Tutto il
resto del
mondo
III.
{Prima
parte}
Londra, 1973.
Un
uomo giovane, aitante e professionale – almeno a giudicare
dalla ventiquattrore, tenuta saldamente in una mano – scese da
un treno regionale. Il suo passo era sicuro, la sua espressione
imperiosa: guardò per un momento intorno a sé,
sperando forse di scorgere qualche sagoma familiare.
Poggiò
la ventiquattrore a terra, allora, sfilando dalla manica del giaccone
un orologio da polso: regalo prestigioso, non v'era dubbio, sua madre
aveva tanto insistito affinché lo indossasse.
Arthur
indugiò per un sol momento lo sguardo sulle persone che gli
passavano accanto: non era strano trovare una massa di rivoltosi
oppure dei messaggeri della pace, i quali distribuivano volantini a
destra e a manca. Erano gli anni delle ribellioni, dei nuovi ideali,
dei movimenti più o meno radicali, i quali indicavano una
situazione di grave instabilità sociale.
Quando
Arthur drizzò il capo e vide quel che stava cercando da alcuni
minuti, ormai: certo, gli anni erano passati e le rughe d'espressione
iniziavano a farsi vedere, così come qualche ciuffo bianco.
Eppure, gli occhi di suo padre erano sempre gli stessi: profondi e
pieni d'orgoglio. D'altronde, come sarebbe potuto essere il
contrario?
Poco
dopo l'effettiva separazione dei suoi genitori, sua madre aveva
deciso di portarlo con sé in Francia: il suo amante, il quale
col tempo sarebbe diventato suo marito, era di origini francesi.
Quest'ultimo, poi, aveva a sua volta un figlio, pressappoco della
stessa età di Arthur. Si trattava di Frances Bonnefoy, giovane
rampollo francese dalle alte qualità intellettive ma non
altrettanto morali.
Pur
tuttavia, Arthur non si era potuto lamentare: era stato educato da
rigorosi damerini francesi, aveva imparato diverse lingue e, inoltre,
aveva ampliato i suoi interessi, a partire dall'arte sino ad arrivare
all'equitazione. Una educazione a trecentosessanta gradi, così
com'era stato suggerito da sua madre.
Non
era difficile immaginare che Arthur Kirkland, a vent'anni appena
compiuti, fosse un uomo di tutto rispetto: quell'anno, in
particolare, aveva deciso di prendere in mano la propria vita e
vivere un'esperienza a dir poco formativa nella rinomata Università
di Oxford. Ragion per cui, suo padre poteva gonfiarsi d'orgoglio;
eppure, quando gli fu abbastanza vicino da poterlo abbracciare,
preferì accoglierlo con una sonora pacca sulla spalla e un
banale: «Come sei cresciuto, figliolo».
Arthur
intese quel gesto come una manifestazione d'affetto, suo padre non
aveva tradito le sue aspettative: gli anni che aveva trascorso in
Francia, seppur allevato da un patrigno, lo avevano fatto maturare,
soprattutto dal punto di vista psicologico. La sua fragilità,
che taluni avrebbero potuto catalogare come sensibilità,
si era evoluta in una corazza quasi
impenetrabile, se non altro quanto bastava per ritenersi un uomo
dalla personalità scostante. E la cosa davvero triste di tutta
quella situazione era che, nonostante tutto, era davvero figlio di
suo
padre.
«Il
viaggio è andato bene? Dove sono i tuoi bagagli?»,
chiese l'uomo, osservando con un sopracciglio all'insù la
ventiquattrore.
«Mia
madre me li farà recapitare, abbiamo convenuto che fosse
meglio così».
Suo
padre allora annuì, dopodiché borbottò per
l'ennesima volta qualcosa sul fatto che fosse cresciuto. Poi, lo
sguardo di Arthur andò al quotidiano arrotolato che egli
teneva saldamente sottobraccio. Non vedeva un quotidiano inglese da
dieci anni a quella parte, provò una piacevole sensazione. A
quel punto suo padre, forse nel tentativo di stabilire un rapporto
tra di loro, glielo porse; Arthur si lasciò persuadere, poi lo
sguardo gli cadde sulla prima pagina.
Il
vecchio Arthur Kirkland si sarebbe lasciato sopraffare dalle
proprie emozioni, balbettando qualcosa di sconnesso ma il nuovo,
molto più prudente, se stesso gli suggerì di mantenere
un contegno decoroso.
Si
trovava a Londra da pochi minuti e il passato era già
pronto ad assalirlo, da non crederci.
~
Alfred
Jones osservò con aria compiaciuta l'edicola di fronte a sé,
la quale occupava quasi per intero la notizia che, ormai da una
settimana, si poteva considerare la principale: “La giovane
ereditiera Mary Jane Stuart, figlia del rinomato imprenditore Hartley
Stuart, è convolata a giuste nozze con un giovane scapolo di
origini americane, tale Alfred Jones”, titolavano i
quotidiani.
«Sai,
dovresti smettere di fermarti ad ogni edicola».
«Dovrei.
Ma dovresti anche tu», rispose prontamente Alfred.
I
due risero di gusto, poi s'incamminarono verso la piazza principale:
Londra si era svegliata, come quasi ogni mattina, uggiosa. Nell'aria
si respiravano tanti odori, molteplici profumi, i quali mascheravano
lo smog cittadino. I coniugi Jones ne avevano approfittato per fare
una passeggiata, da quando si erano sposati la quotidianità
non era mai parsa loro più godibile: probabilmente erano
ancora nella “fase luna di miele”, tutto sommato
era una condizione che non li turbava.
Forse
si erano sposati troppo presto, quella critica era stata mossa da
parecchie malelingue, forse Alfred Jones aveva voluto approfittare
solo dell'ingente ricchezza che sua moglie avrebbe ereditato, avevano
supposto altri. La verità era che Alfred Jones era riuscito a
farsi una nomina, si era costruito
con le sue mani, si potrebbe dire.
Quando
aveva deciso di spostarsi in pieno centro, dopo aver accumulato un
modesto gruzzolo, il suo obiettivo principale era diventato quello di
arrivare alle vette del successo. E, in verità, la fortuna era
piovuta dal cielo – come poche nella vita, invero –,
letteralmente: aveva conosciuto Mary Jane Stuart quasi per caso, in
una serata come tante altre.
Alfred
l'aveva potuta ammirare in tutto il suo splendore: seduta sul bordo
di una fontana, con il suo abitino luccicante, un indubbio belvedere
per gli occhi di chiunque la guardasse. Alfred si era avvicinato a
passi lenti e misurati, per ammirare quella travolgente figura da
vicino; Mary Jane aveva alzato gli occhi, piuttosto sconsolata
invero, esordendo con un sonoro: «Se siete un borseggiatore
questa non è la vostra serata. Se siete un maniaco, temo che
questa serata non potrebbe andare in maniera peggiore».
Alfred
aveva ridacchiato tra sé e sé, un provinciale come lui
non aveva imparato la buona educazione. O, meglio, non aveva avuto
l'occasione di poterla apprendere. In ogni caso, passeggiando per le
vie londinesi più mondane, aveva avuto l'occasione di
osservare il comportamento dei giovani rampolli inglesi e ne aveva
potuto trarre ispirazione.
«Non
sono né l'uno né l'altro. Vorrei potervi dare una mano,
se permettete».
Mary
Jane parve rilassarsi, allora, gli porse la scarpa e lasciò
che Alfred la esaminasse a fondo. Negli anni aveva svolto tanti
lavoretti diversi, apprendendo l'arte manuale. Pur tuttavia, quel
tacco non si sarebbe potuto aggiustare senza il magico tocco
di un calzolaio e quindi Alfred, desolato, si trovò a dover
dare una brutta notizia alla ragazza. Mary Jane in realtà non
si mostrò molto dispiaciuta – per una ragazza di classe
come lei quelle feste erano ordinaria quotidianità –,
più che altro si rammaricò per via del fatto che
camminare si sarebbe rivelato difficoltoso.
Alfred
esordì con una battuta, allora, che avrebbe segnato l'inizio
della loro storia: «Potrei invitarvi a camminare con me. Se
accettate il mio braccio», disse, abbassandosi alla sua altezza
e porgendoglielo. Mary Jane, da quel
momento in avanti, non esitò ad aggrapparsi al suo braccio
ogni qual volta uscivano insieme.
Poi,
il resto era venuto da sé: Alfred aveva fatto la conoscenza di
Hartley Stuart, imprenditore di successo, il quale lo aveva invitato
a lavorare come suo assistente – anche se non l'avrebbe mai
detto, era facilmente intuibile la ragione: non avrebbe mai potuto
permettere che sua figlia uscisse con un uomo di levatura così
inferiore.
Avevano
deciso di sposarsi due anni dopo, senza pensarci troppo, una
cerimonia intima ma deliziosa. Alfred aveva accanto a sé una
donna che lo amava, un lavoro di successo ed un enorme abitazione.
Tutto ciò che aveva sempre desiderato in passato, tutti i suoi
sogni erano divenuti realtà. Ecco, la vita che aveva sempre
voluto, che aveva sempre invidiato ad Arthur Kirkland.
Lui,
ogni tanto, ritornava nei suoi pensieri e si annidava come un tarlo
all'interno di una tarsia in legno: seppure fossero passati dieci
anni ogni tanto emergeva nella sua memoria e, in mattinate uggiose
come quella, la mente non poteva fare a meno di rivangare il passato.
Tuttavia,
ben presto avevano iniziato a circolare delle voci riguardo al fatto
che Alfred fosse inserito all'interno del business per puro
diletto. Ed erano state quelle voci, nonché un certo
risentimento morale, a convincerlo a compiere un'azione per la quale
nessuno avrebbe mai potuto deriderlo: Alfred Jones si era iscritto
nella prestigiosa Università di Oxford e, proprio in quel
momento, si trovava di fronte ai cancelli dell'austero edificio.
Lo
aveva fatto per se stesso, a dire il vero, per dimostrarsi che con
impegno e costanza chiunque poteva arrivare a degli eccellenti
risultanti. Erano gli anni Settanta, le università
cominciavano ad essere di dominio pubblico, la borghesia iniziava ad
avere contorni sempre meno definiti e, allo stesso modo,
l'aristocrazia. Il futuro era alla portata di qualunque individuo, in
pratica, si iniziava ad affermare una classe di intellettuali senza
distinzione e discriminazione sociale. Dai tempi della ribellione
universitaria del 1968, erano iniziate a cambiare parecchie
cose: il fatto stesso che gli studenti prendessero coscienza di sé,
in realtà, era un progresso.
E,
quanto più la modernità avanzava, tanto più
Alfred Jones si univa a quel grande movimento e varcava i cancelli
dell'università della quale aveva tanto sentito parlare da
bambino. Pensò a sua madre, a quel punto, la quale avrebbe
pianto di gioia al sol vedere quella scena. E poi pensò a suo
padre, la visione si fece molto più offuscata, non era un bel
ricordo e Alfred si promise che non sarebbe mai arrivato a tanto.
Dopotutto, i tempi erano diversi e le possibilità infinite.
«Nessuno
che conosci, caro?», domandò Mary Jane, cercando con lo
sguardo qualche conoscente.
Alfred
negò placidamente con il capo, ancora non sapeva di aver
parlato troppo presto.
~
Se
c'era una cosa che Arthur aveva imparato ad odiare in Francia erano
le abitazioni a più piani. Erano immense e, allo stesso tempo,
vuote: a cosa serviva tutto quello spazio se poi, a conti fatti, non
veniva adoperato?
Ecco
perché aveva silenziosamente ringraziato suo padre per aver
comprato una casa più piccola, un appartamento grande quanto
bastava per accogliere degli ospiti ma non troppo da perdersi
all'interno.
Arthur
poggiò le valigie nella camera, esaminando l'aspetto della
stanza: un arredamento spartano, proprio come aveva intimamente
desiderato. Nella sua abitazione francese era stato abituato al
lusso, allo sfarzo, a una serie di cameriere che di volta in volta
eseguivano ogni piccolezza. Era bello, per una volta, potersi
permettere il lusso dell'indipendenza, quella era una delle ragioni
che lo avevano convinto a proseguire gli studi in Inghilterra.
«Se
hai bisogno di qualunque cosa...», dichiarò suo padre,
lasciando cadere il discorso.
Arthur
intuì all'istante, lo congedò con un semplice cenno di
capo. Guardò al di fuori della finestra, poi, si accorse per
la prima volta dopo tanto tempo quanto gli fosse mancata la pioggia
londinese. Era cauta, non faceva troppo rumore, rischiarava l'aria e
riempiva la città di odori inesprimibili a parole. Decise di
andare a fare una passeggiata, approfittandone per dare una prima
occhiata alla futura università. Passeggiando tra le vie,
tutto era perfettamente come ricordava: la piazza principale, il
celebre orologio che la sovrastava, la residenza della regnante e
persino le cose più piccole, i dettagli apparentemente più
insignificanti.
Arthur
aveva dovuto prendere un autobus che lo conducesse all'interno
dell'Università. Solo una volta arrivato alla soglia della
rinomata struttura, si accorse di ciò che aveva di fronte:
Arthur si addentrò per un sentiero dritto, guardando di tanto
in tanto in alto. In Francia ne aveva viste di strutture di quel
tipo, pur tuttavia la maestosità era ben diversa; le fronde
degli alberi si agitavano smaniosamente, quasi preannunciando i primi
venticelli autunnali e fu proprio una folata di vento a scuoterlo con
vigore e a fargli scivolare qualche opuscolo informativo.
«Mi
scusi, signor- », Arthur notò un brillante,
seguito da una fede nuziale, sull'anulare della donna e si corresse:
«Volevo dire, signora...». Arthur fu costretto
a lasciare in sospeso la frase, la donna si chinò per
afferrare i suoi opuscoli. Poi sorrise in sua direzione e commentò:
«Gran bei corsi. Anche mio marito ha scelto questi!».
«Domani è il mio primo giorno, sa», disse
Arthur, inserendo gli opuscoli nella tasca del giaccone. La donna
sorrise di nuovo, poi iniziò a farfugliare una serie di futili
pensieri. Non era abituato a conversare troppo con le persone,
figurarsi con i perfetti estranei. Dopo un tacito momento di
silenzio, si scusò e prima di voltarsi e riprendere il suo
giro disse solamente: «Beh, penso che conoscerà
mio marito allora».
____________
Note.
Okay, non mi faccio viva da un po'. E originariamente
dovevano essere quattro capitoli, ma ho preferito dividere
ulteriormente perché il prossimo è il “capitolo
centrale”, diciamo, per non appesantire troppo ho preferito
optare per questa soluzione. Questa è una panoramica generale,
avrete notato qualche cenno storico... l'ho inserito per
contestualizzare, ma anche per far capire come in quegli anni fossero
importanti gli ideali di libertà, di uguaglianza, di
riconoscimento sociale. Prossimamente arriverà la seconda
parte, il tempo di correggerla e revisionarla. Comunque, vorrei
ringraziare tanto tutti coloro che leggono questa storia. Mi sono
arrivate tantissime recensioni – e dire che è la prima
volta che mi cimento “seriamente” in questo fandom. Che
dire, grazie, sono commossa! ç__ç –, ho notato
tante letture e tante persone che la inseriscono tra le
preferite-seguite-ricordate. Vi ringrazio di cuore per le
meravigliose parole. (':
- Kì.
|