Cinque meno dieci
Parole: 879
Disclaimer:
Julie, James, e la totalità di House M.D. non mi
appartengono. Forse sono miei George e la particolare visuale.
A/N: Mille
grazie alla mia preziosa β, Brassica.
Cinque meno
dieci
Ti svegli leggermente sudata e guardi l’ora. Non vedi le
familiari cifre rosse della sveglia e cerchi a tastoni il tuo orologio
da polso – moderno, elegante – sul comodino
leggermente troppo alto alla tua sinistra. Una rapida accensione
dell’abat-jour ti consente di scoprire che sono le cinque
meno dieci e il tuo primo pensiero è che, merda, in primo
luogo non dovevi addormentarti, non lì. Il secondo
è spegnere la luce, il terzo che il corpo accanto al tuo non
russa, ma respira lievemente, in un alternarsi di inspirazione ed
espirazione che sarebbero più adatti a qualcuno con dieci
chili in meno e la metà dei suoi anni. Cerchi di
ricostruirne allora, al buio, la fisionomia: la piega delle labbra, il
taglio degli occhi, il loro colore; e ti chiedi cosa abbia a che fare
lui, George Moritz, socio fondatore della Futura Inc., con il
tradimento di tuo marito. Ti sfiorano la speranza che lui significhi
veramente qualcosa e l’intuizione di svegliarlo per
riscoprirlo insieme, il motivo per cui sei lì. Ma
è un attimo, e già non puoi più
rimanere su quel letto.
Ti alzi e ti avvicini alla porta-finestra, affascinata dalla trama
della luce che penetra dalle serrande. Guardi fuori, sebbene tu non
possa vedere nulla, e pensi a James. Là, da qualche parte,
ma con ottima probabilità all’ospedale, a 40
minuti di strada da questa stanza d’albergo,
c’è tuo marito. Starà dormendo,
compilando cartelle – le ultime di ieri, le prime di oggi -,
confortando pazienti? Quale espressione staranno assumendo ora i suoi
lineamenti? E ti accorgi che del suo viso ricordi brevi istantanee
felici, non più recenti di due anni fa, poi occhiaie e
labbra piatte e sottili e un’ombra sul volto proiettata
dall’interno.
Quasi ridi ripensando alle prime notti delle prime notti da sola, alla
pena e al disprezzo che provavi per te stessa, alla certezza che era
germinata in te che lui ti tradisse, allo sconforto nel non trovare in
te un motivo che potesse spiegare la tua sventura.
Scoprire che l’amante, l’avversario, il nemico che
aveva strappato tuo marito alla tua legittima sovranità era
l’ospedale, ti aveva rincuorato per poco. Avevi deciso di
combattere questo esercito invasore, di riprendere possesso di
quell’anima e quel corpo che avevi eletto tuoi. Eri stata
più disponibile, più aperta, più
attenta. Ti eri interessata ai casi, ai pazienti. Avevi ascoltato,
avevi suscitato confidenze e sfoghi. Gli avevi tenuto la testa sulle
tue ginocchia e avevi cercato di lenire le preoccupazioni passando
dolce la tua mano tra i suoi capelli. Avevi dato, dato, dato.
E lui aveva scelto ancora quell’amante crudele che non faceva
che chiedere e chiedere, pretendere e ottenere, quei malati grigi a cui
sempre più lui andava assomigliando, quei bambini dai crani
lucidi, sgorbi dal sorriso sbilenco che occupavano nel suo cuore il
posto di quel figlio che tu mai avresti potuto dargli.
Un bambino. Un bambino avrebbe forse risolto tutto, ti avrebbe
riconsegnato il tuo bel marito e la gioia. Dopo molteplici tentativi
non andati a buon fine, gli esami vi avevano annunciato che non avreste
mai potuto dare alla luce un figlio vostro. Colpa tua. E lui ti aveva
abbracciata, le lacrime agli occhi, e aveva detto che non era un
problema, magari avreste potuto riflettere
sull’opportunità di un’adozione. E aveva
sorriso in quel modo che ti faceva capire che la nave stava colando a
picco ma lui sarebbe morto con te. E i tuoi muscoli si erano tesi come
in un ultimo disperato tentativo di saltare fuori da quella nave
perché no, tu non volevi morire lì.
Si sta facendo giorno, e più luce filtra nella stanza.
George non c’entra proprio nulla, anche se forse
s’illude del contrario. Non pensi che durerà a
lungo, e non sei disposta ad attendere il suo risveglio. Ti dirigi in
bagno e ti fai una doccia fredda in cui cerchi di non pensare a nulla,
e quando le lacrime ti scorrono sul volto appartengono a qualcun altro,
perché tu sei fredda, razionale, ambiziosa, posata, e non
provi niente, più niente per quel patetico marito, per il
tuo ventre vuoto e per l’imperturbabile respiro della stanza
accanto. Non ti importa nulla di tutto ciò, tu hai una vita
agiata e un lavoro molto ben retribuito e soddisfacente, e persone da
invitare a cena, e viaggi da fare quando non ne potrai più
di questa odiosa, monotona città.
Ti asciughi e ti vesti, raccogli con metodo le tue cose nella borsa ed
esci dalla stanza, poi dall’ascensore,
dall’albergo, e quando entri nel tuo studio noti che non ti
sei voltata indietro una volta.
Magari non vedrai più George. Magari stasera James
tornerà a casa presto e ti abbraccerà. Magari
potrai abbandonare il tuo progetto, il tuo proposito di indurire il
cuore fino a non sentire più dolore.
Ma tu sai che se anche George non chiamasse più, presto ci
sarà qualcuno a sostituirlo, e anche stasera,
inevitabilmente, qualcuno avrà bisogno di tuo marito, e lui
non tornerà a casa.
E conosci le ragioni di James, per avergliele sentite ripetere
centinaia di volte, e ti senti egoista nel pensare questo, ma non
riesci proprio ad immaginare, ora, come qualcuno possa avere bisogno di
lui più di te.
A/N 2: Che
ve ne pare? Verosimile? Assurda? Non me ne abbiate a male per come ho
trattato James (che adoro!) e i pazienti e la città di
Princeton; tutto sommato sentivo la necessità di una
narrazione quasi “verista”, che prendesse come
assiomi le percezioni e convinzioni di Julie. E anche la seconda
persona narrante è stata un esperimento. Ditemi qualcosa
(anche “crepa!” va bene).
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