Buona
sera a tutti e benvenuti al primo dei nove epiloghi di Just a
Landing ^^ dunque, contro ogni aspettativa quello che era partito come
uno degli epiloghi più difficili da scrivere, si
è dimostrato
abbastanza.. naturale diciamo. Il segreto è iniziare a
scrivere,
pensare a voi e tutto viene più facile ;) un paio di cose
prima di
lasciarvi alla lettura: la prima sarebbe una sorta di spiegazione,
questi nove epiloghi (uno per ogni coppia!) servono a spiegare cosa
è
effettivamente successo ai nostri personaggi, una volta messa la parola
fine alla storia; in parte qualcosa è stata anticipata
già nell'ultimo
capitolo (per questo ho deciso di dividerlo in tante sezioni, ognuna
per ogni coppia) e ovviamente tutte seguiranno il 04 Maggio 2012
(tranne alcuni casi di flashback, che verranno però
specificati con le
date!) che poi è il giorno della festa a casa di Blaine.
Come ho detto
sono nove e per non creare nessun tipo di disparità, ho
deciso di farli
in ordine alfabetico, partendo da Artie e concludendo con la Wemma,
anche se l'ultimo epilogo sarà ovviamente Klaine (quindi
otto in ordine
alfabetico e la Klaine per ultima!). Bene, detto questo, vi
ringrazio ancora una volta (perché non ne avrò
mai abbastanza) per il
sostegno, per le parole bellissime, perché ci siete ancora
nonostante
tutto e soprattutto per esservi innamorati così tanto di
JaL,
sentendola vostra e facendo sentire me speciale.. just thanks <3
ci
vediamo la prossima settimana con l'epilogo Brittana. Un bacio a tutti
e ricordatevi che vi amo
n.b.
Pagina Fb (Dreamer91 ) Raccolta (Just
a Landing - Missing Moments )
Epilogo n°1
- La partita a Poker -
Artie Abrams
New York City. Ore
09.45 A.M. 05 Maggio 2012 (Sabato)
Lavorare di
Sabato non
era mai stato un grosso peso per me e poi, sinceramente, non avrebbe
fatto neanche tanta differenza. D'altronde, l'alternativa sarebbe stata
quella di rimanere segregato in casa, magari a sfogliare vecchi
spartiti di un pianoforte a coda che non sarei mai più
riuscito
a suonare oppure mi sarei fatto deprimere con i miei assillanti
pensieri. Sì, lavorare per me non era decisamente un
problema.
Poi
ultimamente avevo
trovato un valido motivo per farlo, e quel motivo si chiamava Blaine
Anderson: era un ragazzo molto estroverso e carismatico,
particolarmente entusiasta verso ogni tipo di novità ma
soprattutto non sembrava uno che facilmente si sarebbe arreso. E poi...
beh, aveva talento, molto talento, e questo di certo non avrebbe
guastato. Sarei stato disposto ad investire in prima persona su di lui
e sulla sua voce perché ne ero convinto.. avrebbe fatto
strada,
senza alcun tipo di problema. Io me ne intendevo, certo. Avevo fatto i
miei dannati errori in precedenza, ma... di musica ne capivo ancora
qualcosa per fortuna.
E se non ci fosse stata la
musica, molto spesso, a salvarmi...
"Quando Jason mi ha chiamata, dicendomi che eri qui... non gli ho
creduto. Ammetto di essere piacevolmente sorpresa adesso!" una voce
femminile alle mie spalle interruppe i miei pensieri e anche il mio
lavoro, ma io non mi preoccupai neppure di girarmi per risponderle. Non
ne avevo voglia né tanto meno lei se lo meritava. "Qual buon
vento ti porta qui?" mi domandò, sbattendo i suoi
preziosi tacchi firmati fino al piccolo soppalco sul quale mi trovavo.
Un tempo quel rumore aveva annunciato per me qualcosa di meraviglioso;
in quel momento provocava soltanto fastidio.
"Il mio lavoro!" esclamai secco, trattenendo un ringhio che stava per
uscirmi dalla bocca. Lei schioccò le labbra, quasi
infastidita
"Mi fa piacere che ogni tanto tu te ne ricordi ancora."
mormorò acida
Ma
pensa...
"Io me ne
ricordo
sempre!" puntualizzai, stringendo con forza la penna a sfera che avevo
nella mano. Fece un altro verso strano, che sembrò molto una
presa in giro, ma ancora riuscii a trattenermi.
Non ne vale la pena,
Artie...
"Qualche nuovo grande talento degno di nota?" domandò
qualche
istante dopo, avanzando ancora e probabilmente fermandosi al mio fianco
- riuscivo a scorgerne il profilo del cappotto - con la voce ironica,
quasi tentasse di deridermi ancora, anche su quello.
"Vuoi farmi credere che adesso ti importa qualcosa di questa agenzia?"
la provocai lasciando da parte la penna e i documenti che stavo
revisionando per girarmi finalmente verso di lei. Era al mio fianco,
fin troppo vicina, potevo perfino sentirne il profumo deciso ed intenso
con il quale usava avvolgersi ogni volta prima di uscire. Ed era
vestita in maniera impeccabile come sempre, con il suo tailleur bianco,
il cappotto nero, taglio impermeabile, un foulard lilla al collo e
probabilmente una quantità spropositata di gioielli addosso,
dal
valore inestimabile. Ed aveva quella sua aria da donna vissuta - pur
avendo soltanto ventisei anni - altezzosa, egocentrica.. nonostante un
tempo non fosse affatto così. Ed era bella... ai miei occhi
rimaneva bella da togliere il fiato.
"A me è sempre importato... anche se continui a credere il
contrario... chissà per quale motivo." affermò
con
sicurezza, socchiudendo appena gli occhi su di me. Mi scappò
un
mezzo sorriso amaro e mi mossi sulla mia sedia, fino al bordo del
soppalco per imboccare la pedana.
"Già... chissà perché..."
New
York City. Ore 10.45 A.M. 12 Luglio 2009 (Domenica)
Al Motta era un uomo che ispirava soldi. Molti soldi. Stando a quello
che la gente vociferava, era uno che ci sapeva fare con gli
investimenti e ad un po' di sana fortuna, probabilmente - stando sempre
a quanto si diceva in giro - aveva aggiunto un po' di aiuti di altra
natura. In pratica i suoi soldi non erano del tutto puliti ma...
personalmente non badavo molto al giudizio della gente. Preferivo
conoscerle le persone e poi magari dare la mia opinione.
"Pensi che gli piacerò? Cioè... credi che lui
possa..
accettarmi?" domandai in ansia, mentre con difficoltà
prestavo
attenzione al panorama che scorreva indisturbato fuori dal finestrino.
La sua risata riempì l'abitacolo armoniosamente, causandomi
un
mezzo brivido dietro il collo
"La smetti di farti tutti questi problemi? Gli piacerai, ne sono
sicura. Mio padre è un tipo.. particolare, ma sa bene che,
quando si tratta della mia felicità deve lasciarmi fare,
senza
intromettersi!" mi spiegò con calma, continuando a guidare
la
sua monovolume lungo l'autostrada. Mi lasciai scappare un lungo
sospiro.
Non sapevo esattamente quanto Sugar avesse raccontato di me a suo padre
né tanto meno cosa lui sapesse di noi: probabilmente sarei
stato
presentato come il suo ragazzo - e la cosa mi rendeva felice e allo
stesso tempo mi terrorizzava - o forse come un semplice amico o
probabilmente... sarei rimasto uno dei pazienti della clinica presso
cui la figlia faceva volontariato occasionalmente. In tutti e tre i
casi, la reazione di Al Motta era decisamente imprevedibile ed io avevo
una strana ansia addosso, un'ansia che da qualche notte non mi faceva
neppure dormire.
Sugar aveva tentato in ogni modo di tranquillizzarmi, mi aveva
raccontato delle cose meravigliose su suo padre e mi aveva perfino
detto che non vedeva l'ora che la sua famiglia mi accogliesse tra i
ranghi, così da ufficializzare la nostra relazione ed io,
spinto
dal suo irresistibile entusiasmo, le avevo creduto ed avevo accettato
di incontrare suo padre a pranzo quella Domenica, soprattutto per
potergli parlare del nostro progetto, al quale speravamo potesse
perfino contribuire finanziariamente.
Io e Sugar ci eravamo conosciuti circa sei mesi prima nella clinica
privata presso cui facevo la fisioterapia per le gambe. Lei lavorava
come volontaria e ci eravamo già incrociati nei corridoi un
paio
di volte prima di rivolgerci la parola: o meglio.. era stata lei a
farlo. Si era avvicinata, mentre io ero impegnato a salire una delle
rampe più ripide di tutta la clinica e mi aveva chiesto
gentilmente se avessi bisogno di una mano. Io, che per principio non
accettavo l'aiuto di nessuno, benché meno di quelle persone
a
cui facevo pena, mi ero preparato a rifiutare gentilmente ma alla fine,
guardandola negli occhi e rimanendo appena abbagliato dal suo sorriso
splendente, non ero riuscito a dirle di no e così era
iniziata
la nostra amicizia. Con il tempo, parlando soprattutto di me e del mio
incidente, avevamo iniziato a vederci anche al di fuori della clinica,
ad uscire assieme, a farci vedere in pubblico e lentamente la leggera
attrazione che sentivo di provare nei suoi confronti si era
trasformata, era cambiata, si era intensificata fino a sfociare in
qualcosa di molto simile all'amore. Anche lei non sembrava del tutto
indifferente a me e pian piano, dal parlare solo di me, avevamo
iniziato a scherzare, a prenderci giocosamente in giro, ad
abbracciarci, a sfiorarci casualmente, a baciarci di sfuggita fino a
finire a letto assieme. Io l'amavo, l'amavo davvero, come non avevo mai
fatto con nessun'altra prima e lei sembrava seriamente coinvolta, tanto
che da qualche settimana si era perfino trasferita nel mio appartamento
a Long Island e insieme avevamo iniziato a vivere la nostra piccola,
buffa ma bellissima storia d'amore. Poi un giorno, parlando ancora dei
nostri interessi, lei mi aveva chiesto cosa avessi voluto fare nella
mia vita, se le mie gambe me l'avessero permesso ed era stato in quel
momento che la mia mente aveva preso a fantasticare e in meno di pochi
istanti, aveva partorito quell'idea, quella che sarebbe stata il mio
più grande successo e allo stesso tempo la mia
più grande
rovina.
Quando io e lei ci eravamo conosciuti, ignoravo quanto potere
potesse avere la sua famiglia o quanto terrore incutesse il nome di suo
padre nella gente: sapevo solo che era ricca, anche perché
lei
non lo aveva mai nascosto e non se ne era mai vergognata, ma lo aveva
sempre fatto con discrezione, senza ostentare troppo, senza tirarsela,
senza esagerare ed io, pur avendo un conto in banca particolarmente
rosso, non ero mai riuscito a sentirmi a disagio al suo fianco. Merito
suo, merito mio, merito di quello che ci legava. Eppure, mentre nei
nostri discorsi si concretizzava lentamente quell'idea alla quale io
avevo accennato solo una volta, suo padre era diventato una specie di
punto fermo, una garanzia alla quale saremmo dovuti ricorrere se
avessimo voluto rendere quel sogno tanto ambito, una realtà.
Ed
era anche per quello che quel giorno eravamo in macchina, diretti verso
la residenza estiva dei Motta ed io non riuscivo a stare fermo per
quanto ero agitato.
E se non gli fossi piaciuto? E se la nostra idea non lo avesse
entusiasmato? E se mi avesse sbattuto fuori di casa a calci? E se...
"Artie..." una voce gentile mi chiamò ed io riuscii a
rendermi
conto solo in quel momento di essere rimasto incantato a guardare il
cruscotto dell'auto, a stringere con forza la pelle del sedile. Con un
sospiro mi girai verso di lei e tremai appena sotto il suo sguardo
amorevole e il suo sorriso gentile
"Stai tranquillo, ti prego. Andrà tutto bene, ne sono
sicura. Tu
sei fantastico, la nostra idea è fantastica e sono
più
che convinta che papà sarà entusiasta di aiutarci
e
soprattutto di conoscerti oggi. Gli ho parlato così tanto di
te!" e sorrise ancora, fermando la macchina in un largo spiazzo
circondato dagli alberi e spegnendo il motore. Terrorizzato all'idea di
essere davvero troppo vicino a suo padre e alla prospettiva del
fallimento, strinsi ancora più forte il sedile sotto di me e
lanciai un'occhiata al palazzo - cazzo! - che svettava al di fuori del
finestrino. Chiamarla casa sarebbe stato decisamente riduttivo: era una
reggia, altissima ed imponente, contornata da un giardino a dir poco
immenso e perfino il portone di ingresso urlava lusso, soldi e tutto
ciò che io non mi sarei mai lontanamente potuto permettere.
Ecco, guarda bene,
Artie.. pensi davvero di avere qualcosa a che fare con persone
così?...
"Respira, per carità." sussurrò ancora la sua
voce,
mentre una carezza delicata si posava sulla mia guancia e per magia
riacquistava la mia attenzione. Ingoiai un grosso fiotto di saliva che
mi ostruiva la gola e mi impediva perfino di respirare e provai a fare
ciò che mi aveva detto, anche se era davvero difficile.
In quel momento dal palazzo imperiale uscirono un paio di persone
vestite di nero che, a passo deciso, vennero verso la macchina ed
aprirono le nostre portiere
"Bentrovata, signorina Sugar!" la salutò educatamente uno
dei due uomini, accennando un breve inchino
"Salve, Connor... papà è già in casa?"
domandò lei, mentre sgusciava elegantemente fuori dall'auto
"Sì, signorina.. il signor Motta vi sta aspettando nel
salone principale." spiegò accennando un altro inchino
Ma che cazzo... anche le riverenze adesso? Sono ricchi certo, mica dei
reali!...
Seguendo la discussione tra i due, non mi resi neanche conto che
l'altro uomo in divisa aveva raggiunto il cofano della macchina e ne
aveva tirato fuori la mia sedia a rotelle, l'aveva aperta e l'aveva
posizionata fuori dallo sportello.
"Signore?" mi chiamò allora ed io sobbalzai appena,
sorpreso.
Cosa voleva? Aiutarmi a sedermi lì sopra? Era il caso di
fargli
presente che purtroppo ci ero perfettamente abituato e che ci sarei
riuscito anche da solo? Per non essere scortese e non iniziare quella
giornata con il piede sbagliato, però, accettai il suo aiuto
con
un mezzo sorriso e mi lasciai prendere in braccio e depositare con
gentilezza sulla sedia, ma proprio non ce la feci a sopportare il fatto
che volesse perfino spingere la carrozzella.
"Non si preoccupi.. faccio da solo. Grazie!" lo rassicurai, sgusciando
via, leggermente imbarazzato
Non sono malato, porca miseria...
Sugar in quel momento mi raggiunse ed insieme varcammo la
soglia
di casa Motta. L'interno era decisamente un altro paio di maniche: mi
ero aspettato soffitti a volta, pilastri in avorio, scalinate in oro
zecchino, ma quello che trovai fu dieci, cento, mille volte meglio;
perfino il tappeto rasato che decorava il piccolo ingresso circolare
aveva l'aria di costare più del mio stesso appartamento, per
non
parlare degli specchi e del lampadario scintillante che pendeva quasi
fino a metà soffitto. Seguii con un certo imbarazzo Sugar
lungo
tutto il corridoio - un lunghissimo corridoio ricoperto di quadri
prestigiosi che ad occhio parevano dei pezzi unici e soprattutto
originali, ed eravamo ancora all'inizio - stando attento a non
combinare danni, a non urtare nulla e maledicendomi per non essermi
pulito le ruote prima di entrare. All'improvviso lei piegò
sulla
sinistra ed entrò in un salone immenso, grande quasi quanto
il
cortile in cui avevamo lasciato la macchina, solo che al posto di
piante e fiori, statue e mobili antichi la facevano da padrone. Ogni
tipo di anticaglia preziosa e di classe era presente in quella stanza,
senza appesantirla affatto, senza renderla volgare o grossolana:
chiunque si occupava dell'arredamento di quel posto, sapeva il fatto
suo e meritava tutto il mio rispetto. Mi sentivo un po' un barbone con
la mia misera giacca di misto lana, la mia camicia bianca fatta su
misura ed il mio pantalone con le pence: ero ridicolo, fuori luogo,
decisamente inappropriato. Ed eravamo solo entrati in un salone.. cosa
sarebbe successo quando avessi incontrato il sign...
"Papà!" esclamò in un impeto di gioia pura Sugar,
correndo verso il divano riccamente decorato - figurarsi! - che
ospitava una figura che ci dava le spalle. Quest'ultima, un uomo,
richiamato dal grido della ragazza, abbandonò il giornale
che
stava leggendo e si girò verso di noi, alzandosi in piedi.
Sugar
si fiondò tra le braccia del padre, come solo una bambina sa
fare e lui la strinse forte, all'apparenza molto orgoglioso e felice di
vederla. Rimasero in quella posizione per parecchi minuti,
sussurrandosi chissà cosa all'orecchio, ridacchiando e
riscoprendo un po' del loro genuino rapporto padre/figlia ed io me ne
rimasi in disparte, senza dare nell'occhio e senza fare il minimo
rumore. Solo dopo un po', forse quando lei si rese finalmente conto di
non esserci andata sola in quella casa, si discostò
dall'abbraccio del padre e, ancora sorridendo - sorrideva
così
anche quando era con me? - si girò verso di me e mi
indicò
"Papà... voglio presentarti Artie Abrams.. il ragazzo di cui
ti
ho tanto parlato. Vieni, Artie.. avvicinati!" e mi incitò
con un
sorriso dolce ed un cenno della mano. Io, prendendo un profondo
respiro, mossi le ruote fino ai due, preoccupandomi di tenere gli occhi
bassi sul tappeto bianco sotto di me, temendo che da un momento
all'altro potesse arrivare qualcuno a rimproverarmi per
quell'oltraggio. Mi fermai solo quando fui a meno di un metro da loro e
lì finalmente sollevai lo sguardo e lo puntai in quello di
Al
Motta e in quel momento, dopo quasi un'ora di viaggio in macchina, dopo
aver accumulato ansia, paura, frustrazione e anche un briciolo di
fastidio per tutto quel lusso esagerato, riuscii a pensare soltanto una
cosa: cazzo!
Le voci che descrivevano quell'uomo sbagliavano alla grande: Al Motta
era decisamente e atrocemente peggio. Era altissimo, superava senza
dubbio il metro e novanta, ben piazzato, fisico allenato e prestante,
spalle larghe, braccia spaventosamente muscolose e soprattutto
un'espressione decisamente poco amichevole. Mi stava guardando,
così come io stavo guardando lui, mi studiava attentamente,
forse cercava di valutare chi o cosa fossi e perché mai
stessi
inquinando la sua preziosa e lussuosissima aria. Mi ero già
sentito molto a disagio a ritrovarmi in quella casa, ma in quel
momento, mentre quell'uomo faceva le sue valutazioni, il disagio aveva
superato il limite massimo consentito.
Solo quando lo sguardo di Sugar iniziò a farsi preoccupato,
decisi di intervenire per dire qualcosa
"Signor Motta.. è un piacere conoscerla. Ho sentito parlare
veramente bene di lei!" mentii spudoratamente, sentendo le guance
tingersi vergognosamente di rosso, quasi urlassero che quella appena
detta fosse una bugia
"Ah sì? E da chi?" domandò lui sprezzante,
mettendo su una smorfia di sfida. Cazzo! Ma che... cazzo!
"Ecco.. io..."
"Chi lo ha detto è senza dubbio invidioso di me e del mio
successo. Se fossi in te non darei troppo credito alle chiacchiere!" mi
informò, anzi, mi... minacciò? Ma dico, aveva
capito
quello che avevo appena detto? Oppure perfino fare un complimento era
vietato in quella casa? Se parlare bene di qualcuno mi sarebbe valso
quello.. non immaginavo cosa sarebbe successo se per caso lo avessi
insultato.
"Papà... spero che tu ti sia tenuto libero per pranzo... ho
tante di quelle cose da dirti!" intervenne Sugar, forse per salvarmi da
quella situazione spinosa, conquistando tutta l'attenzione del padre
"Ma certo, principessa... per te questo ed altro. Ho chiamato Henry ed
ho disdetto tutti i miei impegni del pomeriggio. Una promessa
è
una promessa!" le confermò dolcemente - per quanto un uomo
di
quel tipo potesse essere dolce - accarezzandole i capelli e facendola
sorridere
"Grazie, papà." lui sorrise ancora debolmente,
dopodiché
si girò verso di me, lanciandomi un'altra occhiata di fuoco
"Sugar, tesoro, perché non mostri al nostro ospite la casa?
Sono
sicuro che troverà molto interessanti la nostra stanza delle
armi e quella dedicata alle imbalsamazioni. Io nel frattempo faccio due
telefonate."
La stanza delle armi?...
"Oddio sì... vieni, Artie... un giro della casa è
d'obbligo!" esclamò elettrizzata lei, completamente ignara
del
tono minaccioso con cui il padre si era rivolto a me e perfino di quel
ghigno malvagio con cui mi stava scrutando in quel momento. Voleva
farmi vedere come imbalsamavano i cadaveri e lei sembrava non vedere
l'ora. Ma dove diavolo ero capitato?
New
York City. Ore 01.00 P.M. 12 Luglio 2009 (Domenica)
Circa un paio di ore più tardi ci ritrovammo tutti e tre -
ma la
madre che fine aveva fatto? - seduti al tavolo di un'altra sontuosa
stanza del palazzo - di cui avevo contato approssimativamente
cinquantasei camere e ben quattro scalinate e perfino un ascensore,
maledizione! - e la situazione non era affatto migliorata, anzi. Al
Motta continuava ad approfittare di ogni momento per scrutarmi
attentamente e ogni volta io perdevo un po' di dignità e un
po'
di fermezza. Iniziavo seriamente a pensare che mancasse davvero poco
prima di alzarmi e scappare da quella casa a gambe levate.
"Dunque, Artie... cosa fai nella vita per mantenerti?" mi
domandò, mentre un cameriere serviva un antipasto.
"Lavoro a teatro. Dirigo un piccolo gruppo di attori che..."
"A Broadway?" domandò sorpreso ed io mi ritrovai
scioccamente a ridacchiare.
Pessima mossa, Artie..
davvero pessima...
"No, certo che no! Me li sogno gli sfarzi e le luci di Broadway. Per il
momento mi... limito a lavorare in un piccolo teatro nel Queens."
spiegai, arrossendo sotto il suo sguardo severo. Non doveva aver
affatto apprezzato quel mio tentativo di ironia
"Se ci si accontenta delle cose piccole.. non si avrà mai
speranza di crescere!" sentenziò bruscamente, facendo segno
al
cameriere di versargli un po' d'acqua. Merda... questa me l'ero davvero
cercata!
"Certamente! E infatti io... conto di lasciare la compagnia a breve per
poter fare... altro." spiegai con calma, mentre lo stomaco mi si
chiudeva per ripicca e perfino osservare distrattamente la bresaola
finemente affettata che riposava nel mio piatto, mi infastidiva. La sua
espressione si fece interessata
"Ah bene... e in cosa consisterebbe questo.. altro?"
azzardò,
mettendomi decisamente alla prova. Bene.. era arrivato il momento per
mettere tutte le carte in tavola e svelare l'esatto motivo per cui
eravamo lì per parlare con lui? Non potevamo prima goderci
in
santa pace il pranzo e poi magari discutere di queste cose?
"Coraggio, papà... smettila di importunarlo. Mangiamo prima
e
poi sarai libero di farci qualsiasi domanda tu voglia." lo
pregò
Sugar afferrandogli una mano e facendosi implorante. Era ora che mi
salvasse! Cosa stava aspettando? Che il padre prendesse il coltello per
il formaggio e mi affettasse un braccio? Lui fece una smorfia ma alla
fine lasciò perdere quel discorso - almeno temporaneamente -
e
si concentrò sul suo piatto. Io, dopo un lungo sospiro
afferrai
una forchetta a caso tra le cinque che avevo alla mia destra e iniziai
a mandare giù cibo, senza sentirne minimamente il sapore.
Distrattamente diedi peso alla conversazione che padre e figlia
intavolarono poco dopo, riuscii a sentire soltanto qualcosa riguardante
un ballo di beneficenza ed un re che doveva venire la settimana
successiva dall'Europa. Ero troppo impegnato a prestare la mia
attenzione al ricamo sulla tovaglia per credere davvero di seguire
ciò che si stessero dicendo. E poi... magari ascoltando,
avrei
infastidito il padrone di casa e siccome il nostro era già
un
rapporto precario ben lontano dal diventare qualcosa di relativamente
cordiale... era meglio starmene buono nel mio silenzio. Questo
finché le mie orecchie allenate non captarono un discorso
particolare
"Il figlio del dottor Flynn chiede ancora di te. Ogni volta che ci
incontriamo al circolo non fa che bombardarmi di domande... si
è
preso davvero una bella sbandata!" esclamò, quasi
soddisfatto
lui. Sugar ridacchiò
"Steven è un caro ragazzo... ricordo ancora quando da
piccoli,
lui accompagnava il padre qui per giocare a poker e si nascondeva
costantemente dietro il divano perché si vergognava a
giocare da
solo con me!" mormorò divertita
"Adesso è cresciuto e sinceramente non credo provi
più
imbarazzo nello starti accanto, anzi, ne sarebbe lusingato. Ed io penso
che sarebbe un ottimo compagno per te." affermò convinto,
calcando volutamente la voce sulla parte finale, per permettermi di
sentire meglio, e vergognarmi un po' di più
"Lo penso anche io." fece Sugar mentre un sorriso dolce le increspava
le labbra
Ah bene... a quando le
nozze?...
Stavo giusto per infastidirmi seriamente, ero sul punto di sbloccare le
ruote della mia sedia e allontanarmi da quel tavolo, quella casa, quel
maledetto uomo arrogante, convinto del fatto che, neanche se avessi
fatto rovesciare tutte le statue della casa, qualcuno si sarebbe
accorto della mia assenza, ma proprio in quel momento, Sugar
riuscì a salvare la situazione: si girò verso di
me e mi
sorrise
"Solo che al momento il mio cuore è già
impegnato!"
esclamò con un sospiro sorridente, riuscendo a strappare un
mezzo sorriso anche a me, ed era il primo da quella mattina. Lo sapevo.
Lo sapevo che prima o poi l'avrebbe detto ad alta voce e lo aveva fatto
davanti a suo padre.
Steven... prendi e porta
a casa!...
"E chi sarebbe il fortunato?" domandò il padre,
probabilmente
non cogliendo il collegamento, o molto più probabilmente,
non
volendo coglierlo
"Papà... sto parlando di Artie ovviamente!" fece lei, quasi
indignata, indicandomi. Per l'ennesima volta gli occhi di quell'uomo si
fecero cattivi e si posarono su di me, facendomi bloccare il respiro.
Bene, ora sì che sarei morto e imbalsamato. O forse sarei
stato
prima imbalsamato e poi sarei morto.
"Oh... bene." mormorò lui indurendo la mascella e facendo un
segno sprezzante verso il povero cameriere, invitandolo a portare i
secondi piatti. In quel momento mi scrutò ancora, con un
odio
forse addirittura peggiore: ormai sapeva che tipo di legame corresse
tra me e la sua bambina, e quindi ero entrato di diritto nella pole
position dei suoi nemici. Forse mi sarei potuto salvare se avessi avuto
un lavoro milionario o se di cognome avessi fatto Gates... ma visto che
ero un semplice, umile e disabile Artie Abrams... no, non ero
decisamente adatto a ricoprire il ruolo di genero per lui.
"Siamo così felici, papà. Non vediamo l'ora di
ufficializzare la cosa anche con il resto della famiglia."
continuò Sugar imperterrita, ignara di cosa stesse
succedendo
nella testa di sua padre, benché gli si leggesse tutto a
lettere
cubitali sulla faccia. Tentai un mezzo sorriso, spaventato e tremante,
mentre il cameriere mi riempiva silenziosamente il piatto di
selvaggina. Cazzo, e se quella che avevo davanti fosse stata la testa
dell'ultimo ragazzo che si era presentato in quella casa?
"Da quanto tempo è che va avanti questa cosa?"
domandò
infastidito e duro, più che altro rivolto a me, sfidandomi
per
l'ennesima volta. Sembrava fossimo due combattenti in un duello,
peccato che tra i due, quello ad avere una stanza delle armi
lì
dentro, non fossi io.
"Poco in realtà... ci stiamo ancora... conoscendo!" tentai
di
tamponare, con un sorriso forzato. Ma ovviamente, per quanto mi avesse
salvato già una volta, Sugar volle rettificare
"Ci siamo conosciuti sei mesi fa e da quasi tre settimane viviamo
insieme. Non è meraviglioso?" domandò elettrica.
Il volto
del padre si indurì maggiormente
Ma cazzo.. vuoi dirgli
anche quante volte facciamo sesso, per caso?...
"Addirittura vivere.. insieme." mormorò lui affettando la
sua
carne e non perdendomi di vista neanche per un istante. Il mio stomaco
si contorse proprio in quel momento e mi sentii seriamente prossimo a
rimettere tutto quello che avevo mangiato fino ad allora, perfino
quello del giorno prima.
"Sì... ehm... ma non è... cioè lo
facciamo per..
risparmiare.." tentai di salvare il salvabile, peccato che forse stando
zitto avrei ottenuto qualcosa di più
"Risparmiare? Mia figlia non ha alcun bisogno di risparmiare. Ha libero
accesso ad ognuno dei fondi di questa famiglia e senza dubbio non deve
ridursi a dividere l'appartamento con... qualcun altro per vivere."
sbottò sprezzante, facendomi rimpicciolire sulla mia sedia.
Cazzo, andavamo di male in peggio.
"Ma papà.. io l'ho fatto per lui.. per stare insieme. Non ho
bisogno dei soldi di famiglia per essere felice, lo sai." intervenne
Sugar desolata, preoccupandosi di più di giustificarsi
davanti
al suo adorato papà che di difendere il suo ragazzo
martoriato
ed umiliato. Al Motta sospirò e scosse la testa. Era sul
punto
di dire qualcos'altro, magari mi avrebbe finalmente sbattuto fuori di
casa - e a quel punto iniziavo seriamente a sperarlo - ma Sugar decise
che era giunto il momento di rovinare definitivamente il pranzo,
mettendo sul piatto il reale motivo per cui eravamo andati
lì.
"Anche se, in effetti... una cosa che potresti fare per me ci sarebbe."
iniziò, sorridendo già profondamente
elettrizzata. Il
padre, felice di cambiare discorso - o almeno per quello che ne sapeva
- tornò a guardarla
"Certo, bambina mia.. tutto quello che vuoi!" acconsentii
"Ecco vedi... io e Artie è un po' di tempo che.. avremmo
un'idea
in mente. Un progetto da realizzare. Ma avremmo bisogno del tuo aiuto
per farlo." annunciò. Le sopracciglia dell'uomo saettarono
verso
l'alto, sorprese
"Che tipo di progetto?" domandò, lanciandomi un'altra
occhiataccia
Stia tranquillo... non
ho messo incinta sua figlia e non le ho chiesto di sposarmi...
"Una casa discografica!" esclamò infine lei, non riuscendo a
contenere la gioia e saltellando appena sulla sedia. Il padre la
guardò attentamente per quella che sembrò una
vera
eternità, senza aprire bocca e senza dare il minimo cenno di
aver capito o di essere ancora vivo. Era un segno positivo, no?
"Una casa discografica?" domandò atono
"Sì... Artie ha delle capacità direttoriali
straordinarie
ma soprattutto è un ottimo intenditore di musica e sarebbe
perfetto come scopritore di talenti o come manager musicale. Io invece
potrei occuparmi della parte amministrativa.. mi dici sempre che sono
brava con i calcoli e con la gestione delle imprese di famiglia
quindi... meglio approfittarne, no?" e ridacchiò, quasi
divertita dalla sua stessa idea. Oh merda... quando ne avevamo parlato
per la prima volta, sul divano del nostro - del mio! - salotto, mi era
sembrava l'idea più geniale di sempre, una di quelle
illuminazioni che vengono solo una volta nella vita e con cui speri di
farla cambiare per sempre. Eravamo carichi di entusiasmo, avevamo
immaginato perfino in che quartiere poter aprire la nostra agenzia e su
un blocco per gli appunti avevamo iniziato a scrivere qualche bozza per
il nome. Per i soldi lei non aveva voluto sentire ragioni: non dovevamo
assolutamente chiedere alcun prestito a nessuna banca,
perché ci
avrebbe pensato suo padre a pagare ogni cosa. E forse, con il senno di
poi, era stata proprio questa decisione a rovinare tutto, fin
dall'inizio.
"E questa... idea... di chi sarebbe?" domandò ancora,
indugiando
appena su di me. Nel suo immaginario la risposta era già
stata
data
"Di entrambi... cioè... sarebbe un sogno di Artie
però io
sarei più che felice di prendere parte e realizzarlo assieme
a
lui." rispose lei cercando il mio sguardo e magari il mio sostegno;
peccato che in quella situazione, messo alle strette dallo sguardo
assassino di suo padre, fossi io ad averne bisogno. E quella frase fu
la conferma che ad Al Motta serviva. Sul suo viso si dipinse un ghigno,
una specie di smorfia che a prima vista poteva benissimo essere
scambiata per un sorriso ma che, osservata bene e soprattutto capita,
valeva molto di più e non era nulla di raccomandabile.
"Il sogno di Artie." ripeté lui, quasi in un sussurro,
annodando
le mani sotto il mento e continuando ad osservarmi. Cazzo, ma che
diavolo voleva da me quell'idiota? Perché continuava a
fissarmi
e a mettermi tanto in soggezione? Gli avevano mai insegnato, nelle
prestigiose accademie che senza dubbio aveva frequentato, che fissare
la gente in quel modo, fosse sintomo di maleducazione? E soprattutto...
possibile ci stesse provando.. gusto?
Perché non me
ne sono rimasto a casa, oggi? Davano un episodio speciale di X Factor...
"Allora, papà, cosa ne pensi? Ti piace la nostra idea?"
domandò Sugar afferrando di nuovo la mano del padre e
sciogliendola dall'incrocio che ancora gli sosteneva il mento. Lui si
addolcì appena. Se c'era una cosa che rendeva Al Motta
più umano... era sicuramente l'amore che provava verso sua
figlia. Quello almeno era palese e soprattutto naturale.
"Sembra davvero molto.. interessante, piccola. Mi chiedo solo se...
pensi che sia un buon investimento?" le domandò, facendosi
pratico e professionale
"Ma certo. La musica non passerà mai di moda,
papà..
anche se le tecnologie andranno avanti e un domani saremo costretti a
teletrasportarci per andare a lavoro... ci sarà sempre
qualcuno
con una bella voce e del talento che sarà disposto a fare
carte
false pur di sfondare e allora lì.. interverremo noi. Dico
bene,
Artie?" e mi interpellò, sorridendo ancora piena di
entusiasmo.
Tremai sulla mia sedia sia per essere stato messo in mezzo senza
neanche aspettarmelo - ero convinto che avessero continuato ad
ignorarmi per tutta la durata del pranzo - sia per gli occhi di suo
padre - ignorali, ignorali, ignorali - che lampeggiarono su di me.
"C-certo." confermai con mezza smorfia, ma a lei bastò come
un
sorriso. Certo, l'idea generale del nostro progetto era proprio quella:
recuperare talenti sconosciuti e dare loro quella
possibilità
che, grandi case discografiche sparse nel paese e già
ampiamente
affermate, non darebbero mai. Saremmo stati i salvatori di tutti quelli
che avevano ricevuto porte in faccia e lo avremmo fatto sempre con il
sorriso sulle labbra e la grande passione per la musica che ero
convinto ci accomunasse. Peccato che avessi ampiamente fatto i conti
senza l'oste.
"D'accordo allora. Se è questo quello che vuoi!" acconsentii
infine l'uomo pragmatico e pieno di soldi, dandoci il suo lasciapassare
verso un illimitato bagaglio di risorse economiche, di cui non avevo
neanche una vaga idea dell'ammontare. Sapevo solo che erano tanti
soldi... tanti, tantissimi soldi.
Sugar emise un lungo urlo di gioia e si precipitò ad
abbracciare
il padre, ignorando il suo piatto ancora pieno e il buon galateo della
tavola. E mi sorprese non poco il fatto che un uomo tanto rigido e
preciso non glielo facesse notare ma invece allargasse le braccia per
accoglierla e la stringesse forte a sé. Visti da fuori
facevano
quasi tenerezza: un abbraccio così sentito e reale, un
abbraccio
di gioia, soddisfazione, che sapeva di tanti grazie e di altrettanti mi
fido di te. E fin qui tutto bene, se solo non fosse stato per
l'occhiata di sbieco che, nonostante il momento tenero, Al Motta
riuscì a scoccarmi.
Oh...
"Frena l'entusiasmo, principessa. Avrai modo di ringraziarmi in futuro.
Ora, però, finiamo di mangiare. Dopo con calma, parleremo
meglio
di questa faccenda, anche perché voglio sentire le opinioni
del
nostro.. amico a riguardo." e mi indicò con un cenno ed un
sorriso tirato "Dico bene, Artie?"
Dice bene, Artie?...
"S-sì, Signore!" e come un soldato che ha appena risposto ad
un
ordine superiore, mi sentii piccolo e misero e mi ritrovai ad abbassare
gli occhi sul mio piatto. Di nuovo.
New
York City. Ore 03.05 P.M. 12 Luglio 2009 (Domenica)
Sapevo che sarebbe successo. Fin da quando Sugar mi aveva allegramente
proposto quel pranzo a casa sua per conoscere suo padre, sapevo e
sinceramente temevo che saremmo arrivati a quel punto. Io e suo padre,
ancora nella stessa stanza, a pochi metri di distanza e, soprattutto,
soli.
La miseria ladra...
Stavo morendo, letteralmente. Sentivo caldo, e nonostante mi fossi
già discretamente sbottonato i primi due bottoni della
camicia,
non riuscivo neppure a respirare. Colpa di quegli occhi, di quei
maledettissimi occhi che continuavano a torturarmi e ad uccidermi
lentamente, privandomi di ogni difesa e facendomi sentire
così
stupido ed esposto. Doveva essere una tecnica la sua, un modo come un
altro per tenere sotto controllo i suoi avversari.. d'altronde anche
portare l'altro allo sfinimento, poteva risultare una buona tecnica per
vincere e lui stava decisamente per avere la meglio su di me. Ero
sempre stato un ragazzo dal carattere abbastanza forte e neppure
l'incidente era riuscito ad affliggermi; avevo reagito e avevo
continuato a combattere prendendo quell'evento come un ostacolo sul mio
cammino da superare, per arrivare in vetta. Eppure Al Motta in quel
momento mi sembrava nettamente più preoccupante e spaventoso
e
neanche la più forte delle volontà mi avrebbe
aiutato.
Dopo un'infinità di tempo passato semplicemente a guardarmi
e a
fare ondeggiare il suo prezioso digestivo nel bicchiere da whisky,
finalmente mi rivolse la parola
"Hai mai giocato a poker, Artie?" mi domandò, spiazzandomi
Eh?...
Poker? Che diavolo voleva significare? Voleva invitarmi nella sua bisca
per caso?
"No, Signore." risposi un po' confuso, ma provando a rimanere tranquillo
"É un vero peccato." mormorò, fingendosi afflitto
e
facendo ondeggiare ancora una volta il contenuto del suo bicchiere
"Capiresti tante cose del tuo avversario se solo sapessi come...
osservare le sue mosse." mi spiegò allora. E dunque era
questo
quello che aveva fatto per tutto il tempo? Aveva osservato le mie
mosse, come se stessimo partecipando ad una partita di poker? Aveva
anche puntato su di me?
In quel momento decisi di tentare il tutto per tutto, di provare a
scoprire le mie carte e sperare di ottenere il punteggio più
alto sul tavolo verde
"E se posso permettermi... cosa ha capito di me, osservando le mie
mosse?" azzardai a chiedere, mentre avvertivo un'insolita scarica di
adrenalina corrermi lungo tutta la schiena. Ero rimasto in silenzio fin
troppo a lungo quel giorno e difficilmente ora sarei riuscito a
fermarmi. Ero stanco di essere analizzato in quel modo, svilito con la
potenza di un solo sguardo e soprattutto... chi cazzo si credeva di
essere quell'uomo per potermi parlare in quel tono così
arrogante? Soltanto perché il suo conto in banca era tanto
ingente ciò non lo giustificava né lo esonerava
dalle
buone maniere. Ero umano anche io e non credevo di avergli fatto
chissà quale torto e per questo motivo esigevo rispetto. Lo
stesso tipo di rispetto che anche io gli avevo dimostrato da quando
avevo messo le ruote nel suo prezioso ingresso.
Lui si fece sorpreso, ma apprezzò notevolmente la mia domanda
"Sono sincero... non molto in realtà. Ammetto di aver
trovato
un.. degno avversario!" mormorò con un mezzo sorriso
seccato.
Accavallò le gambe, posò il bicchiere sul
tavolino di
cristallo al suo fianco e alla fine, fissando gli occhi nei miei, mi
diede il suo verdetto
"Non ho ancora ben capito che tipo di rapporto ti leghi a mia figlia,
ma di qualsiasi natura esso sia, credimi ragazzo... farò di
tutto affinché risulti un vero inferno." e lo disse con tale
naturalezza, tale freddezza e tale precisione da farmi doppiamente
male. Un inferno. Il mio rapporto con Sugar sarebbe stato un inferno. E
questo solo perché a suo padre non andavo a genio.
"Io non credo che lei possa..." tentai, guidato dall'ennesimo sprazzo
di adrenalina mista a coraggio e a quel briciolo di incoscienza che
sbucava all'improvviso sempre nei casi peggiori
"Posso eccome. Sugar è mia
figlia, quelli che voi userete per il vostro insulso ed immondo
progetto sono i miei
soldi, quindi credimi, caro il mio Artie Abrams... io posso!"
sentenziò duro, facendomi paura. Si alzò dal suo
divano e
in meno di due passi mi raggiunse, sovrastandomi di netto nel suo metro
e novanta
"L'ho capito, sai? Ho capito esattamente quali sono le tue intenzioni
con mia figlia. Vuoi raggirarla, vuoi riempirla di tante belle parole,
vuoi farle credere che costruire un progetto tanto ambizioso possa
legarvi per sempre e speri ovviamente che lei, avendo un cuore d'oro,
possa crederci, che possa starsene buona buona al tuo fianco mentre tu
sperperi con calma i suoi.. i nostri
soldi. Ebbene, amico mio... non te lo permetterò."
annunciò in un lungo e terrificante sibilo concentrato, che
mi
fece venire la pelle d'oca. In quel momento si abbassò su di
me
e posò le sue minacciose mani sui braccioli della mia sedia,
facendomi appiattire contro lo schienale e trattenere il fiato. E in
quel momento, mentre sentivo di avere realmente paura, più
di
quanta non ne avessi mai avuta in ventisei anni della mia vita,
arrivò la botta finale
"Diventerò
il tuo
peggiore incubo, sarò lì ad osservare ognuna
delle tue
fottute mosse e non appena compirai il passo falso.. io
verrò a
casa tua e ti ucciderò con le mie stesse mani. E allora
capirai
sulla tua pelle come mai non c'è nessuno in questa
città
pronto a parlare bene di Al Motta. Sono stato chiaro, ragazzino?"
domandò, alitandomi sul viso, in un misto di alcool e
terrore
allo stato puro. Non avevo permesso mai a nessuno di avvicinarsi tanto
a me, prima di tutto perché mai nessuno aveva osato mettersi
contro un ragazzo disabile e poi... beh, per mia fortuna non capitava
spesso di mettersi in tali guai. Eppure qualcosa era successa,
altrimenti non si spiegava come mai fossi lì, a meno di
cinque
centimetri dalla faccia dura e crudele di un uomo, che mi aveva appena
minacciato di morte.
Solo allora mi resi conto del fatto che, in tutta quella serie di
minacce, ci avesse messo anche una domanda, e fu lui stesso a
ricordarmelo
"Ho detto... sono stato chiaro?" ripeté avvicinandosi ancora
di
più e facendosi più duro. Ingoiai a vuoto
qualcosa e
tremai ancora
"Sì..."
"Non ho sentito."
"Sì!" gridai allora, sperando di liberarmi in fretta di
quella
situazione, perché non riuscivo più neanche a
respirare.
Ad essere paralizzati avevo già fatto l'abitudine ma, la
paralisi fisica non aveva niente a che vedere con quella emotiva.
Quella era più forte, più avvolgente,
più
destabilizzante e faceva nettamente più paura.
"Bene. Ora, ascolta quello che faremo: io concederò a te e a
mia
figlia i soldi per questa casa discografica. Lo faccio per lei,
perché ne sembra entusiasta e perché qualsiasi
cosa la
renda felice, riesce a fare felice anche me. Dopodiché tu
inizierai gradualmente ad allontanarti dalla sua vita. Non mi interessa
come, anche fingendoti frocio se è necessario...
l'importante
è che lo fai con molta discrezione e senza fare soffrire la
mia
bambina, anche perché conosci già le conseguenze,
nel
caso in cui Sugar dovesse farsi del male." minacciò ancora,
non
scostandosi di un millimetro da me e conficcando la lama a fondo, fin
dentro le ossa.
"Una volta che i vostri rapporti si saranno completamente raffreddati,
io convincerò Sugar a lasciarti ogni
responsabilità
sull'agenzia e a tornare da me. Tu in compenso avrai pieno possesso
della casa discografica e potrai ritenerti completamente soddisfatto.
Alla fine tutti ne usciamo vincitori, dico bene Artie?" mi
domandò con mezzo sorriso, a tratti sadico e a tratti
assurdamente gentile. Ma cos'era quell'uomo? Cosa mi stava facendo? E
perché io non reagivo? Perché mi sentivo
schiacciato dal
peso del suo sguardo, della sua voce, delle sue minacce, del suo
maledetto potere? Cosa mi impediva di spingerlo via, mandare al diavolo
tutti - Sugar compresa, visto che non si decideva a tornare, visto che
ignorava quanto subdolo potesse essere suo padre, visto che era stata
lei a trascinarmi lì - e tornarmene a casa? In fondo la mia
routine andava più che bene, nonostante fossi
particolarmente
stanco di dover sprecare il mio tempo con incarichi di poco conto.
Avevo bisogno di realizzarmi e fare bene qualcosa e forse l'idea della
casa discografica era la prima, dopo tanto tempo, a darmi un po' di
speranza. Ma ormai, perfino quella, era macchiata di tinte buie, che
facevano paura.
Tu ne uscirai vincitore,
Al.. soltanto tu... io rimarrò solo un involucro alla fine
della partita...
In quel momento, forse per ironia del destino o forse perché
era
tutto scritto per andarmi contro, entrò Sugar, interrompendo
il
nostro tetro siparietto. Ad Al Motta ci volle relativamente poco per
sollevarsi e rivolgere un sorriso mite alla figlia - che neanche a
dirlo non si accorse di nulla - mentre io... beh... se non avessi avuto
la mia sedia ancorata sotto il culo, probabilmente sarei precipitato al
suolo.
"Avete finito di confabulare alle mie spalle? Cosa vi state dicendo di
così importante?" domandò, saltellando verso di
noi, e
rivolgendo ad entrambi un sorriso radioso. Giusto, lei quel giorno
aveva vinto la sua battaglia. Io invece, ero morto, senza neanche
combattere.
"Niente di importante, piccola. Io ed Artie stavamo ripassando un po'
le regole fondamentali del poker. Sono convinto che dopo oggi, le
terrà sempre a mente... dico bene?" e mi sfidò
ancora, in
uno sguardo che sapeva molto di avvertimento. Io non riuscii neanche a
rispondere. Ero senza parole né fiato né tanto
meno
pensieri. Era tutto un immenso foglio bianco. Incolore. Insapore.
Morto. Mi accorsi a stento delle braccia di Sugar che si legavano
attorno al mio collo e delle sue labbra sulle mie e di quelle tre
maledetti parole che, da quel momento in poi, sarebbero diventate il
mio peggiore incubo notturno.
"Ti amo, Artie!"
New
York City. 09.58 A.M. 05 Maggio 2012 (Sabato)
Quel giorno, a distanza di quasi tre anni da quella maledetta Domenica,
ricordavo ancora perfettamente ognuna delle parole minacciose di Al
Motta e tutti i suoi lineamenti duri, benché, dopo quel
giorno,
non lo avessi mai più visto, per mia fortuna. Era bastata
una
sola giornata per rendermi conto di tante cose: del fatto che io con
quella famiglia non avrei mai avuto nulla a che fare, di quanto poco
bastasse ad un uomo per terrorizzarne un altro, di quanto poco bastasse
a me per farmi sentire debole ed insicuro. Da quel giorno erano
cambiate lentamente tante cose, ma prima di tutto ero cambiato io.
Quell'Artie paziente e tranquillo non esisteva più; al suo
posto
era nato una sorta di alter ego, una sorta di macchina priva di ogni
tipo di sentimento, concepita solo per lavorare e fare soldi e fino ad
allora, a scanso di equivoci, aveva sempre funzionato. Mi sentivo male
ogni qualvolta mi fermavo a riflettere su quello che era stato e su
quello che ero diventato, ma ogni azione ha una sua reazione uguale o
contraria: nel mio caso ero stato perfino schiacciato dalle mie stesse
decisioni.
Forse soltanto in quell'ultimo periodo, con la conoscenza di Blaine, la
ripresa delle attività della casa discografica e
l'appianarsi
dei conflitti - che io stesso avevo creato - con i miei condomini, le
cose sembravano girare in un modo migliore. Sentivo ancora di non
essere pronto a perdonare per quello che era successo, o per impegnarmi
in una nuova relazione, di qualsiasi tipo essa fosse stata,
però.. almeno iniziavo a fare affidamento su qualcuno dopo
tanto
tempo. Io lo consideravo già un grande passo in avanti.
"Sai, Artie.. c'è una cosa che non ho mai capito."
annunciò ad un certo punto Sugar alle mie spalle, mentre io
scendevo dalla rampa con calma ed attenzione per non cadere
"Cosa?" non c'era la minima curiosità nella mia voce, solo
la voglia di sbatterla fuori da lì, il prima possibile
"Cosa ci è successo esattamente? Perché non siamo
riusciti a portare avanti la nostra storia? Mi era sembrata...
così bella ed importante eppure... si è
disintegrato
tutto... e adesso non riusciamo neanche più a stare nella
stessa
stanza senza.. guardarci male o scambiarci delle pessime battute.
Perché, nonostante la nostra storia sia finita non riusciamo
ugualmente ad essere amici?" domandò, facendosi esitante e
perdendo un po' di quell'arroganza con cui era entrata poco prima.
Bloccai la mia discesa a metà, fremendo nel sentire quelle
parole. La spiegazione c'era, ce l'avevo sulla punta della lingua ed
era anche pronta a venire fuori se solo non fosse stato troppo
complicato e forse anche troppo stupido dirlo, dopo quasi tre anni.
Così mi limitai a sorridere amaramente e a tirare fuori la
scusa
con cui in quegli anni avevo cercato di guarire le mie stesse ferite,
sperando di appianare il dolore che una sola Domenica di Luglio era
stata capace di creare.
"La verità è che io e te siamo troppo diversi,
Sugar. Lo
siamo sempre stati e continuiamo ad esserlo, soprattutto ora. Era
impossibile che due come noi potessero ottenere qualcosa di diverso
rispetto a.. questo!" ed indicai la sala registrazioni, finalmente
girandomi a guardarla. Sul suo viso per un momento era scomparsa la
smorfia infastidita e superiore e si era affacciata una piccola parte
di quella Sugar dolce e solare e un po' bambina di cui mi ero
innamorato. E forse amavo ancora.
"Quindi non possiamo essere altro che due... soci? É questo
che
mi stai dicendo?" domandò in un sussurro amareggiato. Provai
a
mandare giù un nodo opprimente che spingeva per uscire, un
nodo
che mi teneva sospeso da troppo tempo e che prima o poi sarebbe
esploso. Ma quello non era né il luogo né tanto
meno il
momento opportuno.
"Direi di no." risposi scuotendo la testa, per poi ricordare qualcosa e
sorridere, ancora in maniera troppo amara "Fai conto che da questa
situazione... ne usciamo vincitori entrambi." e mi girai, lasciandola
lì a rimuginare su quella frase, chiedendomi se anche a lei
avesse fatto lo stesso amaro effetto che aveva fatto a me tre anni
prima. E solo allora, lontano dai suoi occhi, per l'ennesima volta
solo, mi concessi l'unico grande lusso che la mia vita ingiusta ancora
mi regalava: piangere.
|