Anime & Manga > Death Note
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Autore: MadLucy    25/11/2012    3 recensioni
Giappone, 2025. Nel vecchio quartier generale dell'SPK cresce una bambina, consegnata quindici anni prima da Mello al suo più acerrimo rivale.
Inghilterra, 2025. Un misterioso studente della Wammy's House parte per il Giappone, portando con sè un quaderno nero e una Shinigami petulante.
Usa, 2025. Un esperimento genetico iniziato nove anni prima, il cui scopo era creare un essere umano dall'intelligenza devastante, ha esito positivo.
Spagna, 2025. In seguito a una serie di barbari e atroci omicidi, una ragazza dagli occhi rossi viene internata in un manicomio.
E Death Note può ricominciare lì dov'è finito.
Genere: Generale, Malinconico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri personaggi, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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16

Ingiustizia.

Febbraio, 2022.

Marion aggrottò la fronte, concentrata, contemplando gli scarabocchi a matita cancellati e sovrapposti sui fogli bianchi, in un disordinato ordine mentale.
-La risposta è... 6782, 0481123?- chiese, reggendosi la testa con una mano. Near non distolse gli occhi dal castello di carte che stava diligentemente erigendo.

-6782, 0481729, in realtà. Cerca di essere più attenta nei calcoli. Questi sono errori di distrazione.- S'interruppe e riflettè per un istante. -Sei stata brava lo stesso, comunque.-

Lidner glie l'aveva detto, l'altro giorno, di incoraggiarla e farle complimenti. Così nello studio si sarebbe sentita più motivata. Però lui lo trovava piuttosto diseducativo, oltre che sciocco. Si rese conto, quasi con sgomento, che il tempo di educarla era passato ormai: era una ragazzina, un'adolescente. E stava diventando in gamba.
Marion, dal canto suo, represse a fatica un gemito disperato. Distrazione?! Distrazione?! Distrarsi significava la morte in quel tipo di esercizi. Lei non era attenta, era attentissima! Ricontrollava sempre ogni singolo risultato, calcolo, prodotto, persino i più banali. Si soffermava a lungo e ragionava su quelli complessi. Revisionava gli appunti per trovare gli errori, quando aveva finito. Com'era possibile che sbagliasse comunque?! Che apparisse agli occhi del tutore come una... scansafatiche pigra che si distraeva durante gli esercizi?! Non c'era niente di più importante dello studio, per Marion. Lo prendeva molto sul serio.
-Lo rifaccio.- decise infine, decisa a far quadrare il risultato. Non si sarebbe lasciata sconfiggere così, senza combattere, da quella stupida trigonometria.
Near scosse impercettibilmente la testa, assorto. -Non è il caso. Sei stanca. Vai a dormire e riposa.- ordinò con voce autoritaria ma pacata.
Marion lo osservò, tormentata. -Senti, Near, io... io mi impegno, mi dispiace che tu pensi...-
-Lo so.- la interruppe lui, quasi annoiato. -Non preoccuparti. Lo vedo. Però, se non impari a sfruttare le tue capacità al cento per cento e mettere in gioco il tuo potenziale per intero, finirà sprecato. Tu sei intelligente, Marion, molto intelligente. Se così non fosse, non pretenderei tanto da te.-
Quelle parole furono rigeneranti per lei. Un balsamo fresco, a lenire le sue ferite pulsanti. Sentì d'un tratto il cuore più leggero e la stanchezza avvincerla meno tenacemente.
Annuì, compiaciuta ed orgogliosa. Sentirsi dire una cosa del genere da Near era ciò che sperava più di qualunque altra cosa! Le venne quasi da ridere dalla felicità.
-Anche tuo padre era intelligente.- aggiunse Near inaspettatamente, rigirandosi nervosamente una ciocca candida fra le dita. Il suo sguardo era cupo. -Ma sbagliò tutto. Sprecò la sua vita, sprecò le sue energie... si sprecò.-
Prima che Marion potesse azzardarsi a chiedere cautamente cosa intendesse (non poteva dire una cosa del genere e non aspettarsi domande!), la porta si spalancò all'improvviso, senza che nessuno chiedesse il permesso. Near parve sorpreso, ma non innervosito. La figura di Gevanni si stagliò come un'ombra fredda nella lucentezza azzurra dell'ufficio. Il suo volto esibiva un'espressione inorridita e sconvolta, i suoi lineamenti contratti e tesi in un terrore sgomento attirarono lo sguardo gravoso del suo principale.
-Qualcosa la turba?- domandò asciutto, con voce più fredda che interessata. Come se non fosse evidente, pensò Marion. Era un po' interdetta, nel vedere Gevanni in un simile stato, e si chiese curiosa ma riluttante cosa potesse essere accaduto. In quel millesimo di secondo che precedette la risposta, sperò di cuore che non fosse capitato nulla a Lidner o Tennyson: la sola idea faceva echeggiare cupamente una cavernosa voragine nel suo petto.
Gevanni fissò Near, aggrappandosi ai suoi occhi, un'angoscia antica incisa nello sguardo che Marion non comprese. Quasi una vecchia ferita, una cicatrice ancora visibile.
-Kira è tornato.-
Quelle parole, poco più di una confessione spezzata dall'ansia, provocarono nella ragazzina una vuota indifferenza. Kira? Forse parlava di quel criminale che Near aveva messo spalle al muro all'inizio della sua carriera? Sapeva poco o nulla di lui, se non che aveva combinato parecchi fastidi all'Interpol.
Near, invece, rimase immobile nella sua posizione. Non battè le palpebre nemmeno una volta.
-Hai delle prove a fondamento di ciò?- chiese infine, con un tono indecifrabile.
-Tutti i giornali ne parlano.- ribattè Gevanni, inquieto.
Near abbassò lo sguardo. A chiunque sarebbe apparso apatico, ma Marion sapeva bene distinguere i calcoli e i pensieri fulminei che in quel momento saettavano dietro le sue iridi d'onice.
Osservò il suo castello di carte, seguendo ogni profilo della trama complessa.
-Immaginavo che prima o poi la storia si sarebbe ripetuta, ma non così... presto.- La sua voce parve incrinarsi appena, ma fu una flessione impercettibile. -Bisogna andarci cauti. Ciò presupporrebbe un altro quaderno, altri genocidi... trarre conclusioni affrettate mi pare fuori luogo. Farò tutti gli accertamenti necessari.-
Marion, di quella criptica discussione, capì poco o nulla. Parlavano seguendo un codice che non conosceva. Ma quel Kira non era morto, alla fine? Che significava allora "è tornato"?! E soprattutto, perchè Near avrebbe dovuto aspettarselo? Cosa diavolo c'entravano i quaderni ed i genocidi?! Era così frustrante non sapere le cose.
-Ma di cosa state parlando?!- ebbe il coraggio di domandare, confusa. Il tutore la zittì con un'occhiata penetrante.
Gevanni non le badò. -E... se la notizia fosse vera?-
Near non rispose subito. Soppesò stancamente un dado, scrutando con attenzione il piccolo punto bianco posizionato al centro di una delle facce. Lui era stanco, erano passati anni. Non ne aveva più diciannove, e non aveva più nè la forza nè la prontezza di un tempo. La noia l'aveva estenuato, fino a trasformare i suoi giorni in una lineare, piatta successione senza curve.
-Se malauguratamente la notizia fosse vera,- riprese, -torneremo a combattere.-
Ma sapeva che quella non era la sua guerra, non più. Cambiano i nemici, cambiano gli eroi. La gloria gli era già spettata un tempo.
Gevanni parve esitare. -Per quanto riguarda, invece... Marion? Bisogna portarla al sicuro, trovare un modo per proteggerla...-
Questa volta lo sguardo di Near lo stordì, trafiggendolo rapido e acuminato come un dardo.
-Nessuno torcerà un capello a Marion, fintanto che lei sarà qui di fianco a me.-
E Marion, perplessa e dubbiosa, iniziò ad avvertire una sottile viscerale paura, che scivolava placida nel suo sangue come un veleno certo della propria efficacia.


Giugno, 2025.

Faceva davvero caldo. Law sbuffò, infastidito dal sottile strato ardente di sudore a fior di pelle, e utilizzò uno dei giornali di gossip che aveva comprato a Rail per farsi aria, avvolgendolo su sè stesso. Rowena non pareva avere problemi del genere: correva allegra ed energica, senza dare segno di essere importunata da quel sole infame e prepotente, e più che una ragazza adulta e matura sembrava una bambina ad un picnic. Però come darle torto? L'incontaminata e lussureggiante distesa verde di Central Park era davvero un luogo perfetto per fare le capriole sull'erba.
Era una giornata afosa a New York. L'aria era soffocante, immobile, e nemmeno la più lieve delle brezze giungeva a regolarizzare la delirante temperatura di quella mattinata stagnante. I turisti si radunavano a frotte davanti ai baracchini dove vendevano l'acqua, ansiosi di attaccarsi ad una bottiglietta di minerale e placare l'arsura nella gola.
Però, nonostante le condizioni climatiche che poco entusiasmavano Law, il ragazzo era convinto di avere fatto una scelta azzeccata a fare tappa nella Grande Mela. Quale città migliore per disperdersi e passare inosservati? I turisti erano migliaia e migliaia.
Anche Rail mal sopportava il caldo terribile, ma i negozi e le novità di quella città frizzante e piena di vita le avevano restituito un po' di buonumore. In quel momento era sdraiata sornionamente su una panchina, sul naso i grossi occhiali da sole presi in un negozio di souvenir, e osservava in silenzio il sole spandersi sul colore vivace dei prati.
Rowena saltellò fra gli alberi finchè le gambe non iniziarono a dolerle; si lasciò scivolare fra le margherite, che erano sbocciate furiosamente le une contro le altre, a spintonarsi fra l'erba. Terra umida e scura macchiò irreparabilmente i jeans che Law le aveva imposto di indossare (aveva fatto mille capricci, perchè proprio non li poteva soffrire) e la rugiada le imperlò la pelle.
Law si avvicinò, lasciando Rail al suo bagno di sole. Vestita così, come una ragazza normale, Rowena era ancora più bella. Era un peccato, pensò lui, che ci fosse quella parrucca biondastra a coprire i suoi boccoli castani, e quelle lenti a contatto grigie sulle sue iridi fiammanti. Aveva un'espressione assorta, lontana, come al solito.
-Sei felice?- le chiese dolcemente, guardandosi bene dall'inginocchiarsi anche lui. Non voleva certo sporcare in quel modo disgustoso anche i suoi, di vestiti.
La ragazza battè le ciglia diverse volte, come se la realtà iniziasse a sfrigolare e farsi indistinta ai suoi occhi.
-Non voglio tornare a casa.- affermò con decisione. Artigliò l'erba bagnata con le mani, a quel pensiero.
L'altro si affrettò a tranquillizzarla. -E non ci ritornerai, piccola. Adesso andrà tutto bene. Vedremo un sacco di città nuove e continueremo a fare il nostro lavoretto. Ti va?-
Le parlò con pazienza e condiscendenza, così come avrebbe potuto fare con suo cugino. Ma pensare a lui, e quindi a Sayu e la sua famiglia, fu un errore. Scacciò malamente la loro immagine dalla testa.
Rowena tacque e fissò la cresta dell'orizzonte frastagliata dai grattacieli, stancamente, come se fosse una routine durata tanti anni e ormai noiosa. Ormai, per lei, era ovvio attendere che Law le infilasse la parrucca e la vestisse, prima di uscire. Non strappò l'erba, come immaginava che avrebbe fatto, ma la sua presa s'indebolì e ci lasciò scivolare le dita attraverso.
-Faremo anche le passeggiate la sera, vero?- chiese, aggrottando la fronte, come se l'idea di un suo diniego la inquietasse.
-Ma certo.- Law si rilassò in un sorriso. -Ora, che ne dici di parlarmi di L?-
-L non mi chiede più di venire a giocare da lei.- osservò, più confusa che contrariata.
Lui decise di insistere. -Quindi è una ragazza?-
Rowena spostò gli occhi su di lui e lo fissò con sguardo vuoto, inespressivo, come se quell'osservazione fosse stata fatta in russo. Law si sentì un po' stupido, cosa che non capitava molto spesso.
-Già. E... sai chi sono i suoi genitori?- Non credeva di essere così fortunato da ottenere una risposta, men che meno di senso compiuto, ma forse avrebbe potuto trarre qualcosa. E Rowena era la sua unica speranza di arrivare ad L, in fin dei conti.
La ragazza increspò la fronte, scavando in ricordi remoti. Riuscì a recuperare solo brandelli, frammenti.
-Suo padre... non c'è. E anche sua madre. Lei è orfana. Come me.- concluse, in un attimo di fugace e sorprendente lucidità. Abbassò lo sguardo sulle sue mani lucide di rugiada e imbrattate di terra, quasi cercandoci qualcosa che aveva perso.
Law annuì lentamente con la testa. Non era poi granchè, come risposta. Calibrò bene le parole nello scandire: -E... dove... abita?-
-Viaggia.- mormorò Rowena, spelacchiando con noncuranza una margherita. -Tanto, troppo, così non sa più dov'è la sua casa. Però io... posso sempre scriverle una lettera.-
Il ragazzo annuì, come se avesse proposto di andare a bere un cappuccino. -Perchè no.-
Lei sgranò un sorriso ampio, quasi trasognato, prima di alzarsi di scatto e fare un'altra corsa. Le sue gambe lunghe e snelle scintillavano al sole di Giugno.
Rail, dalla sua panchina, inarcò le sopracciglia e svolazzò rapidamente verso di lui. Lo osservò di storto.
-Come, "perchè no"?! E a che indirizzo, scusa? Speri davvero che la lettera arriverà ad L?!-
Law sorrise, vagamente, come intendendo qualcosa di divertente fra le righe. -Lasciamola fare, ti dico. Mai sottovalutare i pazzi. Qualcosa mi dice che funzionerà, Rail... questa ragazza vuole trovare L almeno quanto lo voglio io.-
Osservarono in silenzio la ragazza correre, saltellare nell'erba, come fosse l'oracolo di un futuro troppo torbido per intuirne i profili.


Marion non volle sentire nemmeno una parola in più. Rifiutò ogni scusa patetica che Halle tentò di propinarle, quali "Non è proprio un essere umano, tesoro... non possiamo esserne sicuri!" e se ne andò in uno stato di stordimento. Procedette per il corridoio senza avere idea di dove andare, confusa, e nessuno dei due agenti la seguì.
Quella nuova scoperta le ingombrava la mente, offuscandole la vista e impedendole di realizzare un qualsiasi altro pensiero. Non era possibile, non lo era, non lo era.
Una figlia. Near aveva una figlia! E non l'aveva nemmeno mai saputo! Quegli stronzi del laboratorio genetico si erano guardati bene di spedire la lettera quand'avevano la certezza che fosse morto, e non potesse avanzare diritti su di lei. Sicuramente era un genio, quella bambina sconosciuta, e veniva sottoposta regolarmente a test ed esperimenti. Nei laboratori è così.
Sconvolta, Marion si passò una mano sul volto. Qualcosa nel suo petto scottava e pulsava orribilmente. Con un po' di romanticismo, si sarebbe potuto affermare che fosse il cuore.
Una patina di lacrime sciocche e fugaci le incrostò le iridi cristalline. Come avevano potuto, Lidner e Gevanni, tenerla all'oscuro di tutto?! Come avevano potuto ignorare l'esistenza di una piccola Near nascosta da qualche parte?! Come avevano potuto sentirsi con la coscienza a posto, dopo averla abbandonata al suo destino?!
E poi, che diavolo significava "non è un essere umano"?! Certo che lo era! Come si permettevano, loro, di dire una simile cattiveria?! Cosa c'entrava il modo in cui era nata? Aveva gli stessi identici diritti di tutti loro.
Digrignò i denti, infuriata e sbalordita e ancora incapace di inquadrare la situazione. Un incubo, solo un incubo dai colori troppo vivaci.
Una figlia... Near sarebbe stato contento di scoprirlo? In ogni caso, l'avrebbe presa con sè. Non si era mai sottratto a nessuna responsabilità, figuriamoci occuparsi di una creatura che aveva il suo sangue. Ma la verità era che ormai era tardi: lui non si sarebbe svegliato mai più, non avrebbe mai neppure sospettato la sua esistenza.
Come avrebbe mai potuto essere, questa bambina? L'immagine di una piccoletta con le trecce candide e una scatola di puzzle in braccio le si affacciò in mente, e Marion l'accolse con sgomento.
Ancora non sapeva come procedere. Si accorse di essere scesa e salita dalle scale in maniera ossessiva, e cercò di darsi una calmata. Appoggiò il gomito al corrimano e riordinò i pensieri, nervosa. Ne avrebbe parlato con gli altri, prima di tutto, con Craig e Harmony e L. E insieme avrebbero organizzato le mosse successive.  L'unica certezza che aveva, incrollabile e tenacemente salda come nient'altro mai, era che quella bambina avrebbe abitato la casa che le spettava. Ovvero il quartier generale.
Forte del suo proposito, si diresse nuovamente al piano superiore. Trasse il cellulare dalla tasca dei jeans e compose al volo il numero di Harmony. Rispose dopo qualche squillo, in sottofondo brusii e chiasso da locale.
-Ancora tu! Siamo usciti per avere un po' pace e rompi lo stesso!- esclamò la ragazza, ridacchiando distrattamente.
Marion alzò gli occhi al soffitto. -Dove accidenti siete?!-
-Pizzeria.- borbottò l'amica.
-Novità. Sbrigatevi a venire.-
-Comandi.- sbuffò l'altra, riagganciando.
Per la precisione arrivarono circa un quarto d'ora dopo -con tutta la calma del mondo- le mani sprofondate nelle tasche uno, l'immancabile sigaretta fra le labbra l'altra, i capelli spettinati dal vento entrambi. La bionda li fulminò con lo sguardo azzurro vivo, irata.
-Cosa c'è in "sbrigatevi-a-venire" che non vi torna?!-
Craig le mise un braccio attorno alle spalle, conciliante. -Dai, su, cara. Non fare la puntigliosa. Siamo curiosi di scoprire questa famosa novità.-
-Certo, non vedevamo l'ora.- rincarò la gemella, aggiustandosi un codino mezzo sciolto.
Marion fece una smorfia. -Andiamo di sopra, così ne parliamo anche con L.-
I due scrollarono le spalle in un assenso e la seguirono placidi. Raggiunto l'ufficio di Near e composto il codice, la visuale che si presentò ai loro occhi non era molto diversa da prima, l'investigatrice dalla chioma celeste era china sulla scrivania. Marion notò che però non stava scrivendo niente.
-L, ho scoperto una cosa.-
Lei si voltò, gli occhi bicolori sgranati. -Stai per mettermi al corrente dell'esistenza della figlia del tuo tutore, se non erro.-
-E quando mai erri.- ribattè Craig, osservando divertito l'espressione stupefatta di Marion. Poi sgranò gli occhi. -Eh?! Che?!-
Marion lo ignorò. -Te l'ha detto Lidner?!-
-A dire la verità, me ne ha informato la Wammy's House un po' di tempo fa.- rispose la ragazza.
L'unica che non sa le cose sono io, alla fine, pensò Marion risentita. Poi riprese a parlare.
-Sì, Near ha una figlia. O meglio, questa bambina è nata dal suo DNA... Si trova in un laboratorio genetico in America, al momento, ma ho intenzione di tirarla fuori. L'unico problema è come.-
Harmony inarcò un sopracciglio, dubbiosa. -Oooo...k. Sembra di essere in un film horror. E com'è che Near non ti ha mai detto niente? Insomma, se ha tenuto te poteva ben tenersi anche l'altra.-
-Perchè Near non ha mai saputo della sua esistenza. Questi famosi scienziati hanno inviato solo dopo la sua morte una lettera, dove dicevano che l'esperimento era riuscito. Sospetto che il motivo sia il desiderio di tenersi la bambina.-
-Che è una specie di Near in miniatura, ci scommetto,- aggiunse Craig, -e tornerebbe utile in un laboratorio genetico.-
-E' quello che penso io.- confermò Marion contrariata.
L la fissò intensamente. -E' vero quello che dici? Vuoi andarla a prendere?-
-Non ho idea di come fare, è per questo che sono qui.- ammise la ragazza, aggrottando gli occhi. -Io... io voglio trovarla. E conoscerla. E invitarla a vivere qui.-
-Non è facile come sembra. Non è mica una bambina come tutte le altre, non puoi andare lì e portartela via.- obiettò la detective, poco convinta.
-Sì, ma pur sempre bambina è. Merita di crescere in una casa vera, no? Dimmi tutto quello che sai di lei.- ordinò Marion, curiosa.
L sospirò. -Ha nove anni. Reagisce molto bene ai test che le vengono sottoposti, oltre ogni aspettativa. Poichè Near non ha richiesto di tenerla con sè, continuerà a vivere in laboratorio fino alla maggiore età. Le verranno concessi documenti particolari, ovviamente, non potrà essere considerata come una donna normale.-
-E' un'ingiustizia!- sbottò la bionda, indignata, incrociando le braccia.
-La vita è un'ingiustizia.- tagliò corto L. -Dubito che tu, da sola, potresti trovare il modo di ottenere la custodia della bambina. Ma ci sono io qui.-
Harmony fece un sorriso graffiante di scherno. -Eh, meno male che ci sei tu.-
-E cosa puoi fare?!- esclamò Marion, sgranando gli occhi.
-Ho contatti con una persona fidata alla Wammy's, che può risolvere questa faccenda in quattro e quattr'otto. Visto che sono colei che Near ha designato come sua erede, posso prendere delle decisioni che sarebbero dovute spettare a lui. Quella bambina è nata per il bene dell'umanità, quindi quale occasione può essere migliore del caso Kira?-
Marion la ascoltò senza fiatare, poi le sorrise. -Beh, grazie. E' davvero importante per me. E, come hai detto tu, potrebbe darci una grossa mano.-
-Allora è deciso.- commentò Harmony.
-Quando sarà possibile averla qui?- chiese Marion.
L ci pensò un momento. -Credo fra qualche giorno. Inoltre, propongo che sia Craig ad andarla a prendere.-
Craig sussultò improvvisamente, l'attenzione destata dalle sue parole. -Ma... che?! Io, perchè io?!-
-Perchè di sì.- replicò L, laconica.
-Chi sarebbe questa tua conoscenza alla Wammy's, poi? Dài, ce lo puoi dire. Stiamo dalla stessa parte.- insistette Marion, spazientita da tutti quegli enigmi.
L'esitazione non durò a lungo, e la detective cedette. -Si chiama Travis,- rivelò infine, -ed è il nipote di Quillsh Wammy. Il figlio di sua sorella. Fa diverse cose per mio conto.-
Marion aggrottò la fronte. Aveva notato la schermata del computer: la posta. Il mittente dell'ultima mail le balzò agli occhi.
-Parlando del diavolo...Ti ha appena spedito un'e-mail, guarda. C'è scritto Travis. L'hai letta?-
L osservò assorta l'icona, una piccola busta gialla. -Sì. L'ho letta.-

***
14 Giugno 2025, Londra, studio                                          
              ore 15:03 pm                                          
L, ho trovato una lettera nella tua cassetta della posta, al tuo indirizzo di Sarajevo. Te la riporto. Non c'è mittente, ma immagino che tu leggendo lo intuirai.

L? Toc toc! Come stai?
Perchè non vieni più a giocare da me? Era così divertente. Sei cattiva, L.
Forse è meglio ricoprirti di rosso e farti stare zitta sempre. Perchè non mi vuoi bene, L?
Non credi che sia ora di smetterla di scappare?
Tu hai la mia vendetta e io ho il tuo criminale. Come la mettiamo?
Facciamo cambio, L. Dammi la mia vendetta.
Mi è piaciuto venire a trovarti, ma perchè ti nascondevi? Tu sei bella, L, non hai bisogno delle maschere.
Io ti darò il tuo criminale, L.
Vieni a trovarmi tu, stavolta. Oppure
La vendetta
hai forse paura?

***

L sospirò apatica, rileggendo quelle poche righe. Travis aveva annotato che sul retro della lettera c'era un indirizzo, a Kyoto. Oppure hai forse paura?
Scosse la testa, tentando di cacciare via dalla testa quei frustranti sussurri. Rowena era tornata, irrompendo bruscamente nel suo presente, quasi facendosi largo con un coltello. Ancora, come molti anni prima. D'altronde, avevano parecchi conti in sospeso e dovevano essere pareggiati tutti.
Pareggiati significava una cosa sola. Una di loro due avrebbe perso.
E una avrebbe vinto. Una vecchia storia già raccontata, di cui Rowena credeva di poter cambiare il finale.
Per distrarsi, cercò il cellulare in mezzo ad un ammasso di fogli svincolati dalle loro pile e compose un numero in fretta.
Ascoltò impaziente l'apatica sinfonia, che canticchiava lentamente, come avesse tutto il tempo del mondo. Poi qualcuno si degnò di rispondere.
-S...sì?- bofonchiò Craig, probabilmente premendo il cellulare all'orecchio grazie a qualche strana e inquietante manovra.
-Dove sei?- tagliò corto la detective. Udì un sospiro esasperato.
-Sto uscendo dall'aeroporto... c'è una folla allucinante. Ti sento abbastanza male. Adesso fermo un taxi e mi dirigo al laboratorio... sperando che il tuo amico abbia fatto tutto quel che avrebbe dovuto fare.-
-Indubbiamente.- ribattè L. -Mi raccomando, devi sbrigare tutto in meno di due ore. Il tuo aereo parte alle sette di stasera.-
Craig sbuffò, scostandosi un ricciolo fulvo dalla fronte. -Non me lo dimentico, capo. Filerà tutto liscio. Saluta Harmy.-
-Non fallire.- fu il laconico saluto.
Lui chiuse la chiamata, infilando il cellulare nella tasca sformata dei jeans e squadrando con disappunto la calca davanti a sè, a spintonarsi davanti all'uscita. La storia sembrava essere destinata a durare ancora a lungo, e così fu. Solo due ore e un quarto dopo, per l'esattezza, scivolò giù dal vecchio sedile in vinile del taxi porgendo qualche banconota all'autista.
La brezza che lo accolse non era fredda, ma satura, pesante d'umidità. Gli sfiorò le guance con pallida malinconia, quasi delusa dallo spettacolo di un cielo plumbeo e apatico. A dire la verità, Craig sarebbe stato ben felice di passare due o tre settimane lì, viaggiare da una parte all'altra dell'America, che amava tanto; ci era già andato alcune volte, e ci aveva lasciato il cuore. Era una specie di tortura, quindi, avere la possibilità di andarci (gratis, per lo più) e non poter vedere nemmeno New York da lontano. Ma, con il cuore spezzato, si costrinse a concentrarsi sulla sua missione.
Il laboratorio genetico di cui tanto si era parlato, una minacciosa struttura grigiastra e piatta così lunga da sembrare un serpente, si ergeva lapidaria davanti ai suoi occhi scettici. Attorno ad essa nulla, nè una città nè qualsiasi altro edificio, una desolante e deprimente distesa attraversata da un'autostrada deserta. Il silenzio era disarmante, e per un ragazzo vissuto tra l'allegro traffico di Kyoto quasi assordante. Dopo una camminata che gli parve interminabile, sotto il cielo di piombo denso, si ritrovò di fronte all'entrata. Vide di fianco alla porta d'acciaio un pannello con un piccolo pulsante, così lo premette a lungo. Attese, ma non sapeva nemmeno lui bene cosa.
-Prego.- Una voce metallica e gelida sibilò quella parola, dal piccolo microfono che notò giusto sotto il bottone. Incerto, non seppe bene cosa rispondere.
-Vengo in nome di L.- rispose Craig nervosamente. -Io ho un... uh... foglio.-
Frugò nello zaino che portava sulla spalla e ne estrasse una cartella. Esibì il foglio che conteneva, un documento protetto dalla plastica. Lo sventolò davanti alla piccola telecamera, sperando bastasse.
Dopo una pausa sconfortante, un campanello squillò e la porta si socchiuse.

Ci vollero tre quarti d'ora buoni a Craig per convincere tutta l'equipe degli scienziati e delle segretarie diffidenti che il documento era valido e non c'era nessuna irregolarità. Dopo aver controllato un migliaio di volte il foglio in cui L lo dichiarava suo assistente e la sua carta d'identità, si decisero a mostrargli la bambina.
Craig guardò nervoso l'orologio da polso: quattro e quarantaquattro. Doveva far presto. Sperava che, superata la noiosa burocrazia, le cose si sarebbero svolte con più rapidità, altrimenti L l'avrebbe disumanato.
Seguiva con passo placido e stanco la dottoressa in camice che l'avrebbe dovuto condurre dalla figlia di Near, ma i labirintici corridoi sembravano intrecciarsi l'uno con l'altro senza condurre da nessuna parte. I minuti scorrevano inevitabili, vischiosi, interminabili. Le pareti asettiche e le scrivanie ordinate che si presentavano ai suoi occhi erano una successione poco interessante.
Stava pensando vagamente che aveva fame, che non aveva mangiato niente in aeroporto e che il cibo sull'aereo è disgustoso, quando d'un tratto la donna che gli faceva da guida si fermò.
Gli parve così strano, dopo tutto quel tempo, che quasi le finì addosso. Sbattè le palpebre e fissò la porta sulla cui maniglia lei posò la mano.
-Da questa parte.- affermò seccamente, estraendo dalla tasca del camice un mazzo di chiavi e rigirando un paio di volte una di quelle nella serratura. Aprì la porta con un cenno annoiato della mano e lo invitò ad entrare.
Craig avanzò titubante nella stanza, e gli bastarono pochi secondi per dubitare che una bambina vi stesse all'interno. Prima di tutto, la sola luce che la illuminava era quella filtrata dal corridoio, quindi prima che lui entrasse a rigor di logica avrebbe dovuto essere invasa da un buio pesto. Poi era piccola, angusta, le pareti erano un po' annerite dal tempo e non c'era nemmeno un mobile.
Come era possibile che una bambina rimanesse da sola, al buio, in una stanza dall'arredamento così minimale?!
Si guardò intorno, improvvisamente con il cuore in gola, quasi in ansia. Si sentì in colpa, per avere pensato così poco al motivo del suo viaggio, di averla considerata come un pacco. Mille e mille domande mute attraversarono la sua mente, mentre i suoi occhi perlustravano la stanza e realizzavano che era vuota.
Poi la porta cigolò sui cardini e si accostò allo stipite, attutendo la luce. Sussultò letteralmente di paura nello scorgere, fra le tenebre addensate nell'angolo, il profilo di una figuretta minuta.
Pensò subito che era piccola, molto piccola. Non aveva mai visto nessuno così... piccolo. Anche se era seduta, poteva calcolare che in piedi sarebbe arrivata all'incirca al suo gomito. Il suo corpo era magro e sottile, come un'ombra filiforme, e le sue braccia ossute -che parevano fin troppo deboli- cingevano strette le ginocchia. Il pallore del suo volto era qualcosa di spaventoso, era... cerea. Cadaverica. I suoi lineamenti nascosti nelle tenebre erano familiari, i suoi occhi ancora di più: pozzi, voragini. Pupille grandi come macchie d'inchiostro spante nelle iridi. I capelli, un caschetto ordinato e regolare che le carezzava delicatamente il mento, erano corvini come onice bagnato.
Lo fissava con quei suoi occhi enormi, rannicchiata dietro la porta, le piccole spalle contro il muro.









































Note dell'Autrice: Dopo una viiiiita, ecco questo nuovo capitolo. ^-^
E adesso che cosa succederà? L incontrerà davvero Rowena? E la figlia di Near cosa combinerà al quartier generale?
Vi prego, miei lettori, il vostro sostegno è vitale per me! Vi adoro,
Lucy
  
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