Ohil-
*schiva pomodori* lo so, scusateeeee! Sono in ritardo ritardassimo, non
posso nemmeno
dire che non è colpa mia, ma sapete, il freddo, la pigrizia,
il blocco dello
scrittore… insomma, non è del tutto colpa mia. Mi
perdonate, vero? Insomma, mi
posso ingraziare qualcuno con questo capitolo lungo quanto il
precedente? Spero
davvero di sì, sennò prego comunque per la vostra
magnanimità xD Anzi, no, non ho esattamente solo cazzeggiato, sarò franca xD Per la serie "spargiamo il verbo del ByaSana", ho aggiunto un'altra oneshot al ciclo di "When the Snow falls". Il richiamo ByaSanico per me è sempre irresistibile, se ne ho l'occasione <3
Sono
un po’ di corsa, stasera, anche se stranamente riesco ad
aggiornare ad un
orario VERAMENTE UMANO. LOL. Ma ci tenevo a lasciarvi
l’aggiornamento prima
della partenza per le ferie di Natale. Vado al caldo, migro come le
rondini. Tanto
torno per Capodanno, eh, ma qualcosina ve la volevo lo stesso lasciare.
Non perdo
ovviamente occasione per ringraziare tutti coloro che seguono questa
storia,
chi addirittura non manca di recensire ogni volta nonostante gli
apocalittici
ritardi, vi adoro! Siete voi il mio carburante per continuare questa
long che,
spero, possa continuare a piacervi. Un ultimo avviso, poi smetto di rompervi: forse le gemelline sembreranno un po' OOC (e forse lo sono, chiedo venia), ma mi son voluta prendere una piccola "licenza" per quest'occasione - anche perché in seguito avranno poco da scherzare, ma non voglio anticiparvi nulla. Non vi tedio oltre e vi lascio alla
lettura, belle bimbe. Alla prossima!
Capitolo 11 – Preludio
«Darkie,
ma si può sapere cosa ti prende? Hai
un’aura omicida attorno!».
Rukia
osservava la sorella da diversi minuti
mordicchiando il tappo della penna nera, lo sguardo fisso sulla ragazza
seduta
di fronte a lei e una mano che cercava alla cieca i biscotti sistemati
su un
piatto poco distante. Ne aveva appena morso uno quando Darukia
sollevò appena
la testa per riuscire a vederla in viso, rivolgendole involontariamente
un’occhiata
torva che la stupì non poco.
«No,
non dirmelo. Scommetto che è colpa…».
«Di
Deak, sì.» ringhiò l’altra
completando la
frase di Rukia, stringendo il portamine nero tanto da far scricchiolare
il
gancetto argento.
La
sorella sospirò, richiudendo la penna e
portandosi il viso tra le mani, coi gomiti poggiati sopra il quaderno
degli
appunti. Era da quando si era seduta a tavola in salotto, il loro posto
prediletto per sistemare gli appunti come quando andavano al liceo, che
Darukia
aveva continuato a fissare con aria malevola il libro di etologia,
scarabocchiando
di quando in quando poche parole e sottolineando frasi apparentemente a
caso. Hichigo
l’aveva accompagnata a casa – e l’albino
aveva rivolto una semplice scrollata
di spalle allo sguardo perplesso di Rukia, che osservava la sorella
dirigersi a
passo di marcia verso la propria camera, dopo averle rivolto un saluto
distratto. “Il solito pirla con la
lingua
da aspide.”, aveva detto lui. E c’era una
sola persona capace di far
arrabbiare in quella maniera la ragazza. Anzi, arrabbiata non era
nemmeno la
definizione corretta – pareva, piuttosto, testardamente
determinata.
Probabilmente, mentre sottolineava frasi su frasi, si rivedeva durante
la
discussione che l’aveva fatta alterare così.
«Che
ha combinato stavolta?».
Era
meglio andarci cauti in certe situazioni:
Darkie non era il tipo che esplodeva in scatti di rabbia, ma del resto
era da
quando aveva conosciuto Deak che i suoi malumori erano diventati
più frequenti.
Nemmeno quando aveva conosciuto Hichigo si era comportata allo stesso
modo.
«È
una testa di fava. Uno stupido testardo e
maleducato. Che nervi mi fa venire, quel… quel
cretino!» esclamò la ragazza,
sbattendo una mano sul tavolo e rovesciando briciole sul ripiano
«“Non me ne frega niente
di quel che dici”,
ma scherziamo? Nemmeno Hichi mi ha mai risposto
così!».
«Perché
Hichigo è tuo amico e tiene a te,
si sa. Anche se all’inizio ti prendeva sempre in
giro.».
«Appunto.
Cioè, ma con tutta la buona volontà,
ti pare una risposta sensata e da persona intelligente? Secondo me lui
e Lavi
non sono nemmeno fratelli, sono tipo vipera e agnellino!».
Rukia
scrollò leggermente le spalle, sospirando.
Le aveva raccontato per sommi capi la loro discussione, ma non aveva
accennato
a ciò che Lavi le aveva riferito riguardo al gemello.
«Secondo
Lavi, Deak ha bisogno di… più tempo,
per fidarsi di qualcuno. O anche solo convincersi a provare.»
mormorò esitante,
giocherellando con la penna.
La
gemella sbuffò, lasciando cadere il portamine
tra le pagine del libro. L’aveva capito anche lei che a Deak
serviva tempo, non
era un parere influenzato di Lavi, impietosito perché si
trattava del fratello.
Quel che non capiva era la sua necessità di essere
così scontroso e maleducato
anche con chi tentava pacificamente di avvicinarlo. Rukia le aveva
riferivo
anche il poco che il ragazzo le aveva detto riguardo al loro
“farsi accettare”
dagli altri. Certo, non doveva esser stato un bel vivere, costantemente
messi
in disparte per via del colore dei capelli o della benda
sull’occhio. E per
certi versi poteva pure capire il suo essere così restio ad
avvicinarsi a
qualcuno, ma lui si stava veramente chiudendo a riccio contro chiunque.
«Darkie,
secondo me non è cattivo come vuole
far credere. Magari la sua è solo…».
«Paura.»
sbottò lei, poggiando il mento su un
palmo «Deak ha paura. Vuol tenere tutti a distanza
perché ha paura di essere
ancora allontanato o tradito, quindi ovvia il problema evitando per
primo di
avvicinarsi a qualcuno.».
«Ecco
perché Lavi ha detto che si rifiuta di
provare a fidarsi degli altri… ma secondo te abbiamo una
faccia così da mascalzone?»
mentre parlava cercò un altro biscotto, mangiucchiandolo
distrattamente.
«Non
penso sia quello il fatto, Rukia… senti,
io vado a parlargli. A costo di piantare le tende sotto il portico di
casa
sua.» annunciò, richiudendo il libro e gettando il
portamine nell’astuccio.
«Darkie,
aspetta!» Rukia cercò di trattenere
la gemella, prendendola per un polso «Forzarlo non servirebbe
a niente, lo
faresti arrabbiare ancora di più.».
«Non
voglio forzarlo, infatti.» replicò
l’altra, facendo spallucce «Né voglio
che mi dica perché si fa tante paranoie ritenendoci
tutti dei mostri. Insomma, capirà anche lui che non voglio
essergli amica per
un tornaconto personale, no? È acido come il latte
scaduto!».
«Appunto.
Perché ti ostini tanto con lui? Non
dirmi che senti gli istinti da crocerossina che vede il poverino in
difficoltà
e lo vuole aiutare!».
«Lo
curerei a suon di ceffoni, altroché.» si
prese qualche attimo, prima di riprendere a parlare «Non lo
so perché, Rukia.
Non è di certo pena o filantropia,
però…».
«Sei
curiosa?».
«…
Non posso negarlo. Ma non è quello il
punto, davvero.».
«Non
è che sta cominciando a piacerti, piuttosto?».
«Quando
un pugno allo stomaco. Certo che no,
scema!» arrossì a quelle parole, accigliandosi.
Ovvio che non era per quello,
che razza di idee assurde gironzolavano nella testa di sua sorella?
«Anche
perché sarei piuttosto masochista, non ti pare? Tu,
piuttosto, potrei dirti lo
stesso di Lavi. Fate pure le chiacchierate in casa
all’insaputa di tutti… pensa
se viene a saperlo nii-san.».
«N-non
è vero! E poi è stato lui a venire qui,
non l’ho di certo chiamato io! Abbiamo solo parlato!».
Darukia
sghignazzò di fronte al rossore che
imporporava le guance della sorella, raccogliendo la propria roba per
riportarla in camera.
«Stavo
scherzando, Rukia. Certo che se ti
infervori così…» le fece una linguaccia
prima di entrare nella stanza, lasciando
tutto sopra la scrivania e cercando la propria giacca. Si
sistemò per bene la
sciarpa e si avviò all’ingresso, seguita dallo
sguardo della sorella.
«Ti
conviene portarti un ombrello, mi sa che
tra un po’ piove.» bofonchiò tra un
pezzo di biscotto e l’altro «Ma non è
meglio se aspetti nii-san?».
«Byakuya
tornerà tardi e quel cafone non può
pensare di farla franca così a buon mercato. Meglio battere
il ferro finché è
caldo, no?».
«Finisce
che ti butta veramente fuori di casa.»
Rukia incrociò le braccia al petto, tutt’altro che
convinta «Darkie, davvero,
io non mi fido a lasciarti andare da sola, d’accordo che
è nuvoloso e non buio
pesto, ma…».
«Sorellina,
tu ti preoccupi troppo.» l’altra
le sorrise, chinandosi per sistemarsi ai piedi gli stivaletti
«E poi avrò anche
l’ombrello, sai che non mi tiro indietro
dall’usarlo come arma se qualcuno
prova a mettermi le mani addosso.».
«Non
dirlo neanche! Aspetta un secondo, eh.»
corse in camera ciabattando rumorosamente lungo il corridoio, tornando
dopo un
paio di minuti con una mini-bomboletta che le mise in mano
«Spray al
peperoncino, non si sa mai.».
Darkie
stava per replicare con una battuta, ma
lo sguardo serio della gemella la convinse a tenere la lingua tra i
denti.
Povera Rukia, era davvero preoccupata. Le assicurò che
avrebbe fatto
attenzione, dandole un rapido abbraccio prima di uscire –
erano veramente tanto
legate, in fondo era inevitabile che si preoccupassero così
l’una dell’altra.
Una volta in cortile, constatò che effettivamente era
più buio di quel che pensava.
Non che fosse troppo tardi, per quello – anche
perché non avrebbe percorso strade
buie o scorciatoie, tenendosi comunque sulle strade principali.
D’accordo voler
risparmiare tempo, ma non era tanto stupida da girare da sola lungo vie
isolate. Strinse forte l’ombrello e lo spallaccio della
tracolla, sistemandosi
le cuffiette alle orecchie – un po’ sconsigliate,
ma era più forte di lei: la inquietava
troppo non avere la musica, quand’era fuori. A conti fatti,
se la sarebbe cavata
in un’oretta e mezza, forse, giusto il tempo di tornare a
casa a mangiare – e,
sottilmente, sperò che Byakuya non la sgridasse per essere
uscita da sola. Non
era come un cane da guardia, certo, ma era pur sempre un fratello
maggiore
abbastanza apprensivo e severo, nel suo piccolo faceva del suo meglio
perché
non finissero nei pasticci. Si ritrovò a canticchiare a
mezza voce, mentre
costeggiava un corso d’acqua protetto dalla recinzione. Anche
vicino alla villa
dove viveva il resto della sua famiglia c’era un
fiumiciattolo del genere,
ricordava benissimo quando lei e Rukia, da piccole, scappavano di
nascosto per
andare a tirare i sassi in acqua – e pure quante volte Sojun
avesse minacciato
di sculacciarle se si fossero allontanate di nuovo senza dire nulla. Se
l’erano
quasi sempre cavata facendo gli occhi lucidi al padre che, per quanto
ci
provasse, non riusciva davvero a prendersela con quelle due piccole
pesti. Alla
fine avevano fatto di Byakuya loro complice, ambasciatore col genitore
e
responsabile affinché si assicurasse che nessuna delle due
finisse accidentalmente
in acqua– e sì, era successo pure quello. Ma
quella volta Rukia aveva pianto
così disperata che Sojun non se l’era sentita di
rimproverarla ulteriormente,
si era spaventata già a sufficienza, contando anche che al
tempo la poverina
non sapeva nemmeno nuotare. Sorrise nell’osservare il pigro
scorrere
dell’acqua, notando quasi per caso le luci dei lampioni
accesi che si
riflettevano sulla superficie in figure indistinte. Essendo piuttosto
distanti
gli uni dagli altri creavano zone d’ombra tra loro, ma
nell’immediato non ci
fece nemmeno caso. Ormai mancava poco alla casa dei gemelli Bookman,
appurò
dandosi una rapida occhiata attorno. Era finita nella zona
residenziale,
immersa nella pace più completa, anche i veicoli passavano
di rado da quelle
parti. Era così rilassata che quasi avrebbe accennato
qualche passo saltellato,
facendo ondeggiare la borsa e l’ombrello – non
fosse che si sentì tirare per un
polso all’improvviso, facendola trasalire.
Era
una presa chiaramente maschile, sentiva il
polso imprigionato in quella stretta troppo forte per lei, e
mentalmente si mandò
mille accidenti per non aver lasciato a casa l’mp3. Mannaggia
a lei e al suo
vizio di tenere le cuffiette! Prima che potesse pensare o fare
qualsiasi cosa
si sentì strattonare indietro, facendola barcollare,
mandandola nel panico più
completo. Rukia aveva ragione, avrebbe dovuto stare attenta, non uscire
da
sola, non quando stava lentamente calando la sera. Sentì
un brivido gelido quando avvertì una
mano sulla schiena, poco più sopra del sedere, sul momento
non capì nemmeno se
la stesse tenendo per la cintura del cappotto o meno. Lo spray,
dov’era lo
spray? Chiuso in borsetta, si
rispose
subito, ma l’unica mano libera era quella che reggeva
l’ombrello – motivo per
cui, voltandosi, lo brandì a mo’ di mazza,
allungando preventivamente un calcio
in mezzo alle gambe del suo aggressore.
«Porco!»
esclamò colpendolo alla schiena più
volte, approfittando del fatto che quello si fosse piegato in due per
il dolore
«Maniaco schifoso! Ti insegno io… a dar
fastidio… alle ragazze sole… brutto
stronzo… che non sei altro!».
Ogni
frammento di frase veniva intervallato da
un nuovo colpo alla schiena o alle gambe, aggiungendoci poi schiaffoni,
calci,
borsate e pure pugni intrecciati sulla testa. E l’altro
ringhiava lamenti tra i
denti, tentando di proteggersi come meglio poteva, riuscendo dopo poco
ad allontanarla
con una leggera spinta e risollevandosi. Darkie deglutì, era
spaventosamente
più alto di lei e pure più robusto –
non che ci volesse molto, considerò
amaramente. Lo vide allungare una mano verso di lei, al che
reagì istintivamente
con un ceffone sul palmo che le bruciò da matti e che fece
masticare una
colorita imprecazione a quel tipo – ma quando
tentò di tirargliene un altro si
sentì afferrare di nuovo, mentre anche l’altra
mano veniva imprigionata nella
stretta di quei palmi troppo grandi.
«Lasciami!
Lasciami o giuro che urlo!» tentò
di tirarsi indietro strattonando le mani ma niente, non sembrava
minimamente
intenzionato a mollarla «Ti ammazzo se solo provi a toccarmi,
bastardo!».
«Macché
toccarti e toccarti, cretina!» brontolò
lui, tirando il filo delle cuffiette per fargliele cadere dalle
orecchie «Si
può sapere che diavolo ti è preso? Tu sei
completamente pazza! Ehi, guardami.
Guardami, accidenti!».
Darkie
sollevò appena lo sguardo, senza
smettere di tremare – non aveva mai desiderato tanto di
essere a casa con Rukia
e Byakuya, al sicuro, al calduccio -, rendendosi conto dopo una
manciata di
secondi che quello che aveva davanti non era affatto un maniaco, ma il
più
acido dei gemelli Bookman – certo, imbacuccato come un
moscovita, ma quei
ciuffi rossi su cui era riflessa la debole luce del lampione erano
inconfondibili. Ne fu quasi sollevata, sperando che le ginocchia non le
cedessero proprio in quel momento, ma gli occhi furono più
infami e non
tardarono a diventare lucidi di lacrime trattenute.
«D…
Deak?!» singhiozzò, sentendosi le guance
avvampare. Diamine, che spavento s’era presa.
«Stupida!»
esclamò il ragazzo, tenendole
ancora i polsi stretti nei pugni «Non te l’ha detto
nessuno di non girare di
sera con quelle diavolo di cuffiette nelle orecchie? Avevo poco da
chiamarti,
se tenevi la musica a palla!».
«Mi…
mi stavi chiamando?».
«Cosa
che non è servita a niente, vista la
scarica di botte che mi hai dato del tutto gratuitamente. Che ci fai
qui? Non
stavi venendo da noi, vero?».
La
ragazza ammutolì e s’imbronciò, punta
sul
vivo, mentre cercava una risposta abbastanza verosimile per
salvaguardare la
propria credibilità. L’acidità di Deak
le aveva fatto completamente dimenticare
lo spavento.
«C-certo
che no! Stavo andando… a far la
spesa!». Totale fallimento, altroché.
«Qui?»
il ragazzo sollevò un sopracciglio con
aria scettica, incrociando le braccia al petto «Un vero
peccato che i negozi
siano da tutt’altra parte. Ho forse la scritta
“fesso” stampata in fronte?».
«Ooh,
e va bene!» sbottò lei, stringendo i
pugni «Sì, stavo venendo da te,
d’accordo? Non pensare di abbindolarmi con
quella linguaccia da vipera che ti ritrovi, in primis perché
son sicura di non
averti fatto nulla di male per meritarmi tutta ‘sta
cafonaggine da parte tua.».
Deak
abbassò lo sguardo sull’indice che lei
aveva preso a premergli contro il petto, come a rimarcare il concetto.
Accidenti,
quant’era testarda. Stava chiaramente per dire
qualcos’altro, quando la vide
scrutarlo aggrottando le sopracciglia.
«Vieni
un secondo qui.».
Lo
trascinò di più sotto la luce del lampione,
prendendogli il mento tra le mani per rigirargli il viso e vederlo
meglio. Ignorò
lo sguardo scettico del ragazzo, abbassandogli la sciarpa dal naso e
notando
quanto la pelle fosse arrossata – non si era davvero
risparmiata con i colpi.
Un rivolo rosso prese a scendergli dalla narice, finendo lentamente sul
bordo
delle labbra. Epitassi, fantastico. Abbassò la testa
porgendogli un fazzoletto,
vergognandosi a morte.
«Scusa,
non volevo.» mormorò, rabbuiandosi.
Non
intendeva fargli così male, accidenti, chissà
lividi che gli aveva lasciato pure sulle gambe. Non era mai stata il
tipo da mettere
le mani addosso a qualcuno, lei, ma il terrore di essere finita tra le
grinfie
di un maniaco aveva mandato in totale black-out il suo proverbiale
autocontrollo.
Deak si toccò la bocca, leccando quelle poche gocce che
erano finite sulle
labbra e sentendo immediatamente il gusto ferroso del sangue, scoccando
una
rapida occhiata alla ragazza davanti a sé.
«Sarai
contenta, immagino.» sbottò, afferrando
il fazzoletto che lei ancora gli porgeva e premendoselo contro il naso,
alzando
la testa verso l’alto «Ammettilo che non aspettavi
altro.».
«Co…
cosa? Ti sembro il tipo che va a menar le
mani a destra e a manca?» Darkie strinse l’ombrello
tra le mani, soffocando a
fatica l’istinto di usarlo per tirargli un altro colpo in
testa «Pensavo fossi
un maniaco, ecco tutto. Sarai stato anche un gran cafone, ma di certo
non
vendicherei riempiendoti di botte – e poi, tanto per essere
puntigliosi, sei
pure tanto più grande di me, sarei io quella che finirebbe
col farsi male!».
«Visto
che per oggi hai già combinato abbastanza
guai, che ne dici di
eclissarti? Giuro
di non denunciarti.» le propose lui con un sorrisetto sbieco.
«Suvvia,
tuo nonno si chiederà dove hai rimediato
così tanti lividi, non voglio sfuggire alle mie
responsabilità. Gli spiegherò
tutta la situazione.» replicò la ragazza,
ricambiandolo con un sorriso affabile
e altrettanto falso.
«Mio
nonno non c’è, è via per
lavoro.».
«Sì
che c’è, quando ho chiamato tuo fratello
ha detto che era in casa pure lui e che non avrebbe avuto problemi se
mi fossi
presentata.» non sapeva nemmeno da dove le fosse uscita quella
bugia, presa dalla
foga del momento. Sperò solo di non aver detto una scemenza
colossale.
«Lavi
dovrebbe cucirsi la bocca col filo spinato.»
borbottò l’altro a denti stretti.
Avvertiva,
oltre al fastidioso calore al naso
che non accennava a smettere di sanguinare, anche un vago bruciore allo
stinco
sinistro. Quella dannata ragazzina non gliene aveva risparmiata mezza,
se non altro
aveva avuto prova di quanta forza e irruenza fossero racchiuse in quel
corpo
così minuto. Anche se per un attimo pensò che
forse, ma proprio forse, avrebbe
preferito lasciare che fosse quell’individuo che la seguiva
da un po’, tenendosi
diversi metri più indietro e ben al riparo dalla luce, a
prenderle di santa
ragione in caso avesse avuto la malaugurata idea di aggredirla. Non era
certo
intervenuto per difenderla da un’eventuale molestia, nossignore. Almeno così volle
convincersi, mentre si avviava verso
casa con quella piccola furia che lo seguiva con un sorrisetto
soddisfatto stampato
in faccia – sembrava totalmente inutile allungare il passo
per cercare di distanziarla.
Certo era che aveva non poche difficoltà a camminare tenendo
alta la testa per
fermare il sangue, in più con la benda e la luce piuttosto
scarsa del viale la
visibilità non era delle migliori. Ma non si sarebbe mai
abbassato a chiederle
di dargli una mano, piuttosto si sarebbe schiantato contro il primo
albero
disponibile – e l’avrebbe fatto a testa alta, letteralmente.
«Deak?».
«Che
vuoi, ancora?».
«Volevo
solo avvisarti che tra due passi rischi
di spalmarti contro un palo.».
Lui
però non fece in tempo a frenarsi, sbattendo
violentemente la punta del piede sinistro contro un paracarri in
cemento e facendosi
scappare uno strozzato “Cazzo!”
che
gli uscì del tutto spontaneo. Si chinò tenendosi
il piede dolorante, masticando
imprecazioni come uno scaricatore di porto. Gli stava salendo
un’enorme voglia
di prenderlo a calci, quel dannato palo in cemento, ma chi era stato
l’idiota
che l’aveva messo in mezzo alla strada? Ripensandoci ancora,
era solo ed
esclusivamente colpa di quella ragazzina che gli stava accanto se era
stato
costretto a camminare col naso per aria. Accidenti, accidenti a lei,
gli portava
solo un mucchio di sfighe!
«Potevi
anche avvisarmi prima!».
«Ehi,
c’eri tu davanti, come potevo vederlo?»
fu la pronta replica, mentre gettava in un cestino il fazzoletto che
gli era
caduto e si chinava per premergliene un altro sul naso, assumendo
l’espressione
più ingenua che le riuscì «Insomma,
andavi via così spedito che sembrava
volessi evitarmi a tutti i costi.».
«Ma
che brava, ci sei arrivata? Sei più sveglia
di quel che pensavo.» sbottò lui, lanciandole
un’occhiataccia.
«Era
ironico, fenomeno. E visto che la pensi
così, ti sta pure bene. Dai, ti aiuto.».
Stavolta
Deak fu costretto a mordersi la
lingua. Aveva avuto prova da pochi minuti di quanta forza riuscisse a
tirar
fuori quando voleva, quei colpi alla schiena gli avevano tolto il fiato
– e lo
stinco non smetteva di bruciare, senza contare che ora si era aggiunto
anche il
piede a fargli un male allucinante. Si obbligò a non
protestare quando la sentì
passarsi un suo braccio sulle spalle e portargliene uno in vita
– non riteneva
necessario aiutarlo così tanto,
non
s’era di certo rotto una gamba, ma per non guadagnarsi altri
lividi inghiottì a
fatica l’orgoglio e la lasciò fare. La differenza
d’altezza tra loro era
piuttosto notevole, tanto che Deak pensò bene di non
caricare il peso su di
lei, onde evitare di finire a terra entrambi. Mentalmente
sperò che non ne
facesse parola con l’albino, ci mancava solo che quello
schizzato venisse a
sapere quante ne aveva prese da quella ragazzina, l’avrebbe
sfottuto fino alla
morte – non che lo scontro con il paracarri fosse stato tanto
meglio, doveva
ammetterlo. Lei però non aveva riso, anzi, anche durante il
tragitto lo aiutò
in silenzio, avvisandolo quando si trovava in prossimità di
gradini o buche.
Poco prima di giungere sulla via di casa sua il ragazzo si
scostò, borbottando
che l’epitassi si era fermata e che avrebbe proseguito per i
fatti suoi, ora
che poteva vedere. Darkie accettò con una scrollata di
spalle, ben
immaginandosi che lui avrebbe preferito mordersi la lingua a sangue
piuttosto
che farsi vedere soccorso agli occhi di suo fratello – e
proprio da lei, poi.
Una volta arrivati al cancello Deak le lanciò
un’occhiata, quasi sperando che
lo salutasse e se ne andasse, visto che lo sapeva al sicuro, ma lei gli
rispose
con un sorrisetto così adorabile che gli fece saltare ancora
di più i nervi.
Piccola bastardella, chissà quanto si stava divertendo.
Sospirò rassegnato avviandosi
sotto il portico e aprendo la porta, scostandosi un poco per
permetterle di
entrare e richiudersi l’uscio alle spalle.
«Sono
tornato.» disse, chinandosi per togliersi
le scarpe.
Da
una delle porte – a Darkie pareva di ricordare
che lì si trovasse il salotto – fece capolino un
anziano piuttosto basso – addirittura
più basso di lei, constatò la ragazza, vestito in
una lunga tunica nera in
stile cinese, con dei morbidi pantaloni stretti alle caviglie. Sugli
occhi
portava un pesantissimo quanto eccentrico trucco nero, e i pochi
capelli
rimasti, bianchi, erano raccolti in una coda sulla sommità
del capo. Portava
degli orecchini pendenti lavorati con un particolare intreccio, cosa
che rendeva
l’insieme particolarmente stravagante. L’uomo la
scrutò incuriosito per diversi
secondi, prima che Darkie gli rivolgesse un sorriso e un educato
inchino.
«Scusi
l’improvvisata a quest’ora, signor
Bookman. Sono Darukia Kuchiki, una compagna di università di
suo nipote Deak.»
si presentò, rialzando lo sguardo e notando che il vecchio
l’osservava ancora
con le mani nascoste all’interno delle lunghe maniche della
veste, davanti al
petto.
«Sei
la benvenuta in questa casa, Darukia
Kuchiki.» disse, ricambiandole l’inchino
«Lavi mi ha parlato molto di te e di
tua sorella.».
Lavi,
ovviamente. Sia mai che Deak pensasse di
raccontare a suo nonno qualcosa della sua quotidianità alla
facoltà. Nel mentre
il ragazzo l’aveva superata, zoppicando ancora piuttosto
vistosamente, diretto
verso le scale in legno scuro che conducevano al piano di sopra.
«Deak,
cosa t’è successo?».
«Niente,
nonno. Non ho visto un gradino e sono
inciampato.» fu la spiccia risposta che il vecchio ricevette,
mentre Deak
spariva oltre l’angolo delle scale.
Darkie
incrociò le braccia al petto, osservando
il punto in cui il ragazzo aveva svoltato. Perché non aveva
detto la verità? Doveva
temere ritorsioni da parte di suo nonno? Gli rivolse uno sguardo,
trovandolo a
grattarsi la testa e a sospirare, borbottando qualcosa che somigliava
vagamente
ad un “Quel benedetto
ragazzo mi farà impazzire.”. Non aveva
idea di che
rapporto si fosse instaurato tra l’anziano storico e Deak,
all’apparenza il
primo sembrava abbastanza severo, ma magari si sarebbe ritrovata ad
avere a che
fare con la persona più gentile del mondo. Tanto valeva
vuotare il sacco,
perché non dirgli come stavano effettivamente le cose?
«Signor
Bookman, in realtà…» mormorò
tormentandosi leggermente le mani, non prima di aver poggiato
l’ombrello in un
angolo, dove non avrebbe dato fastidio a nessuno «In
realtà Deak non è
inciampato. Cioè, la botta al piede se
l’è presa da solo, ma per il resto…
insomma,
sono stata io…».
«Ti
ha fatto qualcosa di male? Ti ha messo le
mani addosso?» l’interruppe lui assottigliando lo
sguardo, quasi pronto a
correre su per le scale per andare a tirare qualche scapaccione al
nipote.
«N-no,
no!» esclamò concitata, agitando le
mani «Cioè, è stato tutto un malinteso,
non l’avevo sentito mentre mi chiamava
e quando mi son sentita prendere per il polso, ecco… ho
avuto paura che fosse
un maniaco e non c’ho più visto. Lui non ha colpa,
davvero.».
L’uomo
l’osservò scettico, quasi incredulo che
una pulce come lei avesse potuto conciare in quella maniera il nipote,
decisamente
più alto e robusto. Quando l’aveva visto aveva un
leggero alone scuro
all’altezza dello zigomo, poco sotto l’occhio
sinistro, e la pelle tra il naso
e le labbra era sporca di rosso, probabilmente per via di
un’epitassi.
Studiando meglio l’ombrello che la ragazza aveva posato
vicino alla porta notò
che un paio di stecche erano piegate – e, senza sapere
d’aver pensato giusto,
si chiese se per caso non l’avesse picchiato anche con
quello. Doveva essersi
veramente presa uno spavento assurdo, chissà come aveva
reagito quando si era
resa conto di chi aveva effettivamente di fronte. Magari aveva pianto
– ma guardandola
in viso si accorse che gli occhi non erano arrossati. Forse,
semplicemente, non
aveva pianto poi così tanto, ma era certo che in fondo
si fosse sentita sollevata
del fatto che il presunto maniaco non era altri che un suo amico
particolarmente
sfortunato, in quel momento.
Darukia,
dal canto suo, si sentiva estremamente
in imbarazzo. Quel vecchio la studiava come uno scienziato osserva una
cavietta
da laboratorio, attento, seppur cordiale. Almeno non l’aveva
messa alla porta
dopo aver scoperto che aveva barbaramente picchiato suo nipote. Si
tormentò
nervosamente le mani, leccandosi le labbra e alternando lo sguardo
dalle scale
all’uomo che aveva di fronte, vergognandosi a stare
lì impalata.
«Ehm…
davvero, mi dispiace, signor Bookman.»
disse inchinandosi di nuovo, almeno sfuggiva a quelle iridi fredde
«Non era mia
intenzione far così male a suo nipote, non… non
so davvero come scusarmi.».
«Non
è a me che devi chiedere scusa.»
replicò
l’anziano storico «Ma se ti senti in colpa anche
dopo aver chiesto il suo perdono,
potresti provare a dargli una mano a medicarsi se ne ha bisogno. Deak
è sempre
stato una frana a disinfettarsi le ferite, ha una certa…
ritrosia ad utilizzare
certi prodotti.».
«Posso
davvero…?» la ragazza rialzò la testa,
perplessa.
«Prego.
Il bagno è l’ultima stanza sulla destra.
La camera di Deak si trova giusto accanto al parapetto delle scale a
sinistra.».
«Allora…
con permesso…».
Si
chinò per togliersi le scarpe, accettando
con un sorriso le pantofole che il vecchio le aveva messo davanti, e si
avviò
su per le scale, ritrovandosi in un corridoio illuminato dalle luci
tenui delle
plafoniere attaccate alle pareti. Si guardò attorno, notando
immediatamente la
quasi totale assenza di mobili in quell’ambiente, fatta
eccezione per una cassettiera
in legno scuro con sopra un centrino e una lampada.
Anche lì, nessuna foto. In quella casa
sembrava davvero che i ritratti di persone fossero stati aboliti,
rimpiazzati
da quadri di paesaggi. La luce del lampione che avevano accanto al
cancello
penetrava fin lì, proiettando ombre sul tappeto che copriva
il parquet. Decidendo
di tralasciare l’arredamento, la ragazza fece per avviarsi
verso il bagno – se
doveva disinfettarsi, di certo era andato lì. Invece, il
rumore di qualcosa che
cadeva e una secca imprecazione la costrinsero a voltarsi verso la
stanza di
Deak. Si avvicinò titubante, bussando un paio di volte alla
porta.
«Che
c’è?» lo sentì chiedere,
percependo perfettamente
la nota scocciata nella sua voce.
«Ehm…
hai bisogno di una mano?».
«No.»
seccato e deciso come sempre, del resto.
Darkie
sospirò, abbassando la testa. Era
davvero impossibile tentare di riallacciare un qualsiasi rapporto con
lui, se
per primo le impediva anche solo di dargli una mano per botte che lei
stessa
gli aveva dato. Le dispiaceva, accidenti, perché non la
lasciava parlare e
pareva non dar peso alle scuse che diceva? Certo, di per suo pensava
non aver
altro per cui chiedergli perdono, anzi, se ne aspettava da lui visto il
modo in
cui la trattava. Tsk, sembrava davvero una fidanzatina abbandonata con
il cuore
a pezzi – ma non aveva nessuna intenzione di abbassarsi a
piagnucolare per
poter entrare, no davvero.
«Senti,
posso entrare…?».
«Mi
sto cambiando.».
«Oh.
Allora… allora aspetto.».
«Sì,
certo… sai che non puoi piantare le radici
in corridoio, vero?».
«Beh…»
si ritrovò a sospirare, sollevandosi la
manica del cappotto per poter vedere l’orologio
«Diciamo che se entro un minuto
non sei cambiato, ecco, qualche uccellino dispettoso potrebbe mettere
al
corrente qualcuno di nostra conoscenza della tua involontaria
esperienza come
sacco da boxe.».
Lo
sentì imprecare di nuovo, avvicinandosi a
passo pesante alla porta e spalancandola – e guarda caso, era
già sistemato di
tutto punto. I pantaloni che indossava prima giacevano a terra,
sostituiti da
un paio più largo e comodo, da ginnastica. Le rivolse
un’occhiata truce, quasi
minacciandola con il solo sguardo di non azzardarsi a dire mezza parola
su quel
che era successo. Certo, in altri casi avrebbe lasciato correre, ma
quell’avvertimento
l’aveva colto del tutto impreparato, tanto che si stava
già pentendo di averle
aperto la porta. Visto che ormai il danno era fatto, tanto valeva
sentire
cos’aveva da dirgli, salutarla e tanti baci, ognuno per la
sua strada. Schioccò
la lingua riavviandosi verso il letto, permettendole solo in quel
momento di
vedere che la gamba sinistra dei pantaloni era tirata su, lasciando la
pelle
scoperta fino a metà coscia. Lei accennò un paio
di passi esitanti all’interno
della stanza, subito colpita dalla mostruosa quantità di
libri stipati su ogni
ripiano disponibile. Una parete accanto alla porta era occupata
interamente da
una grande libreria in legno scuro, mentre la parete più
lunga era percorsa
dagli armadi e, nascosto sotto, c’era il letto a ponte. La
metà delle ante superiori
erano state tolte per far spazio a mensole e libri, mentre sulla parete
opposta
rispetto all’ingresso vi era una grande finestra e la
scrivania – incredibilmente
in ordine, con libri e quaderni riposti in pile ordinate e le penne
riunite in
un barattolo nero. Sull’altro muro rimasto ancora mensole,
mensole e mensole,
tutte stracolme di volumi di ogni autore possibile ed immaginabile. La
totale
mancanza di foto veniva compensata dalla quasi soffocante moltitudine
di tomi,
se non altro. E si avvertiva anche nell’odore di carta che
permeava nell’aria.
Deak,
nel frattempo, si era seduto nuovamente
sul letto e stava trafficando con il barattolo di disinfettante e del
cotone.
Sebbene bruciasse sfregava quasi seccato sulla ferita, concentrato, pur
di non
darle motivo di iniziare una discussione. Fu costretto a rialzare lo
sguardo
quando la ragazza, ponendosi davanti a lui, coprì la luce
del lampadario – e
solo allora si accorse che si era tolta il cappotto e l’aveva
posato sullo
schienale della sedia della sua scrivania. Lo guardava seria,
osservando
dispiaciuta quello che doveva essere il risultato di uno dei tanti
calci che
aveva tirato.
«Sei
un vero disastro.» mormorò, chinandosi in
avanti e prendendo un po’ di cotone, inumidendolo per bene
con il
disinfettante. Si sistemò in ginocchio sui talloni,
tenendogli ferma la gamba
con una mano «Aveva proprio ragione tuo nonno, a dire che con
‘ste cose non ci
sai fare.».
«Non
ho bisogno del tuo aiuto!» sbottò lui,
facendo per tirare indietro la gamba «Sono capacissimo di
arrangiarmi, non
serve che tu mi faccia da baby-sitter.».
«Non
faccio la baby-sitter, stupido.» ribatté
la ragazza, rafforzando la presa sul suo tallone e premendo di
più il cotone
sulla ferita, guardandolo male «Vorrei solo che ti entrasse
in quella testaccia
più dura del granito che io con te ci voglio parlare, okay?
Anche se mi trovi una
rompipalle per chissà quale oscuro motivo.».
«Non
ti trovo una rompipalle. Ma dato che non
abbiamo niente di cui parlare, non vedo perché insistere
tanto.».
«Sei
tu che non mi dai la possibilità di trovare
argomenti!».
«Va
bene, allora forza, trovane uno.».
La
ragazza si accigliò, riportando lo sguardo
sulla ferita che stava tamponando. Poco più su
c’era un piccolo alone nero, ma
non si azzardò a premerci sopra un dito. Presa
così in contropiede non sapeva
davvero cosa andare a dirgli, il che significava anche dargliela vinta
– ma da
quando era tipo che si arrendeva così facilmente? Fece per
dire qualcosa, ma si
ritrovò a sentire lo sbuffo soddisfatto del ragazzo seduto
sul letto.
«Come
pensavo, non hai nessuna idea.».
«Perché
non ci sono foto, in questa casa?»
chiese allora, senza alzare lo sguardo.
«Sì
che ce ne sono. Anche appese alle pareti.»
Deak piegò appena la testa, osservandola mentre ripuliva per
bene la ferita – ma no, Deak, non
farti strani pensieri,
si disse. Si sentiva stupidamente in colpa e voleva rimediare, ecco
tutto. Uno
stupido senso del dovere, per sentirsi a posto con se stessa.
«Solo
paesaggi. Non ci sono persone.».
«Ce
ne sono anche altre. Mica le teniamo tutte
fuori. E comunque a me e Lavi non piace farci fare
fotografie.».
Seguirono
diversi minuti di silenzio, durante
i quali Darkie finì di medicargli la ferita allo stinco. Fu
quando tolse anche
il calzino nero che si rese conto di aver combinato più
pasticci del previsto.
L’unghia dell’alluce era rotta a metà e
il dito era tutto bordato di sangue. Un
veloce esame le fece capire che lì poteva fare ben poco, se
non ripulire il
tutto cercando di fargli meno male possibile. Stupidamente si
ritrovò a
constatare che aveva anche piedi incredibilmente curati, per essere un
uomo. Anche
la sua stanza non aveva una virgola fuori posto, quella che sembrava
una giacca
della tuta era ripiegata per bene ai piedi del letto, non
c’erano vestiti in
giro – a parte i pantaloni che prima indossava -, niente
consolle con cavi che
spuntavano da ogni dove, libri e quaderni sistemati con una cura quasi
maniacale. Insomma, quella stanza era l’esatto opposto di
quella di Hichigo,
molto più colorata ma anche infinitamente più
disordinata. Inumidì per l’ultima
volta il cotone, dando gli ultimi tamponamenti per togliere eventuali
rimasugli
sfuggiti.
«Ti
conviene togliere l’unghia dopo esserti fatto
una doccia o lasciato i piedi a mollo. Così la pelle
sarà più morbida e darà
meno fastidio.» disse, lasciandogli andare il tallone.
Il
ragazzo sollevò il piede dopo una manciata
di secondi, spostando lo sguardo dalle propria ginocchia al suo viso,
sempre mantenendo
un’espressione corrucciata.
«Ora
sei contenta?».
«Prego?».
Se
non altro, doveva riconoscere che quella
ragazza aveva un ottimo talento nella simulazione: pareva sinceramente
perplessa, come se la sua domanda l’avesse colta del tutto
impreparata.
«Ti
senti meglio con te stessa, ora che hai
medicato le ferite che proprio tu hai causato?».
«Io
non… mica l’ho fatto per compiacermi!»
sbottò irritata, accigliandosi a sua volta
«Figurati se devo proprio mettermi a
fare la crocerossina per autocompiacimento! Non ho certo un ego del
genere.».
«Ora
verrai a dirmi che ti dispiaceva davvero
e che l’hai fatto senza secondi fini.».
«No,
il secondo fine c’era, e bene o male lo
sto raggiungendo.».
Stavolta
fu lui a non afferrare per bene il
concetto. Possibile che avesse un fine ultimo di cui lui non si era
nemmeno accorto?
«E
sarebbe?».
«Sto
parlando con te.».
Deak
inarcò le sopracciglia, seriamente
stupito. Era quello il suo fine? Poter parlare con lui? Ma cosa ne
guadagnava,
se lui per primo le rispondeva sprezzante com’era abituato a
fare? Testarda e
pure stramba, ecco cos’era quella ragazza. Evidentemente
l’influenza di Hichigo
era stata più forte del previsto. O forse era più
propensa a rapportarsi con
tipi “problematici”,
come lui stesso
riconosceva di essere – ma non per questo si biasimava, anzi.
Sapeva di non
essere un angelo sceso in Terra in quanto a rapporti con la gente,
aveva perso
il conto dei compagni di scuola delle altre città che aveva
tenuto a debita distanza
con il proprio atteggiamento. Per non parlare delle ragazze, ce
n’erano state
tre o quattro di un paio di anni più grandi che ci avevano
provato con lui ai
tempi del liceo – inutile dire che si erano viste rifiutate
in malo modo, pensando
poi di ferirlo nell’orgoglio accennando qualcosa circa al
fatto che “con quella benda facevi
pena, di sicuro non
avrai mai rimediato nulla”. Non sapevano, loro,
quanta rabbia si portasse
dentro quel ragazzo – ma non per quelle parole, Deak passava
la moneta per quel
che valeva, in quel caso meno di zero, erano solo spinte dal loro amor
proprio
ferito dal suo netto rifiuto. Non odiava nemmeno le donne,
c’era da dirlo –
odiava che lo vedessero come un menomato per via di quella benda. Che
aveva in
meno degli altri? Nulla. Doveva solo sforzare un po’ di
più l’occhio sinistro
per vederci, ma nulla di più. Il suo ostinato orgoglio gli
impediva di vedere
in quella benda un handicap: certo, avrebbe preferito cento volte non
essere
costretto a portarla, d’altronde sapeva da sé di
non avere alternative. Ma non
poteva sopportare che la gente lo considerasse alla stregua di un
ritardato
solo per un pezzo di stoffa, come se da quello fosse conseguito un
deficit mentale.
La sua rabbia lo spingeva a dimostrare a tutti che non era affatto
stupido, e anzi,
ben presto sia lui che Lavi avevano rivelato due menti a dir poco
geniali. La
loro capacità di memorizzazione era quasi spaventosa, le
loro interrogazioni
parevano conferenze di luminari, non avevano difficoltà a
risolvere anche i
problemi più complessi. Di per contro, la cosa aveva tirato
addosso ad entrambi
le antipatie dei più invidiosi – e Lavi era stato
quello che più ne aveva
sofferto. Vedeva nel gemello il bisogno di sentirsi accettato, al di
là della
benda che portava all’occhio, al di là di quella
mente fin troppo sveglia. Ma
la disillusione sui rapporti umani sembrava accompagnarli entrambi per
mano:
non erano mai riusciti a legare con i compagni di classe, che si
limitavano ai
saluti di circostanza e quattro chiacchiere buttate lì.
Osservando
la ragazza che in quel momento
stava sistemando il cotone e la bottiglietta di disinfettante nella
scatola del
pronto soccorso, si rese conto che in effetti, per il fratello, quel
posto era
il Paradiso – o qualcosa del genere: spesso si fermava fuori
con i suoi
compagni di corso, pranzavano insieme o si ritrovavano a casa
dell’uno o
dell’altro per un pomeriggio di studio o una spensierata
chiacchierata.
Darukia, nel suo piccolo, aveva tentato di coinvolgerlo a sua volta, di
farlo
divertire, di fargli conoscere altra gente che sembrava di
tutt’altra pasta
rispetto a quella che era stato costretto a frequentare negli anni
precedenti.
Chissà se era sempre stata così propositiva nei
confronti degli altri.
«Vi
conoscete da tanto?» chiese d’un tratto,
alzando lo sguardo a cercare quello di Darukia, vagamente perplesso
«Tu e
Hichigo, intendo.».
«Oh.
Beh, ormai sono quasi due anni…» lei si
grattò la nuca, guardando per un attimo il soffitto
«L’ho conosciuto il giorno
dell’esame d’ammissione. Ed era insopportabile
almeno quanto tu lo sei
tutt’ora.».
«Grazie,
eh.».
«Dovere.»
lei scrollò le spalle, accennando un
sorrisetto «Se sono riuscita a rendere lui una compagnia
piacevole, non vedo perché
non potrei riuscirci anche con te.».
«Non
mi farai il lavaggio del cervello, t’avviso.».
«Non
voglio farti il lavaggio del cervello,
stupido. Solo… provare a capire da che parte prenderti. E
farmi considerare
come un soggetto “non dannoso” ad un livello
sufficiente per parlarti senza
ricevere veleno in faccia. Un po’ come ora,
insomma.».
«T’intestardisci
così con tutti?».
La
ragazza ammutolì per diversi istanti, come
se ci stesse pensando a propria volta solo in quel momento. Non poteva
negare a
se stessa che qualunque altra persona gli avrebbe già tirato
un ceffone e tanti
saluti, piuttosto che sorbirsi le sue battutine e le sue rispostacce.
Però lei
ne era rimasta incuriosita, una volta passata l’irritazione
dei primi attriti.
Non era di certo quella che andava a caccia di cause socialmente perse
per
farle ridiventare amabili col resto del mondo, anzi, non si era mai
esentata
dal rispondere per le rime a chi la trattava in malo modo. Per Hichigo
era
stato un po’ diverso, lui non era cattivo, solo molto
strafottente, e con un
orgoglio a dir poco smisurato. Ma per lo meno, la ragione principale
era
visibile a tutti: si era sempre rifiutato di tingersi i capelli di nero
per celare
il proprio albinismo, sfoggiava la chioma chiarissima con una
disinvoltura estrema
– la medesima nonchalance con cui faceva parlare i pugni
quando qualcuno azzardava
più di una parola di troppo. Dietro la scorza rude Darkie
aveva trovato una
persona essenzialmente buona, ma bersagliata da troppi pregiudizi e
cattiverie.
Non c’era da stupirsi se era diventato un tipo da rissa per
strada – e
raccontava con fierezza tutte le volte in cui era stato sospeso da
scuola per
una scazzottata nei corridoi o in terrazza. Una personalità
del genere,
affiancata poi ad un elemento come Grimmjow, avrebbe potuto generale
una
miscela a dir poco esplosiva – le volte in cui erano quasi
venuti alle mani
erano state parecchie, agli inizi –, che però era
sfociata in quella tipica amicizia
tra maschi, fatta di sfottò a frequenza regolare ma assoluta
fiducia e lealtà
reciproca. Non c’era da stupirsi, infatti, che durante gli
anni del liceo i due
avessero passato più tempo in punizione insieme che ai club
sportivi. Dopo il diploma
l’albino e il fratello si erano trasferiti a Tokyo per
studiare all’università,
e Grimmjow aveva aperto la propria attività con Renji, altro
scavezzacollo che
aveva frequentato con lui il club di kick-boxing al liceo.
Deak,
invece, non lasciava intendere i motivi
del suo atteggiamento. Si rifiutava di credere che la sua
acidità da zitella frustrata
fosse naturale del suo essere, anche perché in quel momento
stavano discutendo
civilmente. Insomma, non l’aveva ancora cacciata fuori e
questo era già un bel
passo avanti, almeno dal suo punto di vista. Solo, non riusciva a
vedere
motivazioni chiare, palesi come poteva esserlo l’albinismo di
Hichigo: l’unica
“nota stonata” del suo aspetto era quella benda che
portava, come il fratello,
sull’occhio destro. Non riteneva che i capelli rossi fossero
un fattore così
“anomalo” da comportare pregiudizi da parte della
gente, aveva visto ragazzi
con le chiome tinte dei colori più disparati, che fosse un
verde acido o
azzurro cielo – e Grimmjow era un esempio lampante, giusto
per citarne uno.
Anche Renji vantava una chioma rosso fuoco, e pure bella lunga, sempre
stretta
in una coda di cavallo – e quei due erano tutto
fuorché degli asociali, anzi,
vivevano praticamente sempre a contatto con la gente. Forse era anche
quello,
sì, uno dei motivi che spingeva Darkie a cercare di
conoscerlo meglio. Di per
contro, pensandoci bene si diede pure dell’egoista: stava
passando sopra le
opinioni altrui per soddisfare la propria curiosità.
«Forse
farei meglio a lasciar perdere, hai
ragione.» disse, accennando un sorriso. Si rialzò
in piedi, dandosi qualche
pacca sui pesanti leggings neri e allungando un braccio per riprendersi
il
cappottino «O finirà che mi troverai davvero
odiosa.».
Deak
rimase alquanto perplesso a quella
risposta, non combaciava affatto con i comportamenti che aveva tenuto
fino ad
allora. Era davvero una tipa stramba, quella lì.
Però l’idea di “esser lasciato
perdere” lo infastidiva senza una ragione precisa. Solo perché è una delle poche
facce conosciute, si disse. E non
sapeva ancora se quel pensiero fosse sincero o meno.
«Non
ho detto nemmeno che ti troverei odiosa.
Volevo sapere se per caso facevo parte di una lista di elementi
selezionati.».
«Tsé,
selezionati! Non ho un debole per le
cause perse, se questo ti può consolare.»
sbottò lei, sempre sorridendo «E no,
non c’è nessuna lista. Te l’ho detto,
vorrei solo… provare a capirti, tutto
qui. Almeno, se poi mi manderai al diavolo definitivamente,
potrò dire di
averci almeno provato.».
Stavolta
il ragazzo non disse nulla, limitandosi
a sospirare e buttando un’occhiata verso la finestra. Si era
fatto veramente
buio, fuori, e di sicuro suo nonno non avrebbe mai permesso che Darukia
tornasse a casa da sola. Non che ce l’avesse a morte con lei
per averlo
picchiato – ragionandoci un istante, una reazione simile era
stata più che
naturale, anche se non era di certo possibile dare la colpa solo a lui.
Volente
o meno si sarebbe ritrovato moralmente
costretto
a riaccompagnarla, o avrebbe dovuto sorbirsi i truci sguardi di suo
nonno in caso
si fosse rifiutato. Cercò con tutte le sue forze di non dare
la colpa alla
consapevolezza che qualcuno stava pedinando la ragazza: dopo essersi
reso conto
che lui non avrebbe lasciato da sola Darukia – seppur
controvoglia -, lo
sconosciuto si era volatilizzato nel giro di poco. Forse la sua poteva
essere
paranoia, eppure qualcosa gli impediva di mollarla fuori di casa da
sola. Se
solo Lavi l’avesse saputo, se ne sarebbe sicuramente uscito
con un “te l’avevo
detto, neanche tu lasceresti da sola una ragazza indifesa”
– oddio, indifesa
mica tanto…
Si
sistemò un cerotto sull’alluce per tenere
bloccata l’unghia e gettò sopra i pantaloni i
calzini, alzandosi poi dal letto
sotto lo sguardo perplesso della giovane.
«Scendi
a cena? Forse è meglio che me ne
vada.» si sistemò il cappotto addosso, armeggiando
con la fibbia della cintura
per richiuderla in vita.
«Ti
accompagno.» sbottò lui, constatando con
non poco sollievo che dopo una buona medicazione le ferite non
bruciavano più
così tanto. Rovistò in un cassetto per prendere
un altro paio di calzini, prima di
chinarsi per raccogliere gli abiti sporchi e riprendere a parlare
«Mio nonno mi
fucilerebbe se ti lasciassi uscire da sola con questo buio.».
«Ma
no, non…» s’interruppe quando vide il
ragazzo sorpassarla senza aggiungere altro.
Si
apprestò a seguirlo in corridoio, aspettandolo
mentre depositava i vestiti in bagno, e fino al piano di sotto, dove si
fermarono
per rimettersi entrambi le scarpe. Deak avvisò il vecchio
Bookman che l’avrebbe
riaccompagnata a casa e uscì senza nemmeno aspettarla,
sistemandosi spiccio la
giacca e la sciarpa – Darukia si congedò
velocemente con un inchino e si
affrettò a raggiungerlo, camminandogli accanto. Non si
dissero nulla per buona
parte del tragitto, entrambi presi dai propri pensieri per scambiarsi
qualche parola.
Fu solo quando arrivarono ai cancelli del residence dove vivevano i tre
fratelli Kuchiki che Deak si decise finalmente a parlare.
«Ti
sei ingraziata pure mio nonno, ora. Ma non
pensare di averla vinta tanto facilmente.» cacciò
le mani nelle tasche del
giaccone, mormorando al di sopra del bordo della sciarpa.
«Detta
così, la fai sembrare una sfida a
conquistare il tuo freddo cuoricino.» replicò la
ragazza, ghignando in risposta
e atteggiandosi «Qualcosa del tipo “hai
conquistato loro, ma non scioglierai anche me, con quei tuoi occhioni
da cerbiatta,
con quell’aria così dolce, con quel fare
così posato e innocente!”,
rendo?».
«Fare
posato e innocente, tu? Parlo con la
stessa persona che mi ha picchiato con la ferocia di una schizzata in
piena
crisi pre-mestruale?».
«E
tu cosa ne sai, di crisi pre-mestruali?
Parli per esperienza?».
«Lo
sanno anche i sassi che voialtre femmine
date di matto in quel periodo. Tu, poi, sembri tanto piccina e
deboluccia, poi
scalci peggio di un mulo quando lo ferrano…».
«Giusto
perché tu lo sappia, non sto rimpiangendo
nemmeno uno degli schiaffi che ti ho dato!»
esclamò lei punta sul vivo, incrociando
le braccia al petto.
«Inutile
far tanto la sostenuta, hai già piagnucolato
a sufficienza le dovute scuse.» Deak rispose con una
linguaccia e un sorrisetto
altrettanto bastardo, facendola infervorare ancora di più,
tanto che gli rifilò
uno spintone per allontanarlo. Poi però sembrò
ripensarci e, dopo aver cercato
per un po’ nella borsa, gli schiaffò in mano un
oggetto che, sulle prime, Deak
non riuscì a distinguere. Solo quando vide di cosa
effettivamente si trattava,
non riuscì a trattenere un’espressione alquanto
scettica.
«Spray
anti-aggressione? Ma starai scherzando!»
cercò di renderglielo, ma Darkie fece un passo indietro,
stringendosi le braccia
al petto.
«Non
si sa mai! Metti che un altro paracarri
voglia venirti addosso, con quel bel faccino che ti ritrovi tenteresti
anche un
platano…» si affrettò a rimangiarsi le
parole, non appena vide la sua mano
stringersi a pugno ed alzarsi, quasi a volerle tirare un colpo in testa
«Dai,
scherzavo! Solo per sicurezza, eh? Magari te lo tieni in tasca e non te
ne fai
niente, ma insomma, metti che veramente gira gente
strana…».
«Tsk,
ma figurati se mi metterebbero mai le
mani addosso.» sbottò lui, intascandoselo con aria
seccata e voltandosi «Io
vado, ciao.».
«Ah,
ehm… uno squillo quando arrivi? Tanto per
star sicura?».
«Ma
certo, mammina. Vuoi anche che ti mandi
una foto con tanto di dedica, magari un “ciao
amore, sono ancora tutto intero, nessuno ha messo a rischio la mia
virtù”?».
«Ma
la finisci di sfottere?! Che deficiente
che sei!».
«Sei
tu che hai paranoie da fidanzatina ansiosa!».
«Fidan-…?!
Mi pare normale preoccuparsi per i
propri amici!».
«Vabbé,
dai, ti faccio ‘sto benedetto squillo
che almeno ti calmi! Ora ti spiace se vado?».
«Tsk,
vai pure! E vedi di non schiantarti di
nuovo, stavolta!».
Deak
borbottò qualcosa e scrollò le spalle,
allontanandosi. La ragazza rimase a fissare il punto in cui era
sparito, svoltando
l’angolo, prima di decidersi a tornare in casa, sbuffando
come una locomotiva. Che
razza di tipo! Tra sé, però, non
riuscì a trattenere un sorrisetto: che gli
piacesse o meno, era riuscita almeno in parte nel suo intento.
***
*** ***
Un
paio di giorni dopo, con non poco sollievo,
Byakuya vide la scrivania dell’ufficio occupata proprio da
Hisana. Di suo era
stato assente per via di una causa felicemente conclusasi con la
condanna
dell’imputato, peraltro colpevole senza
possibilità d’errore – troppe erano le
prove contro di lui -, era stato un caso forse troppo semplice. La vide
salutarlo con un bel sorriso, il viso con un colorito finalmente sano
e,
immancabili, alcune pratiche da fargli firmare. Quell’attimo
di idilliaca pace,
però, ebbe vita assai breve: osservò
irrigidendosi come un pezzo di marmo la
sua segretaria che, con ancora in mano la cornetta del citofono e un
sorriso
quasi angelico, gli annunciava che quello che aveva appena suonato non
era un
cliente o il postino con delle carte da consegnargli, ma nientemeno che
Yoruichi, la persona più baldanzosa e irriverente che
conoscesse. Per quanto bene
potesse volerle come amica d’infanzia, ovviamente. Questa si
presentò con un sorriso
che andava da un orecchio all’altro, placcando Byakuya prima
che questi potesse
andare a rintanarsi nell’ufficio con la scusante di qualche
cliente urgente da
sistemare.
«Byakuya-bo,
finalmente riesco a trovarti.» disse, salutando Hisana con un
cenno della testa
«Ho provato a chiamarti un sacco di volte a casa e non ti ho
mai trovato, in
questi giorni. Praticamente mi sto scarrozzando dietro queste carte da
un’eternità, e sai che non posso mica venire
quando ti fa più comodo. Ma fino a
che ora stagni qui in ufficio, si può sapere?».
«Non
ho orari definiti, Yoruichi, dovresti ben
saperlo. E comunque, mi pare che tu vada e venga quando ti pare e
piace, non
quando fa comodo a me.».
«Dettagli,
dettagli. Ma per lo meno verso le sette
e mezza dovresti esserci, a casa. L’altra sera ha risposto
Darkie e ha detto che
le avevi appena avvisate che avresti tardato per non ricordo
cosa…».
«È…
è colpa mia.» pigolò timidamente
Hisana,
arrossendo di botto.
Due
paia di occhi si piantarono su di lei,
facendola diventare ancora più rossa – Yoruichi,
poi, la guardava come se fosse
stata un’aliena, chiedendo spiegazioni con il solo sguardo.
Non riusciva
davvero a vedere il nesso tra la segretaria e l’assenteismo
di Byakuya da casa.
A meno che…
«È
che… in questi giorni sono stata male, e il
dottore è stato così gentile da assistermi dopo
l’orario d’ufficio… ma non
pensavo che vi avrebbe causato ritardi con il lavoro, dottore, mi
dispiace!»
farfugliò, inchinandosi dispiaciuta.
Non
poté vedere lo sguardo sbalordito
dell’agente, che si alternava da lei all’uomo che
aveva accanto il quale, nel
mentre, sperava ardentemente che non si sentisse in colpa per le parole
di
Yoruichi – aveva il vizio troppo radicato di sentirsi un
disturbo, accidenti a
lei.
«Sarei
stato comunque impegnato per preparare
l’udienza di ieri per poterle leggere con la dovuta
attenzione, Hisana, quindi
non c’è motivo di scusarsi.» disse,
incrociando le braccia al petto.
«Byakuya-bo,
ma voi due…».
«No.»
fu la secca risposta dell’avvocato
«Prima che tu ti faccia strani film mentali, Yoruichi, metto
in chiaro che tra
noi non ci sono chissà che tresche da romanzetto rosa. Stava
male e l’ho
aiutata, tu non faresti lo stesso se qualcuno dei tuoi stesse
male?».
«Beh,
oddio, dipende.» la donna si grattò svogliatamente
la nuca, continuando a fissare entrambi «Un tipo come Omaeda
dell’ufficio di
sorveglianza forse no. Non che abbia qualcosa contro di lui,
chiariamoci, ma di
certo non starei ore extra fuori casa solo per vederlo vomitare in
preda alla
febbre.».
Touché,
pensò Byakuya.
D’altro canto non se la sentiva di spifferare ai quattro
venti che Hisana non
aveva nessuno che potesse assisterla e, ovviamente, non voleva dare
l’idea
sbagliata di averlo fatto per pietà nei suoi confronti. Vero
era che per la maggior
parte del tempo Hisana era rimasta a letto a parlare con lui,
sonnecchiando di
quando in quando anche per pochi minuti, mentre magari lui ne
approfittava per
portare via una scodella vuota o portarle altro tè caldo
– sempre, ovviamente,
sotto lo sguardo inquisitorio della palla di pelo che teneva in casa.
Solitamente
quel gatto se ne stava steso sul letto accanto alle gambe di Hisana,
rispondendo con le fusa ai lievi grattini che lei gli faceva dietro le
orecchie,
a quelle che parevano di più blande carezze – e
miagolava quando la sentiva
fermarsi, come a rimproverarla di aver interrotto quel piacevole
passatempo.
Ma
Hisana, quasi con ingenua vergogna, ammise
a mezza voce che no, lei non aveva dato di stomaco mentre Byakuya era
in casa.
Aveva “avuto l’accortezza
di evitarlo”,
mormorò, perché la cosa l’avrebbe
imbarazzata parecchio. Cosa ci fosse di
imbarazzante Byakuya non lo sapeva davvero, lui che si era preso cura
per anni
delle sorelline quando stavano male era veramente abituato a tutto
– ma, più probabilmente,
era dovuto al fatto che Hisana fosse poco avvezza ad avere gente
estranea in
casa, figurarsi in un momento del genere.
«Yoruichi,
vieni nel
mio ufficio.» disse d’un tratto, prendendo dalle
mani della poliziotta la
busta. Si avviò verso la porta, fermandosi prima di
abbassare la maniglia «Hisana,
per cortesia, vorrei prima delle 14 la programmazione della settimana e
i vari
colloqui previsti, specie per quanto riguarda gli avvocati della difesa
di quel
magnate.».
Attese
solo la
conferma da parte della giovane, prima di entrare nella stanza e far
accomodare
la poliziotta, che lo seguì con un sorrisetto che andava da
un orecchio
all’altro.
«Ma
da quando gli
avvocati si prendono cura delle proprie segretarie
malaticce?» la donna attese
che chiudesse la porta, prima di parlare «Non dirmi che non
è una trama da
romanzo perché non ci credo neanche se mi paghi.».
«Yoruichi,
piantala.
Hisana è un’ottima segretaria, con la testa a
posto. Non è assolutamente una di
quelle che fanno le gattemorte per avere favoritismi.»
Byakuya s’avviò alla
propria scrivania, gettandoci sopra la busta e facendo il giro per
sedersi
sulla poltrona.
«Non
ho mai detto
questo, Byakuya-bo. Ha troppo il
faccino da brava ragazza per essere una di quelle che mostra la
scollatura per un
aumento. È che è strano da parte tua, non dire di
no. Insomma, a che io sappia
finora ti sei sempre e solo preso cura delle tue sorelle, mai delle tue
dipendenti.».
«Una
volta anche di
te, ma eri talmente stordita dalla febbre che mi hai vomitato sulle
pantofole
non appena mi sono seduto accanto al tuo letto.».
«Oddio,
te ne ricordi
ancora? Non è stata colpa mia, dai. Avevo un po’
lo stomaco deboluccio,
allora.».
«Lasciamo
perdere
questo argomento, per ora. Hai novità?».
Yoruichi
sospirò,
tornando seria. Sapeva fare la simpaticona, specie con Byakuya, ma
sapeva anche
quand’era il momento di smettere di scherzare.
«Poco
e nulla, per
ora. Ma le prime voci hanno iniziato a girare, sanno che ti stai
occupando di
questo caso, Byakuya, non ci metteranno molto a darsi da fare e sai
anche tu
che quella è gente che non scherza. Ne hai parlato con Rukia
e Darkie?».
«Ovvio
che no, non nel
dettaglio, almeno. Meno sanno di questa storia e meglio
è.» mormorò lui,
meditabondo «Stavo pensando di mandarle per un po’
di tempo alla villa, ma sono
in pieno anno accademico e non se ne andranno senza motivazioni
valide.».
«Cerca
solo di
proteggerle, Byakuya. Nella più malata delle ipotesi,
potrebbero colpire loro
per cercare di fermarti. Sanno che non ti fermi davanti a niente, non
sarebbe
strano se le prendessero di mira.».
«Non
dirlo neanche per
scherzo.» la voce di Byakuya si ridusse ad un ringhio, mentre
stringeva
nervosamente le dita intrecciate «Chiamerò mio
padre e gli chiederò due agenti
della nostra scorta, non posso permettere che gli succeda qualcosa. Ma
spero
davvero non debbano mai avere occasione di agire.».
«Lo
spero per te,
Byakuya. Comunque sia, pare che alla lista delle persone legate a quel
simpatico personaggio, e scomparse in circostanze del tutto
sconosciute, si sia
aggiunta anche una donna, una cugina alla lontana. Non si hanno
più notizie di
lei da più di dieci anni e nessuno sa che fine abbia
fatto.».
«Stai
cercando di
dirmi che è possibile che venga aggiunto un altro capo
d’imputazione? Mi pare
che quelli già presenti siano sufficientemente gravi da
assicurargli la prigione
a vita, come minimo.».
«È
una possibilità da
non escludere. Specie se, nel frattempo, la suddetta donna dovesse
tornare… o
meglio, venisse ritrovata con pochi lembi di pelle attaccati alle ossa,
se rendo
l’idea.».
«La
rendi pure
troppo.» Byakuya sospirò, sfogliando i documenti
prima contenuti nella busta
«Farò il possibile per farlo finire in gabbia,
Yoruichi. Su questo puoi starne
certa.».
«Lo
so che quando ti
metti in testa un’idea non la cambi neanche a morire, Byakuya-bo. Esattamente come quando eri
un bambinello testardo che
s’infiammava per un nonnulla.».
«Le
tue interruzioni
ai miei allenamenti di kendo non erano un nonnulla.».
«Io
però mi divertivo
a farti imbestialire.» Yoruichi ridacchiò,
scrollando le spalle «Dai, ti lascio
lavorare. In bocca al lupo, Byakuya-bo.».
«Lo
spero davvero.» fu
la pronta risposta, mentre tornava a concentrarsi su quei dossier.
Erano
ormai le 19
passate, quando Byakuya richiuse gli uffici. Salutò Hisana
con un cenno della
testa, prima di avviarsi verso la macchina e metterla in moto, sparendo
alla
vista della giovane alla prima curva. Hisana si lasciò
scappare un sospiro,
stringendosi nel cappotto e immergendo il viso nella sciarpa: vero era
che
mancava poco più di un mese e mezzo alla primavera, ma le
temperature erano
ancora veramente rigide, non ci teneva a passare un’altra
settimana a letto con
la febbre. Lungo il tragitto non prestò più di
tanta attenzione a chi la
circondava, tutti se ne stavano imbacuccati nei pesanti cappotti,
sembrava
quasi che il trascorso Natale si fosse portato via tutta la
vitalità della gente,
i negozi e le strade erano già state spogliate di tutte
quelle lucine che avevano
rallegrato le fredde serate in città. Poggiò la
tempia contro il finestrino
dell’autobus, osservando distratta il paesaggio scorrerle
davanti agli occhi
attraverso il vetro appannato e leggermente sporco
all’esterno. Non vedeva
davvero l’ora di arrivare a casa e farsi un bagno caldo,
rilassarsi un po’ dopo
quella giornataccia – non aveva avuto un attimo di tregua,
sempre presa da
chiamate e programmazione dei colloqui. Per non parlare
dell’incontro con Yoruichi,
sulle prime l’aveva scambiata anche per la fidanzata
dell’avvocato – ma,
ragionandoci un istante, Byakuya non avrebbe dichiarato con tanta
leggerezza di
esser rimasto da lei piuttosto che a casa, se davvero tra loro
c’era qualcosa.
Altra conferma arrivò proprio da Yoruichi che, tra una
chiacchiera e l’altra,
aveva accennato ad un certo Kisuke, lasciando intendere un rapporto ben
più
profondo della semplice amicizia. E quando, timidamente, Hisana le
aveva
chiesto se sapesse in che modo poteva sdebitarsi nei confronti di
Byakuya, lei
le aveva risposto qualcosa del tipo “Il
solo fatto che tu sia qui per lui è un ringraziamento
più che sufficiente,
anche se non vuole ammetterlo.”. Aveva subito
chiarito che non c’era chissà
quale risvolto romantico nella sua frase, cercando di sedare
bonariamente
l’imbarazzo che aveva causato. Era una tipa simpatica, quella
Yoruichi – e
diamine, era veramente bella. La pelle ambrata sembrava impreziosita
dalle
iridi quasi dorate e dai lunghi capelli scuri, tendenti al viola. La
superava
d’altezza, ma era anche fisicamente più formosa di
lei – decisamente
più formosa. Insomma, faceva la sua bella figura tra la
gente, specie in divisa – e non osò immaginarla in
abiti formali o eleganti, anche
per salvaguardare un po’ la propria già misera
autostima in confronto ad una
bellezza del genere.
Una
volta scesa dal
mezzo, si fermò a pochi passi dalla porta della palazzina
per cercare le chiavi
nella borsetta. Mentalmente prese nota di dover chiamare gli addetti
all’illuminazione del palazzo, visto che le luci avevano dato
bellamente
forfait. Si spostò poco più sotto del lampione,
con la testa ancora china alla
ricerca del mazzo scomparso – non si accorse
dell’aitante giovane che le arrivò
alle spalle, senza sfiorarla né nulla, ma ad una vicinanza
tale da renderle
difficile riuscire a girarsi per vederlo in viso.
«Chiedo
scusa,
signorina…» mormorò, la voce ben
udibile nonostante il filtro della sciarpa
«Lei è per caso la segretaria
dell’avvocato Byakuya Kuchiki?».
Hisana
fermò la mano
ancora immersa nella borsetta, cercando di sciogliere i muscoli che le
si erano
improvvisamente irrigiditi – e non solo per il freddo
– a constatare che non
aveva abbastanza spazio, intrappolata tra quell’individuo, il
cestino
dell’immondizia e il palo della luce.
«Chi
vuole saperlo?»
chiese in risposta, cercando di riunire quanto più coraggio
possibile.
«Lui
sa chi sono, non
si preoccupi, signorina. E dal suo scetticismo deduco che
sì, lei è la sua
segretaria. Come mai tutta questa rigidità? Non sono un
maniaco, mi creda.».
«Faccio
fatica a
crederlo, quando lei per primo non mi permette di vederla in viso. Cosa
vuole
da me?».
«Oh,
niente di che,
davvero. Solo, vorrei che riferisse al suo principale che gli conviene
davvero
interrompere tutte le sue indagini nel caso di quel famoso magnate di
cui lei
ha sicuramente sentito parlare. Sa, non si sa mai come trattare con
certa
gente, potrebbero non prendere bene il suo ficcanasare nelle faccende
altrui…».
«Non
si permetta di
fare minacce!» esclamò lei, cercando di voltarsi
– ma lui la bloccò sul posto,
puntandole qualcosa contro la schiena. Non volle davvero assicurarsi
che si trattasse
di un semplice indice o di qualcosa di peggio.
«Non
faccio minacce,
signorina. Il mio è un semplice avvertimento. Ne vogliamo
uscire tutti sani,
no?» quella voce melliflua le sfiorò
l’orecchio, facendola rabbrividire per il
disgusto «Mi raccomando, lo faccia sapere al suo capo. Non
vorrà mica che
succeda qualcosa a lui o alle sue adorabili sorelline, vero?».
Hisana
non riuscì a
rispondere, raggelata. Stava valutando tutti i modi per riuscire a
voltarsi e
bloccare quel tipo, vederlo almeno in viso, ma prima che potesse farlo
sentì
quella pressione alla schiena sparire, e un frettoloso rumore di passi
allontanarsi. Deglutì prima di girarsi, quasi tentata di
rincorrerlo – ma quel
tipo, chiunque esso fosse, si era velocemente mescolato alla gente che
passava
in quel momento, impedendole di capire chi potesse essere.
Recuperò in fretta
le chiavi e salì fino a casa quasi correndo, premendosi
contro la porta dell’appartamento
e riprendendo fiato solo dopo essere entrata. Non le aveva fatto
molestie di
sorta, quel tipo, ma le sole parole erano bastate a farle venire i
brividi come
poche altre volte in vita sua. Shiro, fermo sul tappeto del corridoio,
la
fissava senza nemmeno avvicinarsi mentre, lasciandosi scivolare seduta
sul
pavimento, la ragazza prendeva tra le mani il cellulare. Aveva messo in
memoria
il numero di Byakuya sin dal giorno in cui lui stesso glielo aveva
lasciato, ma
non aveva mai trovato il coraggio di chiamarlo, anche solo per
ringraziarlo. Ma
se davvero era a rischio lui, o addirittura le sue sorelle, non poteva
starsene
zitta. Inspirò profondamente più volte, tentando
di comporre il numero con le
dita sufficientemente ferme.
Byakuya
era rientrato
da poco, abbandonando la giacca e la borsa nella propria camera.
Sciolse il
nodo della cravatta, sistemandola sulla sedia, e si diresse in cucina.
Darukia era
tutta presa a preparare la cena, canticchiando sommessamente tra le
labbra,
mentre la sorella finiva di preparare la tavola.
«Nii-san,
stasera sei
tornato presto.» disse Rukia, sistemando i bicchieri sui
rispettivi posti «Niente
impegni, stavolta?».
«No,
Hisana si è
rimessa perfettamente.» rispose sovrappensiero, sedendosi sul
divano e aprendo
il giornale. Non si accorse minimamente dello sguardo che si erano
scambiate le
sorelle, alquanto perplesso.
«Scusa,
ma chi sarebbe
Hisana? Una fidanzata di cui non sapevamo niente?» chiese l’altra,
senza riuscire nemmeno a
rimettere il mestolo nella pentola piena di verdure.
«La
mia segretaria,
Darkie. Non è la mia fidanzata.».
«No,
no, fammi
capire.» Rukia agitò le mani, frenetica
«Sei stato a casa della tua segretaria
malata per prenderti cura di lei, in questi giorni?».
Stavolta
Byakuya si
trovò costretto a rialzare lo sguardo dalle notizie
economiche, squadrando le
gemelle che lo fissavano con tanto d’occhi.
«Rukia,
per piacere,
non fare come Yoruichi che si è fatta chissà
quali film mentali. In parte è
stata anche colpa mia, mi pareva il minimo.».
Darkie
si sentì
strattonare per il braccio dalla sorella che, con espressione fin
troppo allegra,
aveva cominciato a tirarla a sé.
«Darkie,
ti ricorda
niente? È come in Midnight
Secretary,
solo che lui era un capo aziendale e pure vampiro!».
«Effettivamente
la
tresca capo-segretaria è gettonatissima pure nei
manga…» la ragazza si sfiorò
il mento, osservando attenta il fratello.
«Non
c’è nessuna
tresca, vi ho detto!».
«Aah,
stoico e freddo
come Kyouhei! Ti mancano solo i canini e le compresse di sangue finto,
nii-san!».
«E
tutte le belle
donne che si ripassava per avere sangue fresco…».
«Ma
poi ha scelto la
serietà e la semplicità della dolcissima
Kaya.».
«In
effetti poi ha
voluto solo lei come compagna… meglio non dire come faceva
per avere il sangue
allo stato migliore, però.».
«Ragazze,
ho una vaga
idea di quali idee malate vi stiano frullando per la testa, ma torno a
ribadirvi che tra me e Hisana non c’è stato
assolutamente niente, nessuna
tresca e nessunissimo coinvolgimento fisico-emotivo mentre eravamo in
casa sua.»
Byakuya depose il giornale, tanto era certo che non avrebbe
più letto in
tranquillità nemmeno una riga. Possibile che tutti
fraintendessero? La cosa
cominciava pure ad irritarlo «Aveva la febbre e
l’ho aiutata, visto che non ha
parenti che possano occuparsi di lei se sta male.».
Le
gemelle parvero
quasi ponderare le sue parole, accennando poi un vago sorrisetto mentre
tornavano ad occuparsi delle loro faccende.
«Sai
che comunque noi
tifiamo per te, nii-san. Insomma, è un peccato che
caruccio come sei, non
trovi una donna pure tu. Voglio dire, passi il bell’aspetto, ma
se c’è riuscito uno
dalla parolaccia facile come Grimmjow, non vedo come non possa
riuscirci anche
tu.».
«Non
ho tempo per le
relazioni, Rukia, non vedi pure tu che non so mai a che ora torno la
sera?».
«Per
questo ti stiamo
dicendo che, in caso la tua fidanzata fosse anche la tua segretaria,
riuscireste a passare comunque del tempo insieme.».
Era
una battaglia
persa, decisamente. Byakuya si rassegnò ad alzare
metaforicamente la bandiera
bianca, quando si trattava di certi argomenti le gemelle partivano in
quinta –
e chi riusciva più a fermarle? Venne salvato, ringraziando
il cielo, dallo
squillare del telefonino che aveva lasciato in camera. Si diresse a
passo
spedito nella stanza, cercando bonariamente d’ignorare le
gemelle che
ridacchiavano alla faccia sua, e raccattò il cellulare dalla
tasca.
Il
numero chiamante
era sconosciuto, al che avvicinò l’apparecchio con
un certo scetticismo.
«Pronto?».
«Dottor
Kuchiki? Mi dispiace
disturbarla, sono… sono Makimura.».
«Hisana!
È successo
qualcosa?».
Occhieggiando
verso la
porta vide Rukia e Darkie semi-nascoste dall’angolo del muro
ad origliare, aggrottò
le sopracciglia dirigendosi verso la porta per richiuderla. Ma rimase
con la
maniglia stretta nel pugno, i lineamenti così induriti da
sembrare scolpiti nel
marmo. Aveva previsto che, da quando avrebbe cominciato a circolare la
voce che
il caso era in mano sua, ci sarebbero stati dei guai. Sojun gli avrebbe
mandato
due agenti delle loro scorte per tenere al sicuro almeno le gemelle.
Quello che
non aveva calcolato, però, era che avvicinassero persino
Hisana. Sentì un
brivido corrergli su per la schiena, sebbene in casa fosse
più che caldo. E,
stranamente, non fu affatto per le sottili minacce che la segretaria
gli stava
riferendo in quel momento.
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