epilogo.
Dunque... ringrazio HellGirl96, Maiko e neki niku_dango,
coloro che hanno ricordato la storia; Angel666, balim_hnevz, Black98,
chiaraelle99, ChibiRoby, Cichan, Devil_Inside, DPotter, Eru
Roraito, Isangel, Kira4ever, Maiko, Mars_16, MikuSama,
Robthereaper, sbrixi, Skylar87, soniuccia,
St_rebel, SuorMaddy2012, Synapsis, Wiamy e yako_chan per
averla seguita e Alexiel94, balim_hnevz, ChockyLawliet,
Deneuve, Donixmadness, FullmetalBlue13, Gatta Blu, Namine23,
Robthereaper e _Eileen per averla preferita. Un grazie speciale a
Robthereaper per aver recensito ogni capitolo! Questa storia, miei
lettori, è per voi. Ora prego, vi lascio alla lettura.
Epilogo.
Kyoto, 21 Maggio 2030.
Si accingeva a dare una superficiale spazzolata alla chioma bionda, che
proprio quel mattino opponeva una tenace resistenza ai denti di
plastica del pettine, quando il cellulare attaccò a
strillare
una musica a tutto volume che la irritò e che si
appuntò
mentalmente di cambiare nell'immediato futuro. Proveniva da sopra la
lavatrice e ciò la stupì; frugò
disorientata in
mezzo ad un groviglio di asciugamani umidi e t-shirt da smacchiare e
finalmente sgusciò fra le sue mani, lampeggiante e scosso
dalle
vibrazioni. Rammentò d'averlo dimenticato lì
mentre
faceva il bucato e scrutò sospettosa il display. Ecco,
appunto.
Craig. Marion accettò la chiamata stringendo i denti,
già
pronta ad un'eventuale sfuriata.
-Pronto?-
-Ehi, bellissima!-
-Cosa è successo?! Ti prego, dimmi che non sei riuscito a
distruggere la macchina nelle ultime dodici ore!- supplicò
ringhiando.
Craig scoppiò a ridere. -Tranquilla, è tutto a
posto. La
tua macchina sta meglio di me. Non te la chiederò in
prestito
più, se devo essere sottoposto a queste intimidazioni
ogniqualvolta ti chiami...-
Marion tirò un sospiro di sollievo. -Grazie a dio. Allora,
stai arrivando?-
-Ti chiamavo per dirti che sono qui sotto. Voi siete pronte?-
Marion lanciò un'occhiata preoccupata al suo riflesso allo
specchio macchiato di dentifricio, osservando con disappunto l'ammasso
di capelli scomposti e arruffati che ricadevano senz'arte oltre le
spalle. Poi allungò lo sguardo oltre il corridoio,
intercettando
con gli occhi una Harmony saltellante dalle lunghe gambe nude sotto
l'orlo della felpa color carota che indossava.
-Più o meno... facciamo in un lampo! Dacci tre minuti.-
concluse con le sopracciglia aggrottate.
Craig si limitò a sospirare. -O magari venti... fa niente,
attenderò con fiducia.-
-Arriviamo fra un attimo.- ripetè Marion in fretta, facendo
per riattaccare.
-Ah, sì, Marion?-
-Mmh?-
Immaginò un sorriso increspare le labbra di Craig. -Ti amo.-
Marion non riuscì a trattenere il rossore di piacere che si
diffuse sulle sue guance come una goccia di vino sulla stoffa.
-Sì, lo so.- rispose alzando lo sguardo al soffitto.
Terminò la chiamata, mollò con malgarbo il
cellulare sul
ripiano dello spazzolino, afferrò la spazzola e la appese
nella
chioma, strappando e tirando bruscamente finchè gli occhi
non
bruciarono di lacrime. Mentre le ciocche scompigliate si lisciavano e
volteggiavano leggere ed inerti, arrendendosi all'ordine,
iniziò
ad accertarsi che fosse tutto a posto.
-Harmony! Ti sei vestita?! Craig ci aspetta giù!-
Le giunse all'orecchio un silenzio esitante, spiazzato. -Ehm... see.-
rispose infine la voce di Harmony, asciutta di convinzione.
Marion scosse la testa con aria di rimprovero. -Muoviti.-
Dopo un attento esame decise di lasciare i capelli sciolti.
Sistemò un cerchietto rosa carne sul capo e sorrise a
disagio
alla sua immagine riflessa: un sorriso pallido, quasi la Marion nello
specchio s'impietosisse al pensiero di dove l'alter ego sarebbe andata
e volesse infonderle un po' di coraggio.
Si riscosse da quell'inquieta malinconia e uscì dal bagno,
dirigendosi in salotto. Harmony stava infilando un paio di pantaloni
mimetici, i codini fiammanti a sferzare l'aria ai lati della sua testa.
-Hai finito?-
Nel vederla arrivare, l'amica sorrise divertita. -Mio fratello vuole
invitarti a cena, stasera.- cominciò con tono insinuante.
Marion scrollò le spalle. -Ah, okay.-
-E farti la proposta. Ho visto l'astuccio del gioielliere ieri sera
nella sua giacca.-
esplose, come incapace di trattenersi, con un barlume di feroce
entusiasmo negli occhi azzurri.
Lei avvampò, sconcertata. -Ma cosa dici... sei proprio una
deficiente. Potrebbe essere qualsiasi cosa! Cosa ti dice che sia un...-
Deglutì, e il fiato per pronunciare l'ultima parola le
mancò.
-Credi che non sappia riconoscere la custodia di un anello?! Fidati,
fidati. Vuole mettere su famiglia, quel marpione...-
sghignazzò
Harmony, cogliendo nell'intera storia qualcosa di estremamente
esilarante che a Marion sfuggiva. Lei scosse ancora la testa, con
scettica
decisione. Non poteva essere... semplicemente, non poteva.
Ma se fosse...?
Il citofono strillò impazzito, segno che Craig si stava
spazientendo. Marion decise di rimandare ogni riflessione e di lasciar
perdere, per il momento. Dopotutto, Harmony poteva anche esserselo
inventato per farle pigliare prima un infarto e poi un'infantile
delusione. Era proprio nel suo stile, in effetti, fare uno scherzo
tanto spietato.
Harmony infilò distratta il suo giubbotto di jeans e Marion
fece
lo stesso con un piumino avorio; poi avanzò in corridoio e
picchiettò con le nocche sulla superficie di una porta.
-Emi? Ci sei? E' ora di andare.- chiamò.
All'interno della camera, una ragazzina sollevò lo sguardo
dal
libro di biologia e lo spostò verso l'orologio da polso,
realizzando di avere perso la concezione del tempo. Si alzò
in
piedi lasciando tutto com'era, il libro aperto e l'evidenziatore
abbandonato nella rilegatura delle pagine, così da poter
riprendere il lavoro appena tornata a casa; aggiustò con un
gesto rapido la sua lunga coda di cavallo corvina e si diresse verso la
porta, una giacca celeste stretta in una mano. In corridoio, Harmony e
Marion la aspettavano.
Le guardò con gli immensi occhi senza fondo, gli stessi
occhi
che Marion tanto aveva amato e si era abituata a rivedere ogni giorno
anche dopo la morte del suo tutore, da quando Emi era stata prelevata
dal laboratorio genetico ed aveva deciso di restare ad abitare
con
loro dopo la cattura di Kira. Ormai non era più una gracile,
silenziosa bambina di nove anni, ma una quattordicenne alta e graziosa
che portava i capelli lunghi ed andava a scuola nell'istituto poco
lontano. Marion l'aveva lasciata libera di scegliere, e lei aveva
deciso di non farsi mancare nessuna delle esperienze che ogni
adolescente affrontava a quell'età ed aveva accettato. A
scuola eccelleva spaventosamente, com'era ovvio, e avrebbe potuto
tenerle lei le lezioni, ma non era per imparare che ci andava. Si era
fatta diverse amichette, sebbene continuasse a preferire gli
indovinelli e i rebus.
C'era una sorta d'interrogativa attesa in
sospensione nel suo sguardo immobile e inflessibile.
-Andiamo?- domandò, mentre la pallida fronte si corrugava
sotto
la frangetta mora, quasi aspettandosi un no come risposta.
Marion annuì con il capo e, con la solita risoluta
stanchezza
con la quale aveva sempre affrontato la nostalgia
dell'eternità,
precedette le altre verso l'ascensore che le avrebbe condotte al piano
terra.
Sotto le suole la ghiaia sibilava a bassa voce scricchiolii di pietra
rotta, nelle orecchie una brezza fugace sospirava le sue
storie
senza trama intinte di nostalgia palpabile. Il silenzio era calato con
l'ineluttabilità compunta d'un ordine silenzioso ma
inderogabile, e nessuno fece intendere di volerlo contrastare. Le
parole erano fuggite dalle loro labbra, sostituite dai pensieri duri e
gravosi che scorrevano difficili negli occhi meditabondi. Le lapidi
erano troppe, e davanti all'evidente inesorabilità della
morte
nessuno osava parlare. L'atmosfera impregnata di malinconia e rispetto
si trascinava viscosa fra i viali sterrati del cimitero, colmando le
narici dei presenti e inoculando negli animi quella stagnante
opprimente compassione per i morti, i vivi e sè stessi.
Marion avanzava con un coraggio freddo ma logoro davanti alla
prospettiva di doversi voltare di nuovo indietro, a scrutare quel
passato come una pozzanghera di pece. Non temeva più di
rimanerne sconfitta, ma era una ferita lunga e instabile quella che i
ricordi stuzzicavano armati di rasoio e realtà. Era esausta,
però
non poteva risparmiare quelle poche gocce di sangue ed energia che il
dolore le stillava dalla carne e rifiutare di fare visita ad una delle
persone più importanti della sua vita.
Cercò di non pensare a nulla mentre procedeva a passo lungo
e
fermo, ma era suggestionata troppo dall'esile figura di Emi a camminare
accanto a lei, dai suoi occhi d'ombra tondi e indecifrabili. Le aveva
procurato un duro colpo ed insieme una sommessa commozione riconoscere
Near nei più semplici, comuni gesti di vita quotidiana della
sua
figlia legittima. Ora le sembrava che quel qualcosa che la morte di
Near aveva strappato alla sua vita fosse stato, in parte, recuperato.
Perchè l'anima nera e magnanima del suo tutore scintillava
acuta
in quegli stessi occhi che Emi sembrava quasi avergli rubato.
Marion aveva vissuto anni di serena, piatta felicità e ne
pretendeva molti altri. Un giorno Kira sarebbe tornato, magari,
perchè è impossibile che non venga versato del
sangue
dove appare un Death Note. Però non lì, non in
quel
momento, non lei. Altra gente, altre vite. Un'altra era.
Era venuto il momento di tributare le lacrime che doveva al suo passato
ed a quella storia sorta e affogata negli omicidi, nella quale aveva
fatto una comparsa breve eppure decisiva.
Un libro chiuso da sfogliare, una leggenda macabra da raccontare. Gli
altri la seguivano, una processione di silenziosi perchè
comprendevano di non comprendere.
Sorrise con nostalgia davanti ad una lapide adamantina, colpita dalla
luce sbiadita e polverosa di un sole assorto. Marmo bianco venato di
grigio e azzurro, una dignità altisonante e diritta nella
sua
eleganza asciutta e disadorna. N. Una lettera, una vita seppellita ai
ciechi occhi di un mondo ignaro e indegno.
N. Le persone che avrebbero saputo dire a chi apparteneva quella lapide
si potevano contare sulle dita di una mano.
Non è giusto, pensò Marion. E ancora: troppe cose
non
sono giuste. Emi, al suo fianco, le strinse delicatamente la mano come
intuendo i suoi pensieri. Le sue dita bianche e sottili erano tiepide
al tatto e la sua presa era gentile e partecipe. Marion rispose al
gesto imitandola, mentre quell'unica lettera incisa nel marmo diveniva
troppo gravosa da sostenere con lo sguardo.
-Eccoci qui, anche quest'anno. Tu l'avresti voluto, vero? Avresti
voluto così.- La voce raschiò dolorosamente la
gola
otturata delle stesse lacrime aspre che premevano all'altezza delle
sopracciglia contro le palpebre, ed uscì sottile e roca.
Fissò con insistente aspettativa il marmo, nell'insfaldabile
speranza che ovunque Near fosse l'avesse udita e sorridesse il suo
sorriso
raro e prezioso. Avrebbe dovuto conoscerla, sua figlia. Emi, che
avrebbe potuto fare parte della sua vita ed era arrivata troppo tardi,
contrasse le labbra alle parole di Marion. Le emozioni erano state una
novità amara per lei, e nonostante con gli anni si fosse
rassegnata all'idea che ogni essere umano poteva e doveva combattere il
malessere disordinato, inquieto e faticoso che a volte
travolgeva e frastornava il suo animo, non riusciva ancora a dosarle,
controllarle e valutarle come avrebbe voluto, come sapeva fare con la
trigonometria e la grammatica russa.
Entrambe avvertivano l'urgenza dolorosa di piangere, ma nessuna delle
due lo fece perchè non sarebbe servito a nulla.
Marion si chinò e posò sul prato fresco di verde
squillante, ai piedi della lapide, un piccolo giglio bianco che
dondolò leggiadro nell'aria prima di posarsi con la
ineguagliabile grazia delle farfalle al suolo, impigliandosi fra gli
steli d'erba. La ragazza sorrise con forza, piegando la malinconia, e
Emi tentò di fare lo stesso. Nei suoi occhi si agitavano
troppe
domande, troppi dubbi.
Marion si rendeva conto che, pur essendo sua figlia biologica, di lui
non sapeva praticamente nulla e non l'aveva mai nemmeno incontrato:
cercava perciò di rispondere a tutti i suoi interrogativi,
la
esortava a chiedere ogni cosa le interessasse sapere, le raccontava
tutto ciò che poteva. Ma la verità era che Near
era
troppo imperscrutabile per essere oggetto di analisi e descrizioni, e
c'erano domande alle quali Emi non avrebbe mai trovato risposte. La
capiva.
Spostò lo sguardo verde salvia sul piccolo memoriale
accanto,
dedicato a M. Sorrise con maggior serenità, pensando
all'uomo
che stava imparando a conoscere attraverso i ricordi ed i racconti
degli altri e riconoscere in sè stessa. Stava costruendo con
pazienza l'intero passato di Mihael Keehl, alla ricerca della sua
anima, alla ricerca di lui. Dalla nascita alla Wammy's House a Kira.
Tutto. Molte persone, fra cui Linda, la madre di Craig e Harmony, si
era dimostrata disponibile a parlarle di Mello.
Nella sua tasca, giaceva una pistola scarica. Alla quale è
attaccato un rosario di pietre nere, pensò
intenerita fra
sè. E fu felice, felice, di non aver sparato quel dannato
giorno
in cui si era ritrovata il male davanti ed aveva trovato la forza di
voltargli le spalle. Non perdonare, non dimenticare. Voltare le spalle.
-Sarebbero felici di vederci insieme.- commentò Marion,
lanciando un'occhiata ad Emi. -Dopotutto, penso che si fossero
riappacificati.-
Tante cose durano per
sempre, pensò, ma non l'odio. Non l'odio.
Avvolse la mano di Emi con la sua, forte.
-Pace.- mormorò Emi, come se sentenziasse un'imposizione al
futuro, come se stringesse una promessa con il destino.
Vienna, 21 Maggio 2030.
Un prolungato, metallico biiip annunciò che qualcuno aveva
accesso al sotterraneo del carcere di sicurezza di Vienna. E il
detenuto speciale della cella numero 113 sapeva anche chi era, il
misterioso visitatore, semplicemente perchè la stessa
persona si
presentava lì da due anni allo stesso giorno alla stessa ora
d'ogni mese.
Una figura ammantata di nero, un lungo soprabito a svolazzarle
insistentemente fra le caviglie e un cappuccio calato sul volto, scese
le alte e ripide scale tonando passi svelti ad ogni gradino lucido
d'umidità, infrangendo il silenzio sepolcrale che fino ad un
secondo prima gravava nelle gallerie. Molti dei prigionieri che
sonnecchiavano svogliatamente dentro le loro celle si scossero ed
affacciarono alle fessure sbarrate sulle grosse porte blindate, nel
vano tentativo di intravedere l'ormai abituale visitatore: ma era
troppo denso e fuligginoso il buio che soffocava il sotterraneo, troppo
scuro ed indefinibile il suo mantello per riuscire a distinguere la
persona che lo indossava, troppo stretta la finestra a loro
disposizione verso i corridoi infestati di nebbia buia ed odorosa di
muffa. La figura proseguì, sfilò spedita davanti
ad una
serie di celle e poi, ad un angolo, svoltò a sinistra.
Ancora
avanti. Il suo passo era affrettato, breve, quasi nervoso. Il soprabito
si gonfiava alle sue spalle, i tonfi sonori e attutiti dal buio
delle calzature contro il pavimento tracciavano il suo
percorso e
si perdevano urtando le pareti ed il soffitto.
Arrivato davanti alla cella numero 113, il visitatore si
fermò
d'un tratto. Rimase un attimo lì davanti, fermo in piedi, il
suo
sguardo nascosto dal cappuccio a fissare la porta.
Il detenuto della cella 113 sogghignò. -Sei in ritardo di
nove secondi.- Era un appuntamento, ormai.
La figura s'inginocchiò a terra, nella stessa posizione che
dall'altra parte della porta anche il prigioniero assumeva,
così
che il suo volto fosse all'altezza della fessura attraverso la quale
due occhi castani la osservavano sarcastici. La figura
lasciò
scivolare il cappuccio: una chioma di folti capelli azzurro cielo, dai
ciuffi irregolari, fu scoperta e ricadde contro il mantello nero.
-Stai diventando sempre più patetico.- commentò
con voce incolore.
Lawrence si passò una mano fra i capelli biondi,
spettinandoli.
-Già. E' la monotonia, L. Queste pareti ormai mi stanno
strette, e ci sono solo i miei noiosi pensieri a
distrarmi... potrei descrivere questa stanza con la stessa precisione
di chi l'ha costruita, non scherzo. Ho iniziato anche a contare le
piastrelle, a dire la verità, ma ho fatto un segno fin dove
sono
arrivato perchè mi sono stufato, ad un certo punto. Per tua
informazione, l'ultima che ho contato era la trecentosettantotto.-
-Smettila con questi melodrammi, Yagami, come se la colpa fosse mia. Se
sei qui dentro, c'è solo una persona responsabile.- L lo
fissò con i suoi occhi bicolori, con seccata
severità.
-Non sono completamente d'accordo. O almeno, non sono stato io a
chiudermi in una cella muffosa di tre metri per tre. Diciamo che non ce
la faccio proprio, a perdonarti.- si lagnò Law, con
un'espressione placida. L scosse la testa, accigliata.
-Ricorda che era la condanna a morte ad attenderti dopo l'arresto. Se
non fosse stato per me, a quest'ora staresti ad annoiarti in una bara
dieci metri sotto terra. E' stato patetico quanto infruttuoso sperare
in una tua redenzione, o qualcosa di simile... non sei
cambiato per niente. Il tuo pensiero non è cambiato. A nulla
sono serviti questi cinque anni di reclusione, e chissà se
altri
cinque serviranno... spiegami a cosa è servito tenerti in
vita, allora,
Yagami.-
Law la osservò negli occhi bicolori, quello pallido e
argenteo e
quello scuro e buio, e premette il viso contro la grata rugginosa della
finestrella. Le sfiorò fugacemente le labbra attraverso
essa; L
non si ritrasse ma sostenne il suo sguardo, come in un gioco di sfide e
audacia. Il contatto delle loro labbra fu impercettibile ma
inequivocabile, nonostante la coltre d'oscurità che li
avvolgeva.
-Oh, ma non c'è alcuna ragione nobile...
tu mi hai salvato per tuo capriccio, L. Perchè ti sei
invaghita
di me. Anche le eroine hanno le loro debolezze... le loro frivolezze...
anche loro sono umane, in fondo, ed umano è il loro
gretto desiderio. Cosa sarei, cara la mia detective, il tuo gingillo?
Il tuo trastullo?- Sorrise sprezzante.
L ricambiò il sorriso tristemente. C'era qualcosa
di vero
in quello che
lui diceva, ma la devastante religiosità
di quel prepotente sentimento, stucchevole di acerba e infantile
ingenuità, non si poteva liquidare con tale impietosa
arroganza,
con tali condiscendenti parole. L non aveva mai rinnegato sè
stessa, nemmeno quando aveva scoperto di non riuscire a consegnare Kira
al boia, di gradire il contatto caldo e vibrante del suo respiro sul
viso.
-Un giorno non ti accontenterai più di baciarmi, Lisbeth.-
sussurrava il ragazzo, con il cipiglio indolente e serafico dei
veggenti. -Un giorno mi farai evadere, e io attenderò
finchè non arriverà.-
-Attendi, attendi. Se preferisci convincerti di queste fantasie per
avere ancora qualcosa in cui sperare, nessuno può
proibirtelo.-
L inarcò le sopracciglia divertita.
Ormai quelle visite troppo rare e brevi, che si faceva
violenza
per ridurre ad una al mese e basta, erano continuo oggetto di
riflessione e ossessioni incomprensibili se non adducendovi come causa
febbre e follia. Sognava il suo sorriso, sognava le sue dita. Attraenti
incubi che le toglievano il fiato e la ragione al mattino.
-Il tempo darà ragione ad uno dei due.- Law
allungò
l'indice oltre le strette sbarre e le sfiorò il labbro
superiore, il suo sguardo magnetico una ragnatela rappresa del sangue
di troppe vittime. L pensò a Rowena, suicidatasi due
settimane
dopo l'arresto. Si era strappata gli occhi e aveva aspettato una morte
esasperante e miserevole, che non sarebbe augurabile neanche nei
confronti del proprio peggior nemico. L ricordò la
frustrazione
paralizzante e torbida che le aveva assalito le braccia inerti e al
morso che le aveva chiuso lo stomaco alla visione di quel cadavere
straziato dalle sue stesse mani, imbrattate di un copioso viscido rosso.
-Tu marcirai per tutto il resto della vita in questo buco schifoso,
Yagami.- pronunciò beffarda lentamente, incidendolo con gli
occhi.
-Lo vedremo.- ripetè Law con voce mellifua, carezzandole
lascivo
una guancia. -Finchè la mia carceriera resti tu, nulla
è
perduto.-
L ghignò, davanti alla sua invincibile sfacciataggine. -Stai
zitto.-
Riaccostò le labbra a quelle di Kira ed entrambi tacquero,
soffocati dalla potenza disarmante ed implacabile di quel qualcosa
più grande di loro che, in un'altra situazione, in un altro
posto e in un'altra epoca, altre persone avrebbero definito amore. In
quell'istante dilatato ed impigliato nel punto più sottile
del
collo della clessidra, lo giudicarono solamente l'alchimia ribelle di
due elementi destinati a respingersi ancora prima di nascere.
Mondo degli Shinigami, 21 Maggio 2030.
Molto, molto lontano da lì due Shinigami pensosi erano
affacciati al buio, invitante portale che conduceva al mondo degli
umani.
Uno dei due, con un sospiro che somigliava ad uno sbuffo,
addentò un frutto grigiastro ed avvizzito. L'altra
sollevò gli occhi, apatica.
-Mmh. Buona?-
-Proprio no. Fa schifo.- bofonchiò l'altro dio della morte,
fissando con sguardo truce l'odiosa merenda. -Come mi mancano le mele,
accidenti! Non hai idea di quanto fossero deliziose... rosse, lucenti,
succose... Non hai proprio idea.- Scosse il capo, disintegrando quella
fantasia con rassegnata stanchezza.
-Oh sì, che posso.- ribattè la Shinigami
laconicamente.
-Cosa? Anche tu sei scesa nel mondo degli umani?- si stupì
Ryuk. Lei annuì con il capo, malinconica.
-E cosa ti manca di più, Rail?- domandò
ancora lui, lieto di avere trovato qualcuno che potesse capire la sua
nostalgia.
Rail aveva un'espressione insondabile. Un volto le
attraversò la
mente, un ricordo troppo lontano e troppo prossimo; e ricordi erano
anche le emozioni che aveva provato quel tempo, capaci solo di sfumarsi
in un vortice di atroce, alienante nulla.
Sorrise, una smorfia di infelice amarezza che fece rabbrividire Ryuk.
-Vorrai dire chi, Ryuk.- concluse Rail in un sussurro, mentre
mentalmente scriveva la parola fine al termine dell'ultimo capitolo di
quella storia e ne chiudeva con le unghie lunghe il libro.
Fine.
Note dell'Autrice: Ed ecco a voi il finale, cari lettori. Con questo
epilogo la storia si conclude. ^-^
E sì, Marion e Craig si sposano. Non potevo mancare di
confermarvelo! *-* Come potete vedere, è stato dato un nome
alla figlia di Near (ovviamente!): Emi in giapponese significa
bellissima benedizione, se non sbaglio. Anche Law può dirsi
contento, in fondo lui ed L hanno il loro lieto fine. L'idea di
concludere la storia con un accenno a questa eccentrica relazione,
senza specificare come potrebbe evolversi, mi intrigava un sacco,
così l'ho fatto. ^-^ Volevo scrivere un finale che chiarisse
bene alcune cose, ma fosse anche aperto, sotto altri aspetti. Che lasci
anche spazio all'immaginazione del lettore. Le uniche che non possono
dirsi troppo soddisfatte del finale della storia sono Rowena e Rail.
Inizialmente avevo pensato di aggiungere la scena del suo suicidio nel
capitolo precedente, poco prima che la arrestassero, ma così
sarebbe risultato esageratamente lungo e non avrebbe avuto nemmeno
troppo senso, che una si ammazzi così. Ma che dovesse
morire, purtroppo, era già in programma da un po'. Oh, non
credetemi insensibile, eh. Sono pur sempre i miei personaggi, mi spiace
farli soffrire, però! Però qualcuno doveva.
Rail invece, come tutti gli Shinigami, non poteva proprio restare
lì. Doveva tornare al suo mondo. Però ho voluto
che l'estrema conclusione fosse la sua amareggiata malinconia,
perchè questa storia a causa sua è iniziata e con
lei doveva finire. Che dire, Law le manca. T.T Poooovera Rail.
Con questa lunga nota volevo rifarmi per tutte le volte che vi ho un
po' trascurati, miei adorati lettori! Spero che questo finale vi sia
piaciuto e vi sia sembrato adeguato. Se qualcosa non vi sembra
giusto/non vi va a genio/non vi soddisfa potete insultarmi a piacimento
con l'ausilio delle recensioni. La vostra opinione ha grande rilevanza
per me!
Grazie mille per avere letto fin qui, per me è stato molto
importante il vostro appoggio. Adesso che è giunto il
momento di lasciare i personaggi proseguire per la propria strada,
senza più rendervi note le loro avventure, la malinconia
è inevitabile. Anche per voi è così?
Mi interesserebbero molto delle vostre opinioni conclusive sulla
storia... personaggio più simpatico? Più odioso?
Robe così.
Grazie, grazie mille volte ancora. Spero che qualcuno sia disposto a
lasciarmi un'ultima recensione. ^-^
Lucy
ps: I capitoli di questa storia sono ventuno. Ventuno. Come il giorno
della morte di Near.
Spaventoso. o.o Non l'ho fatto apposta, chiaro. Non sono
così macabra. XD
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