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Autore: Dreamer91    07/01/2013    3 recensioni
E se il destino avesse voluto che in una città tanto grande come New York, due ragazzi dalle vite completamente diverse, finissero con l'abitare a meno di tre metri di distanza... sullo stesso pianerottolo?
Dal Capitolo uno:
"Stai scherzando spero!" mormorai
"Perché scusa? Non ci sono topi né prostitute per strada... per quanto riguarda i vicini non so... non li ho interrogati... però..."
"Sebastian!" lo bloccai passandomi una mano sul viso "Lower East Side... sul serio?"
"Non ti seguo, B..." mi fece visibilmente confuso slacciandosi la cintura
"Bastian dovrò vendermi un rene per pagarmi l'affitto... e quando avrò terminato gli organi, mi toccherà scendere in strada e fare compagnia a quelle famose prostitute per andare avanti!" gli spiegai concitato.
(...)
"Non fare l'esagerato Blaine... questa volta penso di aver trovato il posto giusto per te! Coraggio, scendi che te lo mostro!" mi incitò scendendo dall'auto e raggiungendomi sul marciapiede
"Anche l'ultima volta lo pensavi, Seb... e siamo dovuti scappare a gambe levate da un travestito in minigonna e tacchi a spillo!" gli ricordai lanciando un'occhiata al palazzo color porpora - innocuo e all'apparenza rispettabile - che si stagliava per ben quattro piani davanti a noi.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Just a Landing'
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Buona sera a tutti e benvenuti al primo dei nove epiloghi di Just a Landing ^^ dunque, contro ogni aspettativa quello che era partito come uno degli epiloghi più difficili da scrivere, si è dimostrato abbastanza.. naturale diciamo. Il segreto è iniziare a scrivere, pensare a voi e tutto viene più facile ;) un paio di cose prima di lasciarvi alla lettura: la prima sarebbe una sorta di spiegazione, questi nove epiloghi (uno per ogni coppia!) servono a spiegare cosa è effettivamente successo ai nostri personaggi, una volta messa la parola fine alla storia; in parte qualcosa è stata anticipata già nell'ultimo capitolo (per questo ho deciso di dividerlo in tante sezioni, ognuna per ogni coppia) e ovviamente tutte seguiranno il 04 Maggio 2012 (tranne alcuni casi di flashback, che verranno però specificati con le date!) che poi è il giorno della festa a casa di Blaine. Come ho detto sono nove e per non creare nessun tipo di disparità, ho deciso di farli in ordine alfabetico, partendo da Artie e concludendo con la Wemma, anche se l'ultimo epilogo sarà ovviamente Klaine (quindi otto in ordine alfabetico e la Klaine per ultima!). Bene, detto questo, vi ringrazio ancora una volta (perché non ne avrò mai abbastanza) per il sostegno, per le parole bellissime, perché ci siete ancora nonostante tutto e soprattutto per esservi innamorati così tanto di JaL, sentendola vostra e facendo sentire me speciale.. just thanks <3 ci vediamo la prossima settimana con l'epilogo Brittana. Un bacio a tutti e ricordatevi che vi amo
n.b. Pagina Fb (Dreamer91 ) Raccolta (Just a Landing - Missing Moments )

Epilogo n°1

- La partita a Poker -

Artie Abrams

New York City. Ore 09.45 A.M. 05 Maggio 2012 (Sabato)

Lavorare di Sabato non era mai stato un grosso peso per me e poi, sinceramente, non avrebbe fatto neanche tanta differenza. D'altronde, l'alternativa sarebbe stata quella di rimanere segregato in casa, magari a sfogliare vecchi spartiti di un pianoforte a coda che non sarei mai più riuscito a suonare oppure mi sarei fatto deprimere con i miei assillanti pensieri. Sì, lavorare per me non era decisamente un problema.
Poi ultimamente avevo trovato un valido motivo per farlo, e quel motivo si chiamava Blaine Anderson: era un ragazzo molto estroverso e carismatico, particolarmente entusiasta verso ogni tipo di novità ma soprattutto non sembrava uno che facilmente si sarebbe arreso. E poi... beh, aveva talento, molto talento, e questo di certo non avrebbe guastato. Sarei stato disposto ad investire in prima persona su di lui e sulla sua voce perché ne ero convinto.. avrebbe fatto strada, senza alcun tipo di problema. Io me ne intendevo, certo. Avevo fatto i miei dannati errori in precedenza, ma... di musica ne capivo ancora qualcosa per fortuna.
E se non ci fosse stata la musica, molto spesso, a salvarmi...
"Quando Jason mi ha chiamata, dicendomi che eri qui... non gli ho creduto. Ammetto di essere piacevolmente sorpresa adesso!" una voce femminile alle mie spalle interruppe i miei pensieri e anche il mio lavoro, ma io non mi preoccupai neppure di girarmi per risponderle. Non ne avevo voglia né tanto meno lei se lo meritava. "Qual buon vento ti porta qui?" mi domandò, sbattendo i suoi preziosi tacchi firmati fino al piccolo soppalco sul quale mi trovavo. Un tempo quel rumore aveva annunciato per me qualcosa di meraviglioso; in quel momento provocava soltanto fastidio.
"Il mio lavoro!" esclamai secco, trattenendo un ringhio che stava per uscirmi dalla bocca. Lei schioccò le labbra, quasi infastidita
"Mi fa piacere che ogni tanto tu te ne ricordi ancora." mormorò acida

Ma pensa...
"Io me ne ricordo sempre!" puntualizzai, stringendo con forza la penna a sfera che avevo nella mano. Fece un altro verso strano, che sembrò molto una presa in giro, ma ancora riuscii a trattenermi.
Non ne vale la pena, Artie...
"Qualche nuovo grande talento degno di nota?" domandò qualche istante dopo, avanzando ancora e probabilmente fermandosi al mio fianco - riuscivo a scorgerne il profilo del cappotto - con la voce ironica, quasi tentasse di deridermi ancora, anche su quello.
"Vuoi farmi credere che adesso ti importa qualcosa di questa agenzia?" la provocai lasciando da parte la penna e i documenti che stavo revisionando per girarmi finalmente verso di lei. Era al mio fianco, fin troppo vicina, potevo perfino sentirne il profumo deciso ed intenso con il quale usava avvolgersi ogni volta prima di uscire. Ed era vestita in maniera impeccabile come sempre, con il suo tailleur bianco, il cappotto nero, taglio impermeabile, un foulard lilla al collo e probabilmente una quantità spropositata di gioielli addosso, dal valore inestimabile. Ed aveva quella sua aria da donna vissuta - pur avendo soltanto ventisei anni - altezzosa, egocentrica.. nonostante un tempo non fosse affatto così. Ed era bella... ai miei occhi rimaneva bella da togliere il fiato.
"A me è sempre importato... anche se continui a credere il contrario... chissà per quale motivo." affermò con sicurezza, socchiudendo appena gli occhi su di me. Mi scappò un mezzo sorriso amaro e mi mossi sulla mia sedia, fino al bordo del soppalco per imboccare la pedana.
"Già... chissà perché..."

New York City. Ore 10.45 A.M. 12 Luglio 2009 (Domenica)

Al Motta era un uomo che ispirava soldi. Molti soldi. Stando a quello che la gente vociferava, era uno che ci sapeva fare con gli investimenti e ad un po' di sana fortuna, probabilmente - stando sempre a quanto si diceva in giro - aveva aggiunto un po' di aiuti di altra natura. In pratica i suoi soldi non erano del tutto puliti ma... personalmente non badavo molto al giudizio della gente. Preferivo conoscerle le persone e poi magari dare la mia opinione.
"Pensi che gli piacerò? Cioè... credi che lui possa.. accettarmi?" domandai in ansia, mentre con difficoltà prestavo attenzione al panorama che scorreva indisturbato fuori dal finestrino. La sua risata riempì l'abitacolo armoniosamente, causandomi un mezzo brivido dietro il collo
"La smetti di farti tutti questi problemi? Gli piacerai, ne sono sicura. Mio padre è un tipo.. particolare, ma sa bene che, quando si tratta della mia felicità deve lasciarmi fare, senza intromettersi!" mi spiegò con calma, continuando a guidare la sua monovolume lungo l'autostrada. Mi lasciai scappare un lungo sospiro.
Non sapevo esattamente quanto Sugar avesse raccontato di me a suo padre né tanto meno cosa lui sapesse di noi: probabilmente sarei stato presentato come il suo ragazzo - e la cosa mi rendeva felice e allo stesso tempo mi terrorizzava - o forse come un semplice amico o probabilmente... sarei rimasto uno dei pazienti della clinica presso cui la figlia faceva volontariato occasionalmente. In tutti e tre i casi, la reazione di Al Motta era decisamente imprevedibile ed io avevo una strana ansia addosso, un'ansia che da qualche notte non mi faceva neppure dormire.
Sugar aveva tentato in ogni modo di tranquillizzarmi, mi aveva raccontato delle cose meravigliose su suo padre e mi aveva perfino detto che non vedeva l'ora che la sua famiglia mi accogliesse tra i ranghi, così da ufficializzare la nostra relazione ed io, spinto dal suo irresistibile entusiasmo, le avevo creduto ed avevo accettato di incontrare suo padre a pranzo quella Domenica, soprattutto per potergli parlare del nostro progetto, al quale speravamo potesse perfino contribuire finanziariamente.
Io e Sugar ci eravamo conosciuti circa sei mesi prima nella clinica privata presso cui facevo la fisioterapia per le gambe. Lei lavorava come volontaria e ci eravamo già incrociati nei corridoi un paio di volte prima di rivolgerci la parola: o meglio.. era stata lei a farlo. Si era avvicinata, mentre io ero impegnato a salire una delle rampe più ripide di tutta la clinica e mi aveva chiesto gentilmente se avessi bisogno di una mano. Io, che per principio non accettavo l'aiuto di nessuno, benché meno di quelle persone a cui facevo pena, mi ero preparato a rifiutare gentilmente ma alla fine, guardandola negli occhi e rimanendo appena abbagliato dal suo sorriso splendente, non ero riuscito a dirle di no e così era iniziata la nostra amicizia. Con il tempo, parlando soprattutto di me e del mio incidente, avevamo iniziato a vederci anche al di fuori della clinica, ad uscire assieme, a farci vedere in pubblico e lentamente la leggera attrazione che sentivo di provare nei suoi confronti si era trasformata, era cambiata, si era intensificata fino a sfociare in qualcosa di molto simile all'amore. Anche lei non sembrava del tutto indifferente a me e pian piano, dal parlare solo di me, avevamo iniziato a scherzare, a prenderci giocosamente in giro, ad abbracciarci, a sfiorarci casualmente, a baciarci di sfuggita fino a finire a letto assieme. Io l'amavo, l'amavo davvero, come non avevo mai fatto con nessun'altra prima e lei sembrava seriamente coinvolta, tanto che da qualche settimana si era perfino trasferita nel mio appartamento a Long Island e insieme avevamo iniziato a vivere la nostra piccola, buffa ma bellissima storia d'amore. Poi un giorno, parlando ancora dei nostri interessi, lei mi aveva chiesto cosa avessi voluto fare nella mia vita, se le mie gambe me l'avessero permesso ed era stato in quel momento che la mia mente aveva preso a fantasticare e in meno di pochi istanti, aveva partorito quell'idea, quella che sarebbe stata il mio più grande successo e allo stesso tempo la mia più grande rovina.
Quando io e lei ci eravamo conosciuti, ignoravo quanto potere potesse avere la sua famiglia o quanto terrore incutesse il nome di suo padre nella gente: sapevo solo che era ricca, anche perché lei non lo aveva mai nascosto e non se ne era mai vergognata, ma lo aveva sempre fatto con discrezione, senza ostentare troppo, senza tirarsela, senza esagerare ed io, pur avendo un conto in banca particolarmente rosso, non ero mai riuscito a sentirmi a disagio al suo fianco. Merito suo, merito mio, merito di quello che ci legava. Eppure, mentre nei nostri discorsi si concretizzava lentamente quell'idea alla quale io avevo accennato solo una volta, suo padre era diventato una specie di punto fermo, una garanzia alla quale saremmo dovuti ricorrere se avessimo voluto rendere quel sogno tanto ambito, una realtà. Ed era anche per quello che quel giorno eravamo in macchina, diretti verso la residenza estiva dei Motta ed io non riuscivo a stare fermo per quanto ero agitato.
E se non gli fossi piaciuto? E se la nostra idea non lo avesse entusiasmato? E se mi avesse sbattuto fuori di casa a calci? E se...
"Artie..." una voce gentile mi chiamò ed io riuscii a rendermi conto solo in quel momento di essere rimasto incantato a guardare il cruscotto dell'auto, a stringere con forza la pelle del sedile. Con un sospiro mi girai verso di lei e tremai appena sotto il suo sguardo amorevole e il suo sorriso gentile
"Stai tranquillo, ti prego. Andrà tutto bene, ne sono sicura. Tu sei fantastico, la nostra idea è fantastica e sono più che convinta che papà sarà entusiasta di aiutarci e soprattutto di conoscerti oggi. Gli ho parlato così tanto di te!" e sorrise ancora, fermando la macchina in un largo spiazzo circondato dagli alberi e spegnendo il motore. Terrorizzato all'idea di essere davvero troppo vicino a suo padre e alla prospettiva del fallimento, strinsi ancora più forte il sedile sotto di me e lanciai un'occhiata al palazzo - cazzo! - che svettava al di fuori del finestrino. Chiamarla casa sarebbe stato decisamente riduttivo: era una reggia, altissima ed imponente, contornata da un giardino a dir poco immenso e perfino il portone di ingresso urlava lusso, soldi e tutto ciò che io non mi sarei mai lontanamente potuto permettere.
Ecco, guarda bene, Artie.. pensi davvero di avere qualcosa a che fare con persone così?...
"Respira, per carità." sussurrò ancora la sua voce, mentre una carezza delicata si posava sulla mia guancia e per magia riacquistava la mia attenzione. Ingoiai un grosso fiotto di saliva che mi ostruiva la gola e mi impediva perfino di respirare e provai a fare ciò che mi aveva detto, anche se era davvero difficile.
In quel momento dal palazzo imperiale uscirono un paio di persone vestite di nero che, a passo deciso, vennero verso la macchina ed aprirono le nostre portiere
"Bentrovata, signorina Sugar!" la salutò educatamente uno dei due uomini, accennando un breve inchino
"Salve, Connor... papà è già in casa?" domandò lei, mentre sgusciava elegantemente fuori dall'auto
"Sì, signorina.. il signor Motta vi sta aspettando nel salone principale." spiegò accennando un altro inchino
Ma che cazzo... anche le riverenze adesso? Sono ricchi certo, mica dei reali!...
Seguendo la discussione tra i due, non mi resi neanche conto che l'altro uomo in divisa aveva raggiunto il cofano della macchina e ne aveva tirato fuori la mia sedia a rotelle, l'aveva aperta e l'aveva posizionata fuori dallo sportello.
"Signore?" mi chiamò allora ed io sobbalzai appena, sorpreso. Cosa voleva? Aiutarmi a sedermi lì sopra? Era il caso di fargli presente che purtroppo ci ero perfettamente abituato e che ci sarei riuscito anche da solo? Per non essere scortese e non iniziare quella giornata con il piede sbagliato, però, accettai il suo aiuto con un mezzo sorriso e mi lasciai prendere in braccio e depositare con gentilezza sulla sedia, ma proprio non ce la feci a sopportare il fatto che volesse perfino spingere la carrozzella.
"Non si preoccupi.. faccio da solo. Grazie!" lo rassicurai, sgusciando via, leggermente imbarazzato
Non sono malato, porca miseria...
Sugar in quel momento mi raggiunse ed insieme varcammo la soglia di casa Motta. L'interno era decisamente un altro paio di maniche: mi ero aspettato soffitti a volta, pilastri in avorio, scalinate in oro zecchino, ma quello che trovai fu dieci, cento, mille volte meglio; perfino il tappeto rasato che decorava il piccolo ingresso circolare aveva l'aria di costare più del mio stesso appartamento, per non parlare degli specchi e del lampadario scintillante che pendeva quasi fino a metà soffitto. Seguii con un certo imbarazzo Sugar lungo tutto il corridoio - un lunghissimo corridoio ricoperto di quadri prestigiosi che ad occhio parevano dei pezzi unici e soprattutto originali, ed eravamo ancora all'inizio - stando attento a non combinare danni, a non urtare nulla e maledicendomi per non essermi pulito le ruote prima di entrare. All'improvviso lei piegò sulla sinistra ed entrò in un salone immenso, grande quasi quanto il cortile in cui avevamo lasciato la macchina, solo che al posto di piante e fiori, statue e mobili antichi la facevano da padrone. Ogni tipo di anticaglia preziosa e di classe era presente in quella stanza, senza appesantirla affatto, senza renderla volgare o grossolana: chiunque si occupava dell'arredamento di quel posto, sapeva il fatto suo e meritava tutto il mio rispetto. Mi sentivo un po' un barbone con la mia misera giacca di misto lana, la mia camicia bianca fatta su misura ed il mio pantalone con le pence: ero ridicolo, fuori luogo, decisamente inappropriato. Ed eravamo solo entrati in un salone.. cosa sarebbe successo quando avessi incontrato il sign...
"Papà!" esclamò in un impeto di gioia pura Sugar, correndo verso il divano riccamente decorato - figurarsi! - che ospitava una figura che ci dava le spalle. Quest'ultima, un uomo, richiamato dal grido della ragazza, abbandonò il giornale che stava leggendo e si girò verso di noi, alzandosi in piedi. Sugar si fiondò tra le braccia del padre, come solo una bambina sa fare e lui la strinse forte, all'apparenza molto orgoglioso e felice di vederla. Rimasero in quella posizione per parecchi minuti, sussurrandosi chissà cosa all'orecchio, ridacchiando e riscoprendo un po' del loro genuino rapporto padre/figlia ed io me ne rimasi in disparte, senza dare nell'occhio e senza fare il minimo rumore. Solo dopo un po', forse quando lei si rese finalmente conto di non esserci andata sola in quella casa, si discostò dall'abbraccio del padre e, ancora sorridendo - sorrideva così anche quando era con me? - si girò verso di me e mi indicò
"Papà... voglio presentarti Artie Abrams.. il ragazzo di cui ti ho tanto parlato. Vieni, Artie.. avvicinati!" e mi incitò con un sorriso dolce ed un cenno della mano. Io, prendendo un profondo respiro, mossi le ruote fino ai due, preoccupandomi di tenere gli occhi bassi sul tappeto bianco sotto di me, temendo che da un momento all'altro potesse arrivare qualcuno a rimproverarmi per quell'oltraggio. Mi fermai solo quando fui a meno di un metro da loro e lì finalmente sollevai lo sguardo e lo puntai in quello di Al Motta e in quel momento, dopo quasi un'ora di viaggio in macchina, dopo aver accumulato ansia, paura, frustrazione e anche un briciolo di fastidio per tutto quel lusso esagerato, riuscii a pensare soltanto una cosa: cazzo!
Le voci che descrivevano quell'uomo sbagliavano alla grande: Al Motta era decisamente e atrocemente peggio. Era altissimo, superava senza dubbio il metro e novanta, ben piazzato, fisico allenato e prestante, spalle larghe, braccia spaventosamente muscolose e soprattutto un'espressione decisamente poco amichevole. Mi stava guardando, così come io stavo guardando lui, mi studiava attentamente, forse cercava di valutare chi o cosa fossi e perché mai stessi inquinando la sua preziosa e lussuosissima aria. Mi ero già sentito molto a disagio a ritrovarmi in quella casa, ma in quel momento, mentre quell'uomo faceva le sue valutazioni, il disagio aveva superato il limite massimo consentito.
Solo quando lo sguardo di Sugar iniziò a farsi preoccupato, decisi di intervenire per dire qualcosa
"Signor Motta.. è un piacere conoscerla. Ho sentito parlare veramente bene di lei!" mentii spudoratamente, sentendo le guance tingersi vergognosamente di rosso, quasi urlassero che quella appena detta fosse una bugia
"Ah sì? E da chi?" domandò lui sprezzante, mettendo su una smorfia di sfida. Cazzo! Ma che... cazzo!
"Ecco.. io..."
"Chi lo ha detto è senza dubbio invidioso di me e del mio successo. Se fossi in te non darei troppo credito alle chiacchiere!" mi informò, anzi, mi... minacciò? Ma dico, aveva capito quello che avevo appena detto? Oppure perfino fare un complimento era vietato in quella casa? Se parlare bene di qualcuno mi sarebbe valso quello.. non immaginavo cosa sarebbe successo se per caso lo avessi insultato.
"Papà... spero che tu ti sia tenuto libero per pranzo... ho tante di quelle cose da dirti!" intervenne Sugar, forse per salvarmi da quella situazione spinosa, conquistando tutta l'attenzione del padre
"Ma certo, principessa... per te questo ed altro. Ho chiamato Henry ed ho disdetto tutti i miei impegni del pomeriggio. Una promessa è una promessa!" le confermò dolcemente - per quanto un uomo di quel tipo potesse essere dolce - accarezzandole i capelli e facendola sorridere
"Grazie, papà." lui sorrise ancora debolmente, dopodiché si girò verso di me, lanciandomi un'altra occhiata di fuoco
"Sugar, tesoro, perché non mostri al nostro ospite la casa? Sono sicuro che troverà molto interessanti la nostra stanza delle armi e quella dedicata alle imbalsamazioni. Io nel frattempo faccio due telefonate."
La stanza delle armi?...
"Oddio sì... vieni, Artie... un giro della casa è d'obbligo!" esclamò elettrizzata lei, completamente ignara del tono minaccioso con cui il padre si era rivolto a me e perfino di quel ghigno malvagio con cui mi stava scrutando in quel momento. Voleva farmi vedere come imbalsamavano i cadaveri e lei sembrava non vedere l'ora. Ma dove diavolo ero capitato?

New York City. Ore 01.00 P.M. 12 Luglio 2009 (Domenica)

Circa un paio di ore più tardi ci ritrovammo tutti e tre - ma la madre che fine aveva fatto? - seduti al tavolo di un'altra sontuosa stanza del palazzo - di cui avevo contato approssimativamente cinquantasei camere e ben quattro scalinate e perfino un ascensore, maledizione! - e la situazione non era affatto migliorata, anzi. Al Motta continuava ad approfittare di ogni momento per scrutarmi attentamente e ogni volta io perdevo un po' di dignità e un po' di fermezza. Iniziavo seriamente a pensare che mancasse davvero poco prima di alzarmi e scappare da quella casa a gambe levate.
"Dunque, Artie... cosa fai nella vita per mantenerti?" mi domandò, mentre un cameriere serviva un antipasto.
"Lavoro a teatro. Dirigo un piccolo gruppo di attori che..."
"A Broadway?" domandò sorpreso ed io mi ritrovai scioccamente a ridacchiare.
Pessima mossa, Artie.. davvero pessima...
"No, certo che no! Me li sogno gli sfarzi e le luci di Broadway. Per il momento mi... limito a lavorare in un piccolo teatro nel Queens." spiegai, arrossendo sotto il suo sguardo severo. Non doveva aver affatto apprezzato quel mio tentativo di ironia
"Se ci si accontenta delle cose piccole.. non si avrà mai speranza di crescere!" sentenziò bruscamente, facendo segno al cameriere di versargli un po' d'acqua. Merda... questa me l'ero davvero cercata!
"Certamente! E infatti io... conto di lasciare la compagnia a breve per poter fare... altro." spiegai con calma, mentre lo stomaco mi si chiudeva per ripicca e perfino osservare distrattamente la bresaola finemente affettata che riposava nel mio piatto, mi infastidiva. La sua espressione si fece interessata
"Ah bene... e in cosa consisterebbe questo.. altro?" azzardò, mettendomi decisamente alla prova. Bene.. era arrivato il momento per mettere tutte le carte in tavola e svelare l'esatto motivo per cui eravamo lì per parlare con lui? Non potevamo prima goderci in santa pace il pranzo e poi magari discutere di queste cose?
"Coraggio, papà... smettila di importunarlo. Mangiamo prima e poi sarai libero di farci qualsiasi domanda tu voglia." lo pregò Sugar afferrandogli una mano e facendosi implorante. Era ora che mi salvasse! Cosa stava aspettando? Che il padre prendesse il coltello per il formaggio e mi affettasse un braccio? Lui fece una smorfia ma alla fine lasciò perdere quel discorso - almeno temporaneamente - e si concentrò sul suo piatto. Io, dopo un lungo sospiro afferrai una forchetta a caso tra le cinque che avevo alla mia destra e iniziai a mandare giù cibo, senza sentirne minimamente il sapore.
Distrattamente diedi peso alla conversazione che padre e figlia intavolarono poco dopo, riuscii a sentire soltanto qualcosa riguardante un ballo di beneficenza ed un re che doveva venire la settimana successiva dall'Europa. Ero troppo impegnato a prestare la mia attenzione al ricamo sulla tovaglia per credere davvero di seguire ciò che si stessero dicendo. E poi... magari ascoltando, avrei infastidito il padrone di casa e siccome il nostro era già un rapporto precario ben lontano dal diventare qualcosa di relativamente cordiale... era meglio starmene buono nel mio silenzio. Questo finché le mie orecchie allenate non captarono un discorso particolare
"Il figlio del dottor Flynn chiede ancora di te. Ogni volta che ci incontriamo al circolo non fa che bombardarmi di domande... si è preso davvero una bella sbandata!" esclamò, quasi soddisfatto lui. Sugar ridacchiò
"Steven è un caro ragazzo... ricordo ancora quando da piccoli, lui accompagnava il padre qui per giocare a poker e si nascondeva costantemente dietro il divano perché si vergognava a giocare da solo con me!" mormorò divertita
"Adesso è cresciuto e sinceramente non credo provi più imbarazzo nello starti accanto, anzi, ne sarebbe lusingato. Ed io penso che sarebbe un ottimo compagno per te." affermò convinto, calcando volutamente la voce sulla parte finale, per permettermi di sentire meglio, e vergognarmi un po' di più
"Lo penso anche io." fece Sugar mentre un sorriso dolce le increspava le labbra
Ah bene... a quando le nozze?...
Stavo giusto per infastidirmi seriamente, ero sul punto di sbloccare le ruote della mia sedia e allontanarmi da quel tavolo, quella casa, quel maledetto uomo arrogante, convinto del fatto che, neanche se avessi fatto rovesciare tutte le statue della casa, qualcuno si sarebbe accorto della mia assenza, ma proprio in quel momento, Sugar riuscì a salvare la situazione: si girò verso di me e mi sorrise
"Solo che al momento il mio cuore è già impegnato!" esclamò con un sospiro sorridente, riuscendo a strappare un mezzo sorriso anche a me, ed era il primo da quella mattina. Lo sapevo. Lo sapevo che prima o poi l'avrebbe detto ad alta voce e lo aveva fatto davanti a suo padre.
Steven... prendi e porta a casa!...
"E chi sarebbe il fortunato?" domandò il padre, probabilmente non cogliendo il collegamento, o molto più probabilmente, non volendo coglierlo
"Papà... sto parlando di Artie ovviamente!" fece lei, quasi indignata, indicandomi. Per l'ennesima volta gli occhi di quell'uomo si fecero cattivi e si posarono su di me, facendomi bloccare il respiro. Bene, ora sì che sarei morto e imbalsamato. O forse sarei stato prima imbalsamato e poi sarei morto.
"Oh... bene." mormorò lui indurendo la mascella e facendo un segno sprezzante verso il povero cameriere, invitandolo a portare i secondi piatti. In quel momento mi scrutò ancora, con un odio forse addirittura peggiore: ormai sapeva che tipo di legame corresse tra me e la sua bambina, e quindi ero entrato di diritto nella pole position dei suoi nemici. Forse mi sarei potuto salvare se avessi avuto un lavoro milionario o se di cognome avessi fatto Gates... ma visto che ero un semplice, umile e disabile Artie Abrams... no, non ero decisamente adatto a ricoprire il ruolo di genero per lui.
"Siamo così felici, papà. Non vediamo l'ora di ufficializzare la cosa anche con il resto della famiglia." continuò Sugar imperterrita, ignara di cosa stesse succedendo nella testa di sua padre, benché gli si leggesse tutto a lettere cubitali sulla faccia. Tentai un mezzo sorriso, spaventato e tremante, mentre il cameriere mi riempiva silenziosamente il piatto di selvaggina. Cazzo, e se quella che avevo davanti fosse stata la testa dell'ultimo ragazzo che si era presentato in quella casa?
"Da quanto tempo è che va avanti questa cosa?" domandò infastidito e duro, più che altro rivolto a me, sfidandomi per l'ennesima volta. Sembrava fossimo due combattenti in un duello, peccato che tra i due, quello ad avere una stanza delle armi lì dentro, non fossi io.
"Poco in realtà... ci stiamo ancora... conoscendo!" tentai di tamponare, con un sorriso forzato. Ma ovviamente, per quanto mi avesse salvato già una volta, Sugar volle rettificare
"Ci siamo conosciuti sei mesi fa e da quasi tre settimane viviamo insieme. Non è meraviglioso?" domandò elettrica. Il volto del padre si indurì maggiormente
Ma cazzo.. vuoi dirgli anche quante volte facciamo sesso, per caso?...
"Addirittura vivere.. insieme." mormorò lui affettando la sua carne e non perdendomi di vista neanche per un istante. Il mio stomaco si contorse proprio in quel momento e mi sentii seriamente prossimo a rimettere tutto quello che avevo mangiato fino ad allora, perfino quello del giorno prima.
"Sì... ehm... ma non è... cioè lo facciamo per.. risparmiare.." tentai di salvare il salvabile, peccato che forse stando zitto avrei ottenuto qualcosa di più
"Risparmiare? Mia figlia non ha alcun bisogno di risparmiare. Ha libero accesso ad ognuno dei fondi di questa famiglia e senza dubbio non deve ridursi a dividere l'appartamento con... qualcun altro per vivere." sbottò sprezzante, facendomi rimpicciolire sulla mia sedia. Cazzo, andavamo di male in peggio.
"Ma papà.. io l'ho fatto per lui.. per stare insieme. Non ho bisogno dei soldi di famiglia per essere felice, lo sai." intervenne Sugar desolata, preoccupandosi di più di giustificarsi davanti al suo adorato papà che di difendere il suo ragazzo martoriato ed umiliato. Al Motta sospirò e scosse la testa. Era sul punto di dire qualcos'altro, magari mi avrebbe finalmente sbattuto fuori di casa - e a quel punto iniziavo seriamente a sperarlo - ma Sugar decise che era giunto il momento di rovinare definitivamente il pranzo, mettendo sul piatto il reale motivo per cui eravamo andati lì.
"Anche se, in effetti... una cosa che potresti fare per me ci sarebbe." iniziò, sorridendo già profondamente elettrizzata. Il padre, felice di cambiare discorso - o almeno per quello che ne sapeva - tornò a guardarla
"Certo, bambina mia.. tutto quello che vuoi!" acconsentii
"Ecco vedi... io e Artie è un po' di tempo che.. avremmo un'idea in mente. Un progetto da realizzare. Ma avremmo bisogno del tuo aiuto per farlo." annunciò. Le sopracciglia dell'uomo saettarono verso l'alto, sorprese
"Che tipo di progetto?" domandò, lanciandomi un'altra occhiataccia
Stia tranquillo... non ho messo incinta sua figlia e non le ho chiesto di sposarmi...
"Una casa discografica!" esclamò infine lei, non riuscendo a contenere la gioia e saltellando appena sulla sedia. Il padre la guardò attentamente per quella che sembrò una vera eternità, senza aprire bocca e senza dare il minimo cenno di aver capito o di essere ancora vivo. Era un segno positivo, no?
"Una casa discografica?" domandò atono
"Sì... Artie ha delle capacità direttoriali straordinarie ma soprattutto è un ottimo intenditore di musica e sarebbe perfetto come scopritore di talenti o come manager musicale. Io invece potrei occuparmi della parte amministrativa.. mi dici sempre che sono brava con i calcoli e con la gestione delle imprese di famiglia quindi... meglio approfittarne, no?" e ridacchiò, quasi divertita dalla sua stessa idea. Oh merda... quando ne avevamo parlato per la prima volta, sul divano del nostro - del mio! - salotto, mi era sembrava l'idea più geniale di sempre, una di quelle illuminazioni che vengono solo una volta nella vita e con cui speri di farla cambiare per sempre. Eravamo carichi di entusiasmo, avevamo immaginato perfino in che quartiere poter aprire la nostra agenzia e su un blocco per gli appunti avevamo iniziato a scrivere qualche bozza per il nome. Per i soldi lei non aveva voluto sentire ragioni: non dovevamo assolutamente chiedere alcun prestito a nessuna banca, perché ci avrebbe pensato suo padre a pagare ogni cosa. E forse, con il senno di poi, era stata proprio questa decisione a rovinare tutto, fin dall'inizio.
"E questa... idea... di chi sarebbe?" domandò ancora, indugiando appena su di me. Nel suo immaginario la risposta era già stata data
"Di entrambi... cioè... sarebbe un sogno di Artie però io sarei più che felice di prendere parte e realizzarlo assieme a lui." rispose lei cercando il mio sguardo e magari il mio sostegno; peccato che in quella situazione, messo alle strette dallo sguardo assassino di suo padre, fossi io ad averne bisogno. E quella frase fu la conferma che ad Al Motta serviva. Sul suo viso si dipinse un ghigno, una specie di smorfia che a prima vista poteva benissimo essere scambiata per un sorriso ma che, osservata bene e soprattutto capita, valeva molto di più e non era nulla di raccomandabile.
"Il sogno di Artie." ripeté lui, quasi in un sussurro, annodando le mani sotto il mento e continuando ad osservarmi. Cazzo, ma che diavolo voleva da me quell'idiota? Perché continuava a fissarmi e a mettermi tanto in soggezione? Gli avevano mai insegnato, nelle prestigiose accademie che senza dubbio aveva frequentato, che fissare la gente in quel modo, fosse sintomo di maleducazione? E soprattutto... possibile ci stesse provando.. gusto?
Perché non me ne sono rimasto a casa, oggi? Davano un episodio speciale di X Factor...
"Allora, papà, cosa ne pensi? Ti piace la nostra idea?" domandò Sugar afferrando di nuovo la mano del padre e sciogliendola dall'incrocio che ancora gli sosteneva il mento. Lui si addolcì appena. Se c'era una cosa che rendeva Al Motta più umano... era sicuramente l'amore che provava verso sua figlia. Quello almeno era palese e soprattutto naturale.
"Sembra davvero molto.. interessante, piccola. Mi chiedo solo se... pensi che sia un buon investimento?" le domandò, facendosi pratico e professionale
"Ma certo. La musica non passerà mai di moda, papà.. anche se le tecnologie andranno avanti e un domani saremo costretti a teletrasportarci per andare a lavoro... ci sarà sempre qualcuno con una bella voce e del talento che sarà disposto a fare carte false pur di sfondare e allora lì.. interverremo noi. Dico bene, Artie?" e mi interpellò, sorridendo ancora piena di entusiasmo. Tremai sulla mia sedia sia per essere stato messo in mezzo senza neanche aspettarmelo - ero convinto che avessero continuato ad ignorarmi per tutta la durata del pranzo - sia per gli occhi di suo padre - ignorali, ignorali, ignorali - che lampeggiarono su di me.
"C-certo." confermai con mezza smorfia, ma a lei bastò come un sorriso. Certo, l'idea generale del nostro progetto era proprio quella: recuperare talenti sconosciuti e dare loro quella possibilità che, grandi case discografiche sparse nel paese e già ampiamente affermate, non darebbero mai. Saremmo stati i salvatori di tutti quelli che avevano ricevuto porte in faccia e lo avremmo fatto sempre con il sorriso sulle labbra e la grande passione per la musica che ero convinto ci accomunasse. Peccato che avessi ampiamente fatto i conti senza l'oste.
"D'accordo allora. Se è questo quello che vuoi!" acconsentii infine l'uomo pragmatico e pieno di soldi, dandoci il suo lasciapassare verso un illimitato bagaglio di risorse economiche, di cui non avevo neanche una vaga idea dell'ammontare. Sapevo solo che erano tanti soldi... tanti, tantissimi soldi.
Sugar emise un lungo urlo di gioia e si precipitò ad abbracciare il padre, ignorando il suo piatto ancora pieno e il buon galateo della tavola. E mi sorprese non poco il fatto che un uomo tanto rigido e preciso non glielo facesse notare ma invece allargasse le braccia per accoglierla e la stringesse forte a sé. Visti da fuori facevano quasi tenerezza: un abbraccio così sentito e reale, un abbraccio di gioia, soddisfazione, che sapeva di tanti grazie e di altrettanti mi fido di te. E fin qui tutto bene, se solo non fosse stato per l'occhiata di sbieco che, nonostante il momento tenero, Al Motta riuscì a scoccarmi.
Oh...
"Frena l'entusiasmo, principessa. Avrai modo di ringraziarmi in futuro. Ora, però, finiamo di mangiare. Dopo con calma, parleremo meglio di questa faccenda, anche perché voglio sentire le opinioni del nostro.. amico a riguardo." e mi indicò con un cenno ed un sorriso tirato "Dico bene, Artie?"
Dice bene, Artie?...
"S-sì, Signore!" e come un soldato che ha appena risposto ad un ordine superiore, mi sentii piccolo e misero e mi ritrovai ad abbassare gli occhi sul mio piatto. Di nuovo.

New York City. Ore 03.05 P.M. 12 Luglio 2009 (Domenica)

Sapevo che sarebbe successo. Fin da quando Sugar mi aveva allegramente proposto quel pranzo a casa sua per conoscere suo padre, sapevo e sinceramente temevo che saremmo arrivati a quel punto. Io e suo padre, ancora nella stessa stanza, a pochi metri di distanza e, soprattutto, soli.
La miseria ladra...
Stavo morendo, letteralmente. Sentivo caldo, e nonostante mi fossi già discretamente sbottonato i primi due bottoni della camicia, non riuscivo neppure a respirare. Colpa di quegli occhi, di quei maledettissimi occhi che continuavano a torturarmi e ad uccidermi lentamente, privandomi di ogni difesa e facendomi sentire così stupido ed esposto. Doveva essere una tecnica la sua, un modo come un altro per tenere sotto controllo i suoi avversari.. d'altronde anche portare l'altro allo sfinimento, poteva risultare una buona tecnica per vincere e lui stava decisamente per avere la meglio su di me. Ero sempre stato un ragazzo dal carattere abbastanza forte e neppure l'incidente era riuscito ad affliggermi; avevo reagito e avevo continuato a combattere prendendo quell'evento come un ostacolo sul mio cammino da superare, per arrivare in vetta. Eppure Al Motta in quel momento mi sembrava nettamente più preoccupante e spaventoso e neanche la più forte delle volontà mi avrebbe aiutato.
Dopo un'infinità di tempo passato semplicemente a guardarmi e a fare ondeggiare il suo prezioso digestivo nel bicchiere da whisky, finalmente mi rivolse la parola
"Hai mai giocato a poker, Artie?" mi domandò, spiazzandomi
Eh?...
Poker? Che diavolo voleva significare? Voleva invitarmi nella sua bisca per caso?
"No, Signore." risposi un po' confuso, ma provando a rimanere tranquillo
"É un vero peccato." mormorò, fingendosi afflitto e facendo ondeggiare ancora una volta il contenuto del suo bicchiere "Capiresti tante cose del tuo avversario se solo sapessi come... osservare le sue mosse." mi spiegò allora. E dunque era questo quello che aveva fatto per tutto il tempo? Aveva osservato le mie mosse, come se stessimo partecipando ad una partita di poker? Aveva anche puntato su di me?
In quel momento decisi di tentare il tutto per tutto, di provare a scoprire le mie carte e sperare di ottenere il punteggio più alto sul tavolo verde
"E se posso permettermi... cosa ha capito di me, osservando le mie mosse?" azzardai a chiedere, mentre avvertivo un'insolita scarica di adrenalina corrermi lungo tutta la schiena. Ero rimasto in silenzio fin troppo a lungo quel giorno e difficilmente ora sarei riuscito a fermarmi. Ero stanco di essere analizzato in quel modo, svilito con la potenza di un solo sguardo e soprattutto... chi cazzo si credeva di essere quell'uomo per potermi parlare in quel tono così arrogante? Soltanto perché il suo conto in banca era tanto ingente ciò non lo giustificava né lo esonerava dalle buone maniere. Ero umano anche io e non credevo di avergli fatto chissà quale torto e per questo motivo esigevo rispetto. Lo stesso tipo di rispetto che anche io gli avevo dimostrato da quando avevo messo le ruote nel suo prezioso ingresso.
Lui si fece sorpreso, ma apprezzò notevolmente la mia domanda
"Sono sincero... non molto in realtà. Ammetto di aver trovato un.. degno avversario!" mormorò con un mezzo sorriso seccato. Accavallò le gambe, posò il bicchiere sul tavolino di cristallo al suo fianco e alla fine, fissando gli occhi nei miei, mi diede il suo verdetto
"Non ho ancora ben capito che tipo di rapporto ti leghi a mia figlia, ma di qualsiasi natura esso sia, credimi ragazzo... farò di tutto affinché risulti un vero inferno." e lo disse con tale naturalezza, tale freddezza e tale precisione da farmi doppiamente male. Un inferno. Il mio rapporto con Sugar sarebbe stato un inferno. E questo solo perché a suo padre non andavo a genio.
"Io non credo che lei possa..." tentai, guidato dall'ennesimo sprazzo di adrenalina mista a coraggio e a quel briciolo di incoscienza che sbucava all'improvviso sempre nei casi peggiori
"Posso eccome. Sugar è mia figlia, quelli che voi userete per il vostro insulso ed immondo progetto sono i miei soldi, quindi credimi, caro il mio Artie Abrams... io posso!" sentenziò duro, facendomi paura. Si alzò dal suo divano e in meno di due passi mi raggiunse, sovrastandomi di netto nel suo metro e novanta
"L'ho capito, sai? Ho capito esattamente quali sono le tue intenzioni con mia figlia. Vuoi raggirarla, vuoi riempirla di tante belle parole, vuoi farle credere che costruire un progetto tanto ambizioso possa legarvi per sempre e speri ovviamente che lei, avendo un cuore d'oro, possa crederci, che possa starsene buona buona al tuo fianco mentre tu sperperi con calma i suoi.. i nostri soldi. Ebbene, amico mio... non te lo permetterò." annunciò in un lungo e terrificante sibilo concentrato, che mi fece venire la pelle d'oca. In quel momento si abbassò su di me e posò le sue minacciose mani sui braccioli della mia sedia, facendomi appiattire contro lo schienale e trattenere il fiato. E in quel momento, mentre sentivo di avere realmente paura, più di quanta non ne avessi mai avuta in ventisei anni della mia vita, arrivò la botta finale

"Diventerò il tuo peggiore incubo, sarò lì ad osservare ognuna delle tue fottute mosse e non appena compirai il passo falso.. io verrò a casa tua e ti ucciderò con le mie stesse mani. E allora capirai sulla tua pelle come mai non c'è nessuno in questa città pronto a parlare bene di Al Motta. Sono stato chiaro, ragazzino?" domandò, alitandomi sul viso, in un misto di alcool e terrore allo stato puro. Non avevo permesso mai a nessuno di avvicinarsi tanto a me, prima di tutto perché mai nessuno aveva osato mettersi contro un ragazzo disabile e poi... beh, per mia fortuna non capitava spesso di mettersi in tali guai. Eppure qualcosa era successa, altrimenti non si spiegava come mai fossi lì, a meno di cinque centimetri dalla faccia dura e crudele di un uomo, che mi aveva appena minacciato di morte.
Solo allora mi resi conto del fatto che, in tutta quella serie di minacce, ci avesse messo anche una domanda, e fu lui stesso a ricordarmelo
"Ho detto... sono stato chiaro?" ripeté avvicinandosi ancora di più e facendosi più duro. Ingoiai a vuoto qualcosa e tremai ancora
"Sì..."
"Non ho sentito."
"Sì!" gridai allora, sperando di liberarmi in fretta di quella situazione, perché non riuscivo più neanche a respirare. Ad essere paralizzati avevo già fatto l'abitudine ma, la paralisi fisica non aveva niente a che vedere con quella emotiva. Quella era più forte, più avvolgente, più destabilizzante e faceva nettamente più paura.
"Bene. Ora, ascolta quello che faremo: io concederò a te e a mia figlia i soldi per questa casa discografica. Lo faccio per lei, perché ne sembra entusiasta e perché qualsiasi cosa la renda felice, riesce a fare felice anche me. Dopodiché tu inizierai gradualmente ad allontanarti dalla sua vita. Non mi interessa come, anche fingendoti frocio se è necessario... l'importante è che lo fai con molta discrezione e senza fare soffrire la mia bambina, anche perché conosci già le conseguenze, nel caso in cui Sugar dovesse farsi del male." minacciò ancora, non scostandosi di un millimetro da me e conficcando la lama a fondo, fin dentro le ossa.
"Una volta che i vostri rapporti si saranno completamente raffreddati, io convincerò Sugar a lasciarti ogni responsabilità sull'agenzia e a tornare da me. Tu in compenso avrai pieno possesso della casa discografica e potrai ritenerti completamente soddisfatto. Alla fine tutti ne usciamo vincitori, dico bene Artie?" mi domandò con mezzo sorriso, a tratti sadico e a tratti assurdamente gentile. Ma cos'era quell'uomo? Cosa mi stava facendo? E perché io non reagivo? Perché mi sentivo schiacciato dal peso del suo sguardo, della sua voce, delle sue minacce, del suo maledetto potere? Cosa mi impediva di spingerlo via, mandare al diavolo tutti - Sugar compresa, visto che non si decideva a tornare, visto che ignorava quanto subdolo potesse essere suo padre, visto che era stata lei a trascinarmi lì - e tornarmene a casa? In fondo la mia routine andava più che bene, nonostante fossi particolarmente stanco di dover sprecare il mio tempo con incarichi di poco conto. Avevo bisogno di realizzarmi e fare bene qualcosa e forse l'idea della casa discografica era la prima, dopo tanto tempo, a darmi un po' di speranza. Ma ormai, perfino quella, era macchiata di tinte buie, che facevano paura.
Tu ne uscirai vincitore, Al.. soltanto tu... io rimarrò solo un involucro alla fine della partita...
In quel momento, forse per ironia del destino o forse perché era tutto scritto per andarmi contro, entrò Sugar, interrompendo il nostro tetro siparietto. Ad Al Motta ci volle relativamente poco per sollevarsi e rivolgere un sorriso mite alla figlia - che neanche a dirlo non si accorse di nulla - mentre io... beh... se non avessi avuto la mia sedia ancorata sotto il culo, probabilmente sarei precipitato al suolo.
"Avete finito di confabulare alle mie spalle? Cosa vi state dicendo di così importante?" domandò, saltellando verso di noi, e rivolgendo ad entrambi un sorriso radioso. Giusto, lei quel giorno aveva vinto la sua battaglia. Io invece, ero morto, senza neanche combattere.
"Niente di importante, piccola. Io ed Artie stavamo ripassando un po' le regole fondamentali del poker. Sono convinto che dopo oggi, le terrà sempre a mente... dico bene?" e mi sfidò ancora, in uno sguardo che sapeva molto di avvertimento. Io non riuscii neanche a rispondere. Ero senza parole né fiato né tanto meno pensieri. Era tutto un immenso foglio bianco. Incolore. Insapore. Morto. Mi accorsi a stento delle braccia di Sugar che si legavano attorno al mio collo e delle sue labbra sulle mie e di quelle tre maledetti parole che, da quel momento in poi, sarebbero diventate il mio peggiore incubo notturno.
"Ti amo, Artie!"

New York City. 09.58 A.M. 05 Maggio 2012 (Sabato)

Quel giorno, a distanza di quasi tre anni da quella maledetta Domenica, ricordavo ancora perfettamente ognuna delle parole minacciose di Al Motta e tutti i suoi lineamenti duri, benché, dopo quel giorno, non lo avessi mai più visto, per mia fortuna. Era bastata una sola giornata per rendermi conto di tante cose: del fatto che io con quella famiglia non avrei mai avuto nulla a che fare, di quanto poco bastasse ad un uomo per terrorizzarne un altro, di quanto poco bastasse a me per farmi sentire debole ed insicuro. Da quel giorno erano cambiate lentamente tante cose, ma prima di tutto ero cambiato io. Quell'Artie paziente e tranquillo non esisteva più; al suo posto era nato una sorta di alter ego, una sorta di macchina priva di ogni tipo di sentimento, concepita solo per lavorare e fare soldi e fino ad allora, a scanso di equivoci, aveva sempre funzionato. Mi sentivo male ogni qualvolta mi fermavo a riflettere su quello che era stato e su quello che ero diventato, ma ogni azione ha una sua reazione uguale o contraria: nel mio caso ero stato perfino schiacciato dalle mie stesse decisioni.
Forse soltanto in quell'ultimo periodo, con la conoscenza di Blaine, la ripresa delle attività della casa discografica e l'appianarsi dei conflitti - che io stesso avevo creato - con i miei condomini, le cose sembravano girare in un modo migliore. Sentivo ancora di non essere pronto a perdonare per quello che era successo, o per impegnarmi in una nuova relazione, di qualsiasi tipo essa fosse stata, però.. almeno iniziavo a fare affidamento su qualcuno dopo tanto tempo. Io lo consideravo già un grande passo in avanti.
"Sai, Artie.. c'è una cosa che non ho mai capito." annunciò ad un certo punto Sugar alle mie spalle, mentre io scendevo dalla rampa con calma ed attenzione per non cadere
"Cosa?" non c'era la minima curiosità nella mia voce, solo la voglia di sbatterla fuori da lì, il prima possibile
"Cosa ci è successo esattamente? Perché non siamo riusciti a portare avanti la nostra storia? Mi era sembrata... così bella ed importante eppure... si è disintegrato tutto... e adesso non riusciamo neanche più a stare nella stessa stanza senza.. guardarci male o scambiarci delle pessime battute. Perché, nonostante la nostra storia sia finita non riusciamo ugualmente ad essere amici?" domandò, facendosi esitante e perdendo un po' di quell'arroganza con cui era entrata poco prima. Bloccai la mia discesa a metà, fremendo nel sentire quelle parole. La spiegazione c'era, ce l'avevo sulla punta della lingua ed era anche pronta a venire fuori se solo non fosse stato troppo complicato e forse anche troppo stupido dirlo, dopo quasi tre anni. Così mi limitai a sorridere amaramente e a tirare fuori la scusa con cui in quegli anni avevo cercato di guarire le mie stesse ferite, sperando di appianare il dolore che una sola Domenica di Luglio era stata capace di creare.
"La verità è che io e te siamo troppo diversi, Sugar. Lo siamo sempre stati e continuiamo ad esserlo, soprattutto ora. Era impossibile che due come noi potessero ottenere qualcosa di diverso rispetto a.. questo!" ed indicai la sala registrazioni, finalmente girandomi a guardarla. Sul suo viso per un momento era scomparsa la smorfia infastidita e superiore e si era affacciata una piccola parte di quella Sugar dolce e solare e un po' bambina di cui mi ero innamorato. E forse amavo ancora.
"Quindi non possiamo essere altro che due... soci? É questo che mi stai dicendo?" domandò in un sussurro amareggiato. Provai a mandare giù un nodo opprimente che spingeva per uscire, un nodo che mi teneva sospeso da troppo tempo e che prima o poi sarebbe esploso. Ma quello non era né il luogo né tanto meno il momento opportuno.
"Direi di no." risposi scuotendo la testa, per poi ricordare qualcosa e sorridere, ancora in maniera troppo amara "Fai conto che da questa situazione... ne usciamo vincitori entrambi." e mi girai, lasciandola lì a rimuginare su quella frase, chiedendomi se anche a lei avesse fatto lo stesso amaro effetto che aveva fatto a me tre anni prima. E solo allora, lontano dai suoi occhi, per l'ennesima volta solo, mi concessi l'unico grande lusso che la mia vita ingiusta ancora mi regalava: piangere.
  
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