scostandosi un ricciolo fulvo dalla fronte.
-Non
me lo dimentico, capo. Filerà tutto liscio. Saluta Harmy.-
-Non fallire.- fu il laconico saluto.
Lui chiuse la chiamata, infilando il cellulare nella tasca sformata dei
jeans e squadrando con disappunto la calca davanti a sè, a
spintonarsi davanti all'uscita. La storia sembrava essere destinata a
durare ancora a lungo, e così fu. Solo due ore e un quarto
dopo,
per l'esattezza, scivolò giù dal vecchio sedile
in vinile
del taxi porgendo qualche banconota all'autista.
La brezza che lo accolse non era fredda, ma satura, pesante
d'umidità. Gli sfiorò le guance con pallida
malinconia,
quasi delusa dallo spettacolo di un cielo plumbeo e apatico. A dire la
verità, Craig sarebbe stato ben felice di passare due o tre
settimane lì, viaggiare da una parte all'altra dell'America,
che
amava tanto; ci era già andato alcune volte, e ci aveva
lasciato
il cuore. Era una specie di tortura, quindi, avere la
possibilità di andarci (gratis, per lo più) e non
poter
vedere nemmeno New York da lontano. Ma, con il cuore spezzato, si
costrinse a concentrarsi sulla sua missione.
Il laboratorio genetico di cui tanto si era parlato, una minacciosa
struttura grigiastra e piatta così lunga da sembrare un
serpente, si ergeva lapidaria davanti ai suoi occhi scettici. Attorno
ad essa nulla, nè una città nè
qualsiasi altro
edificio, una desolante e deprimente distesa attraversata da
un'autostrada deserta. Il silenzio era disarmante, e per un ragazzo
vissuto tra l'allegro traffico di Kyoto quasi assordante. Dopo una
camminata che gli parve interminabile, sotto il cielo di piombo denso,
si ritrovò di fronte all'entrata. Vide di fianco alla porta
d'acciaio un pannello con un piccolo pulsante, così lo
premette
a lungo. Attese, ma non sapeva nemmeno lui bene cosa.
-Prego.- Una voce metallica e gelida sibilò quella parola,
dal
piccolo microfono che notò giusto sotto il bottone. Incerto,
non
seppe bene cosa rispondere.
-Vengo in nome di L.- rispose Craig nervosamente. -Io ho un... uh...
foglio.-
Frugò nello zaino che portava sulla spalla e ne estrasse una
cartella. Esibì il foglio che conteneva, un documento
protetto
dalla plastica. Lo sventolò davanti alla piccola telecamera,
sperando bastasse.
Dopo una pausa sconfortante, un campanello squillò e la
porta si socchiuse.
Ci vollero tre quarti d'ora buoni a Craig per convincere tutta l'equipe
degli scienziati e delle segretarie diffidenti che il documento era
valido e non c'era nessuna irregolarità. Dopo aver
controllato
un migliaio di volte il foglio in cui L lo dichiarava suo assistente e
la sua carta d'identità, si decisero a mostrargli la bambina.
Craig guardò nervoso l'orologio da polso: quattro e
quarantaquattro. Doveva far presto. Sperava che, superata la noiosa
burocrazia, le cose si sarebbero svolte con più
rapidità,
altrimenti L l'avrebbe disumanato.
Seguiva con passo placido e stanco la dottoressa in camice che
l'avrebbe dovuto condurre dalla figlia di Near, ma i labirintici
corridoi sembravano intrecciarsi l'uno con l'altro senza condurre da
nessuna parte. I minuti scorrevano inevitabili, vischiosi,
interminabili. Le pareti asettiche e le scrivanie ordinate che si
presentavano ai suoi occhi erano una successione poco interessante.
Stava pensando vagamente che aveva fame, che non aveva mangiato niente
in aeroporto e che il cibo sull'aereo è disgustoso, quando
d'un
tratto la donna che gli faceva da guida si fermò.
Gli parve così strano, dopo tutto quel tempo, che quasi le
finì addosso. Sbattè le palpebre e
fissò la porta
sulla cui maniglia lei posò la mano.
-Da questa parte.- affermò seccamente, estraendo dalla tasca
del
camice un mazzo di chiavi e rigirando un paio di volte una di quelle
nella serratura. Aprì la porta con un cenno annoiato della
mano
e lo invitò ad entrare.
Craig avanzò titubante nella stanza, e gli bastarono pochi
secondi per dubitare che una bambina vi stesse all'interno. Prima di
tutto, la sola luce che la illuminava era quella filtrata dal
corridoio, quindi prima che lui entrasse a rigor di logica avrebbe
dovuto essere invasa da un buio pesto. Poi era piccola, angusta, le
pareti erano un po' annerite dal tempo e non c'era nemmeno un mobile.
Come era possibile che una bambina rimanesse da sola, al buio, in una
stanza dall'arredamento così minimale?!
Si guardò intorno, improvvisamente con il cuore in gola,
quasi
in ansia. Si sentì in colpa, per avere pensato
così poco
al motivo del suo viaggio, di averla considerata come un
pacco.
Mille e mille domande mute attraversarono la sua mente, mentre i suoi
occhi perlustravano la stanza e realizzavano che era vuota.
Poi la porta cigolò sui cardini e si accostò allo
stipite, attutendo la luce. Sussultò letteralmente di paura
nello scorgere, fra le tenebre addensate nell'angolo, il profilo di una
figuretta minuta.
Pensò subito che era piccola,
molto piccola. Non aveva mai visto nessuno così... piccolo.
Anche se era seduta, poteva calcolare che in piedi sarebbe arrivata
all'incirca al suo gomito. Il suo corpo era magro e sottile, come
un'ombra filiforme, e le sue braccia ossute -che parevano fin troppo
deboli- cingevano strette le ginocchia. Il pallore del suo volto era
qualcosa di spaventoso, era... cerea. Cadaverica. I suoi lineamenti
nascosti nelle tenebre erano familiari, i suoi occhi ancora di
più: pozzi, voragini. Pupille grandi come macchie
d'inchiostro
spante nelle iridi. I capelli, un caschetto ordinato e regolare che le
carezzava delicatamente il mento, erano corvini come onice bagnato.
Lo fissava con quei suoi occhi enormi, rannicchiata dietro la porta, le
piccole spalle contro il muro.
Note dell'Autrice: Dopo una viiiiita, ecco questo nuovo capitolo. ^-^
E adesso che cosa succederà? L incontrerà davvero
Rowena? E la figlia di Near cosa combinerà al quartier
generale?
Vi prego, miei lettori, il vostro sostegno è vitale per me!
Vi adoro,
Lucy
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