La fiamma delle lanterne
era l’unica
cosa che riscaldava la piccola tenda.
Fece scaldare la lama del
coltello su una delle fiammelle fino a che non la ritenne abbastanza
disinfettata; pulì ancora un ultima volta quella piccola
ferita che sembrava aver smesso di sanguinare. Vicino a sé
aveva preparato una benda ed una compressa con le parti rimanenti della
camicia.
Afferrò
saldamente il braccio del dottore per evitare che facesse movimenti
improvvisi mentre usava il coltello.
Non era la prima volta che
si prendeva cura delle ferite di qualcuno.
Nessun bianco faceva curare
da un medico uno schiavo, era quindi normale che gli schiavi si
prendessero cura dei loro stessi compagni di sventura. Ed era logica
conseguenza che fossero a conoscenza di qualche rudimento di
assistenza. Di conoscenze tramandate più che altro e apprese
con la pratica.
Ma stavolta era diverso.
Non aveva mai assistito una persona che non fosse un nero, e per quanto
fosse da Schultz considerato un amico e un suo pari, si sentiva
improvvisamente responsabile, per la prima volta, della vita di un
bianco.
Realizzò che una
vita di schiavitù di violenze di soprusi, non solo lo aveva
fatto sentire diverso dai bianchi. Ma per la prima volta si rese conto
quanto nella sua anima fosse radicato l’odio per essi.
Di come l’odio
genera odio.
Tremava. Non sapeva per
cosa. Il freddo.La paura di sbagliare. La paura di non essere
all’altezza.
Forse un ricordo della
paura di venire punito, se avesse sbagliato.
Guardò negli
occhi l’uomo che aveva
sotto di se.
Vide in quegli occhi lucidi
di febbre e semichiusi dalla stanchezza non un uomo, ma un amico.
La
responsabilità che aveva era la vita di un amico, non di un
bianco.
Infilò la punta
del coltello nella ferita.
Il sangue
cominciò nuovamente ad
uscire, scese a coprire l’altra sua mano, fece in fretta a
cercare la pallottola e, fortunatamente senti subito la presenza di
quel pezzo di metallo nel muscolo. Allargò la ferita e vide
il
luccichio del proiettile nel sangue, lo mantenne in punta di coltello
e lo tirò fuori.
Il sangue dalla ferita
scorreva come un
fiume in piena. Il tempo di prendere un tampone fatto di stoffa,
premerlo sopra la lacerazione, che già la pelliccia su cui
giaceva
King si era insanguinata.
Django prese un profondo
respiro. E
cominciò a fasciare il braccio.
Compresse il più
possibile la ferita per fermare l’emorragia.
Guardò il
dottore. “Come va?” … Nessuna risposta.
Chinò la testa sul torace dell'uomo e senti il battito.
C’era.
Non forte e potente ma
c’era. Questo contava. Si pulì le mani dal sangue
e dal sudore, tocco il viso di King e lo trovò insolitamente
caldo per il freddo che faceva.
Sistemò
l’uomo nelle coperte, spostò la parte sporca di
sangue, lo adagiò in una posizione più comoda. Si
sdraiò nelle coperte di pelo anche lui e lo strinse a
sé. Faceva troppo freddo per stare distanti.
Come lo cinse con il
braccio lo sentì mormorare qualcosa. Ma non capiva le
parole, forse era tedesco, forse era un miscuglio di lingue, forse
erano solo suoni senza senso.
Ma una cosa la sentiva. La
paura nel tono della voce.
Sarebbe stata una lunga
notte.
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