E se ...
Capitolo
Quattordicesimo
Anna si ferma
in una stazione di servizio per fare benzina e comprare qualcosa da
mangiare per sé e per la piccola Irene, che piange seduta
sul seggiolino dell' auto.
La bambina ha
due anni, ha i capelli neri e lucenti, legati con un fermaglio e degli
occhi grandi e scuri molto espressivi, simili a quelli di suo padre, di
quel papà che lei non aveva mai conosciuto.
"Su, Irene,
vieni in braccio. Ci sono qui io, la tua mamma, siamo in auto, ricordi?
Dobbiamo andare a fare una gita. Vieni qui, vieni, ora ce ne andiamo a
comprare qualcosa di buono, vuoi che comperiamo la cioccolata e il
cornetto con la confettura di fragole, piccola mia?" le chiede Anna,
asciugando con un fazzoletto di carta le lacrime che rigano il viso
della sua bambina.
Irene annuisce
e si aggrappa forte a sua madre, strofinando forte il suo nasino contro
i capelli di Anna e cingendola con tenacia, in modo da non riuscire a
staccarsi per nulla al mondo da lei.
Anna chiude la
portiera dell'auto e si aggiusta la tracolla viola sulla spalla destra,
poi rassicura nuovamente la sua piccola e si avvia verso l' autogrill,
in cerca di un posto caldo e sicuro dove trascorrere una manciata di
minuti prima di ripartire verso la capitale.
Duecento
chilometri, mancavano solo duecento chilometri a Roma, duecento
chilometri a separarla da Luca.
Il suo
migliore amico.
Il suo amore.
Il padre di
sua figlia.
Irene.
Aveva pensato
molte volte che la scelta fatta mesi prima della sua nascita fosse
sbagliata, che stava portando via al nascituro una figura importante,
fondamentale, che forse sarebbe bastata una telefonata a sistemare
tutto, a raccogliere i cocci e a rimetterli insieme.
Inizio
flashback
Aveva preso un
treno per Roma, aveva tenuto le braccia strette contro il pancione
mentre viaggiava, braccia con cui sperava di stringere Luca, labbra con
cui sperava di baciarlo e di chiarire tutto.
Fiumi di
speranze e di sogni infranti alla vista di lui con un' altra, una donna
mai vista prima, una donna con cui lui l' aveva presto
rimpiazzata.
Anna se n' era
andata, aveva stretto forte la giacca a sè e aveva corso
fino allo stremo delle forze, fino a che un passante le aveva chiesto
se avesse avuto bisogno di un medico, se si fosse sentita male.
Lei aveva
annuito debolmente, prima di vedere il buio attorno a sé, i
piedi sempre più distanti da terra, si era accasciata al
suolo e si era svegliata in un letto d' ospedale, i medici a dirle che
il bambino era in sofferenza fetale e che era più sicuro per
entrambi un parto cesareo d' urgenza.
Aveva pianto,
Anna aveva pianto per il dolore, la rabbia, la paura.
Era
orgogliosa, Anna, troppo orgogliosa per fare qualsiasi cosa che fosse
lontanamente sensata come chiamare sua madre o Vittoria, chiamare Luca
e chiedergli di venire.
Il suo
orgoglio l' aveva fermata, le aveva impedito di pensare ad altro che
non fosse il padre del suo bambino con un' altra, nell' appartamento
che una volta era stato loro e che, in fondo, continuava ad esserlo.
La paura di
non sapere se il piccolo o la piccola, visto che aveva deciso di non
scoprire il sesso del bambino prima della nascita, sarebbe
sopravvissuto, la paura di ripiombare in quel vortice maledetto di
angoscia e depressione che aveva conosciuto troppe volte durante la sua
giovane e travagliata esistenza.
Quando le
avevano adagiato la piccola sul seno, Anna aveva pianto, aveva lasciato
scorrere tutte le emozioni che affollavano la sua mente e che aveva
tenute nascoste in un angolino della sua anima, in modo che se ne
rimanessero lì, in un angolo e non le recassero fastidio.
Aveva visto
gli occhi grandi ed espressivi della piccola che sembravano
scrutarla,che parevano leggerle il cuore.
Sua figlia
aveva allungato una manina verso di lei, nel tentativo di avvicinarsi,
poi l' avevano portata via le infermiere per lavarla e poi sottoporla
agli esami necessari.
Era forte e
sana, era nata una manciata di settimane prima del termine, cinque per
la precisione, per questo motivo aveva passato un breve ma necessario
periodo in incubatrice, periodo nel quale la sua mamma non l' aveva
lasciata se non per dormire qualche ora, mangiare o per farsi una
doccia.
"Irene - le
diceva - ti chiamerò così, questo nome ti
sarà di buon auspicio. Tu sei una lottatrice nata, piccola
mia, proprio come la mia migliore amica. Sai, piccola, lei ti avrebbe
viziata moltissimo, ti avrebbe portata al parco e probabilmente avrebbe
convinto la mamma a parlare con il tuo papà".
Nel periodo
trascorso all' ospedale romano, Anna non aveva ricevuto visite, non
tanto perché fosse sola e dimenticata da tutti, quanto
perché lei aveva taciuto la notizia e si era limitata a far
finta di nulla, rimandando il momento della verità il
più in là possibile ed effettivamente
ciò le era riuscito piuttosto bene.
Ricordava di
essere uscita dalla clinica con la piccola Irene che dormiva beata
nella carrozzina, una sacca piena di pannolini e creme idratanti per
neonati e un bagaglio di paure e di angosce che difficilmente l'
avrebbero abbandonata negli anni a venire.
In tasca una
carta di credito ormai prossima all' essere prosciugata ed un cellulare
con il quale aveva chiamato un taxi per tornarsene a casa, a Trieste, e
lasciarsi alle spalle l' ospedale, il Decimo, la sua vita da poliziotta
e il rimpianto di un amore passato, sorto e sfiorito troppo presto,
troppo in fretta.
Le lacrime, la
gioia, la paura di essere sola e di essere madre e la consapevolezza di
essere responsabile di quella creatura così forte eppure
così fragile che si succhiava dolcemente il pollice nella
carrozzina, ignara di tutto il dolore che sua madre stava serbando nel
cuore come un veleno, questi erano stati i sentimenti che animavano il
suo cuore nel momento in cui si era lasciata Roma alle sue spalle.
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