La palazzina di mattoni rossi era soltanto un’ombra confusa
stagliata contro il manto scuro del cielo di notte.
Ryo si fermò davanti alla porta di casa sua, una mano che
stringeva possessivamente quella della donna, l’altra che
frugava senza fretta nella tasca destra dei suoi pantaloni, alla
ricerca delle chiavi.
La situazione gli sembrava così strana, quasi irreale.
Non era la prima volta che portava una donna a casa sua, ma adesso
avvertiva una sensazione insolita, che segretamente lo turbava, come se
qualcosa di ineluttabile stesse per accadere, come se il suo destino
stesse per compiersi.
Guardò di sottecchi la donna al suo fianco, che era rimasta
silenziosa da quando avevano lasciato il locale.
Lei si stava mangiucchiando le unghie della mano libera, in un gesto
nervoso e vagamente infantile. Il suo cuore si strinse in
un’ondata di inaspettata tenerezza, che lo lasciò
disorientato e senza fiato.
Cosa diavolo gli stava succedendo? Si stava comportando come un
ragazzino al suo primo appuntamento.
Finalmente trovò il portachiavi, infilò la chiave
nella toppa e con uno scatto metallico aprì la porta
blindata, trascinando la ragazza all’interno.
Per un attimo la debole luce dei lampioni proveniente dalla strada
illuminò l’uscio, proiettando le loro ombre
deformate sul pavimento del soggiorno.
Quando Ryo si chiuse la porta alle spalle, la stanza
sprofondò nelle tenebre.
L’uomo si mosse sicuro all’interno della piccola
stanza, quasi potesse vederla chiaramente anche al buio, conducendo la
donna su per le scale.
La sua camera da letto era la prima porta sulla sinistra, e ad ogni
passo che faceva in quella direzione, Ryo rafforzava la stretta sulla
mano piccola della donna.
Si accorse con stupore di avere i palmi delle mani umidi, e si chiese
imbarazzato se lei lo avesse notato.
Ma la donna si guardava attorno, il suo sguardo nascosto dietro le
lenti scure degli occhiali scivolava lento sull’armadio, sul
comodino, fino a posarsi sul letto matrimoniale che campeggiava al
centro della stanza.
Ryo le chiese “Hai paura?”, e la voce gli
uscì strozzata dalla gola, e si vergognò
perché per qualche assurda e oscura ragione era lui
ad essere spaventato.
La donna disse “No”, poi si allontanò da
lui, mettendosi di fronte alla finestra, dandogli le spalle.
Gettò la borsetta sul letto e lentamente si sfilò
il tubino nero, lasciandolo cadere ai suoi piedi.
Quando si voltò indossava solo la biancheria intima e gli
occhiali da sole, e Ryo deglutì, piano.
Lei scavalcò agilmente il vestito, avvicinandosi a lui, a
lui che la guardava soltanto, incapace di muoversi – e i
tacchi facevano quel rumore, tac tac tac,
così curiosamente sincronizzato con il battito accelerato
del suo cuore.
Si fermò ad un passo da lui, così vicina che Ryo
poteva sentire il suo respiro lento e regolare.
Lui annullò la distanza che li separava, le prese il viso
tra le mani e la baciò.
Le sue labbra erano dischiuse, e morbide, proprio come si era
aspettato. Ma c’era qualcosa di strano, come una nota stonata
che disturbasse l’armonia di quel bacio altrimenti perfetto.
Si staccò da lei, confuso, guardandola, e gli ci volle
qualche secondo per rendersi conto che gli occhi della donna erano
ancora celati dagli occhiali da sole.
Li afferrò e glieli tolse delicatamente, aspettandosi quasi
che lei si opponesse. Ma la donna rimase immobile, con il viso basso,
così Ryo poggiò gli occhiali sul comodino e la
trascinò sul letto.
Si stese sul materasso accanto a lei, puntellandosi su un gomito per
poterla osservare, ma la donna ancora non lo guardava.
La pallida luce della luna, proveniente dalla finestra, gettava
un’ombra perlacea sui loro corpi immobili.
Ryo le prese il volto tra le mani, inclinandolo di lato, esponendo il
suo viso a quel delicato chiarore.
E allora lei finalmente lo guardò, e i loro sguardi si
incontrarono, e improvvisamente il mondo scomparve e gli
sembrò di essere tornato indietro di dieci anni, quando era
rimasto inerme a fissare gli occhi grandi – troppo grandi per
un viso così piccolo – di una bambina distesa in
una botola, con la schiena premuta contro il duro e freddo pavimento di
terra, una bambina che indossava una salopette e una magliettina giallo
canarino.
E capì chi fosse la misteriosa donna seminuda che teneva tra
le braccia, e capì cosa sarebbe successo quella notte.
In fondo l’aveva sempre saputo, dal momento stesso in cui lei
si era seduta allo sgabello accanto al suo in quel night club.
Aveva semplicemente deciso di non vedere, di illudersi che il passato
non l’avrebbe mai raggiunto, un passato che non era sepolto e
che mai lo sarebbe stato.
Chiuse gli occhi, stupendosi di quanto si sentisse sorprendentemente
tranquillo.
Un’esistenza intera – tutta la sua vita –
scandita dalla lotta per la sopravvivenza, tesa a sgusciare dalla presa
della Morte, più per istinto di perpetuazione della razza
che per reale attaccamento alla vita.
E adesso la morte era vicina, così vicina, e lui non si
sentiva assolutamente turbato.
Anzi, le si gettava tra le braccia, proprio come si era gettato tra le
braccia di quella donna misteriosa che adesso lo fissava e doveva aver
capito dalla sua espressione di consapevolezza che lui aveva compreso
ogni cosa.
Gli occhiali da sole, l’audace e inaspettato invito, la
borsetta che giaceva sul letto accanto al fianco della donna, a portata
di mano - ora tutto acquistava un significato ben preciso; quei
dettagli, all’apparenza insignificanti, erano tasselli di un
puzzle di cui solo adesso intuiva il disegno.
Sempre ad occhi chiusi, si lasciò cadere supino sul letto, e
visto che la donna non parlava, lo fece lui.
“Tu, donna misteriosa, sei la figlia minore di Shinichi
Makimura”, disse, stupidamente.
Il silenzio si protrasse per alcuni minuti, tanto che Ryo
aprì gli occhi per verificare che lei fosse ancora
lì, e che quello non fosse solo uno scherzo giocatogli dalla
mente magari obnubilata dall’alcool.
Ma lei era lì, eterea e tangibile insieme, allo stesso tempo
nube perlacea e corposo chiaroscuro.
E lo stava guardando con degli occhi che gli parvero, per un folle
momento, carichi di dolcezza.
Kaori non disse nulla. Attese. Allora Ryo continuò.
“Dieci anni fa hai visto tre uomini uccidere a sangue freddo
tuo padre e tuo fratello. Io sono l’unico
sopravvissuto.”
La donna continuò a rimanere in silenzio, fissandolo con
quegli occhi brillanti e ferini.
“Mi hai cercato per tutto questo tempo, studiando le mie
abitudini. Sapevi che non avrei mai rifiutato l’invito di una
donna bella come te.”
Parlava tranquillo, come se stesse raccontando un sogno che aveva fatto
la notte precedente, non era nervoso.
“Adesso mi hai trovato”, concluse, sempre con
quella attonita tranquillità che ancora lo stupiva. Vide la
donna rabbrividire.
Era ancora seminuda, e la stanza era gelida, ma qualcosa nel modo in
cui lei strinse gli occhi gli fece capire che non era il freddo, a
farla tremare.
Ma lo stesso si alzò e frugò
nell’armadio alla ricerca di una coperta, che le
sistemò sulle spalle nude e pallide.
Lei sembrò sconcertata da quel gesto, ma mai quanto lo era
lui stesso.
Sapeva che quella donna era venuta lì per ucciderlo, sapeva
che nascondeva una pistola nella sua borsetta, sapeva che
l’alba del giorno seguente avrebbe illuminato il suo corpo
gelato ed esangue, abbandonato sul copriletto, le membra scomposte come
quelle di un inutile fantoccio.
E sapeva anche di essere fisicamente più forte della donna,
e che sarebbe bastato un semplice gesto per fermarla, un semplice gesto
che gli avrebbe salvato la vita.
Ma lui sentiva di meritare quella punizione, per
tutto il male che aveva inflitto in passato a persone infinitamente
più innocenti di lui.
E aveva come l’impressione che lei avesse capito che questa
volta non si sarebbe sottratto alla morte, che anzi le avrebbe
spalancato le braccia senza pensarci due volte.
Un nemico, una malattia, la vecchiaia, la sua stessa
stupidità – sarebbe morto, prima o poi, per una di
queste ragioni, e allora perché togliere a quella giovane
donna l’unica cosa che le fosse rimasta, la vendetta?
Si sedette sul letto accanto a lei, sorridendole come per
incoraggiarla, ansioso di farle comprendere che tutto sarebbe andato
bene.
Lei si sistemò una ciocca di capelli dietro
l’orecchio, poi cominciò inaspettatamente a
parlare.
“Quando ero bambina, il mio nome era Kaori. Ma da allora
nessuno mi chiama più con quel nome. Da quel giorno Kaori
non esiste più, è solo un cadavere carbonizzato
in una fattoria ormai inesistente. Adesso mi chiamano Maria, o Viola, o
Nina, ed ho tanti nomi diversi, e in fondo non sono nessuno.”
“Dopo quel giorno ricordo un orfanotrofio,
all’inizio, dove tutti si preoccupavano molto per me.
Dicevano che fossi stata miracolata da Dio, mi chiamavano “la
sopravvissuta”. Io ascoltavo e non capivo, e per anni non ho
ricordato niente di quello che era successo prima
dell’orfanotrofio. È come se fossi venuta al mondo
direttamente in quel luogo, e nulla esistesse al di fuori di quelle
quattro mura. Mi dissero che mio padre e mio fratello erano stati
uccisi dall’esercito, ma per me erano parole insensate,
perché nessun padre e nessun fratello erano presenti nei
miei ricordi. Inizialmente le infermiere pensavano che semplicemente
non volessi parlare di quello che mi era successo quella mattina, e non
insistevano, persuase che ricordare quei momenti avrebbe significato
per me riviverli una seconda volta. Fu soltanto dopo cinque anni che si
resero conto che avevo subito un’amnesia.”
“Avevo dieci anni, e finalmente mi ero decisa a chiedere chi
fossero quell’Hideyuki e quello Shinichi di cui tutti mi
parlavano. Ricordo il viso sconvolto dell’infermiera, la sua
improvvisa comprensione. Nel tentativo di restituirmi la memoria mi
portarono a Pueblo, davanti a quella che per cinque anni era stata la
mia casa e che adesso era meno di un cumulo di macerie. Mi raccontarono
dell’agguato alla fattoria, di quei tre soldati
dell’esercito federale che avevano ucciso a sangue freddo mio
padre e mio fratello, e poi avevano appiccato il fuoco alla casa.
Dissero che un contadino aveva sentito le mie urla, e si era gettato
tra le fiamme. Mi aveva trovata in una botola, ancora distesa sul
pavimento di terra. Quell’uomo mi ha salvato la vita, ma non
sono nemmeno riuscita a ringraziarlo. Mi ha portata
all’orfanotrofio del paese più vicino, affidandomi
alle cure delle infermiere e delle suore. Ma il suo corpo era ricoperto
di vesciche e scottature, ed è morto dopo due ore.”
La donna fece una pausa. Ryo pensò che era strano il modo in
cui lei stava raccontando la sua vita. Il suo tono era pacato,
misurato, quasi freddo ed indifferente. Sembrava che stesse parlando di
un’altra persona. Aprì la bocca per dirle questi
pensieri, ma poi si ricordò che quello era lo stesso tono
che lui stesso usava le rare volte in cui aveva parlato a qualcuno del
suo passato, così la richiuse e stette zitto.
“Quando rividi quella terra bruciata, quelle pietre
accatastate senza ordine e annerite dal fumo, ricordai ogni cosa. Mio
padre e mio fratello, le gite al fiume, le torte di mele. E con i
ricordi felici tornarono anche quelli dolorosi, e io mi costrinsi a
ricordarli dal primo all’ultimo momento, senza mai chiudere
gli occhi, guardavo il nulla dove un tempo avevo vissuto felice e
rivivevo ogni secondo di quel giorno che distrusse per sempre ogni
felicità possibile.”
“L’infermiera mi chiese se avessi ricordato qualche
cosa, ma io dissi di no. Quella stessa notte fuggii
dall’orfanotrofio, quelle immagini ben impresse nella mente,
e la vendetta bruciante nel cuore.”
Ryo pensò a Kaibara. Quel giorno, dopo l’agguato
alla fattoria dei Makimura, era fuggito dall’accampamento
nella giungla e non aveva mai più rivisto quello che per
anni aveva considerato un padre. Ma Ryo sapeva che era stato Shin, il
primo a pagare per aver osato destare la ferocia dei bambini. Era morto
una fredda sera di ottobre, apparentemente avvelenato, ma qualcuno
mormorava che una ragazza bellissima dai capelli rossi fosse stata la
sua ultima compagnia. La Polizia non l’aveva mai trovata,
qualcuno disse che si chiamava Viola e che era arrivata in
città da pochi giorni, ma sembrava che si fosse dileguata
nel nulla.
Kaori sembrò seguire il corso dei suoi pensieri,
perché riprese a parlare.
“Shin Kaibara fu il primo. Era in Corea per affari, quando lo
uccisi. Stava smerciando una partita di una droga sintetizzata da lui
stesso, la Polvere degli Angeli. Non è stato facile restare
da sola con lui, era sempre circondato da guardie del corpo armate fino
ai denti. Mi sono finta una viziata ragazzina desiderosa di provare uno
sballo nuovo, ma non ha funzionato come avrei voluto, perché
gli scimmioni erano sempre nei paraggi. Ma Kaibara era un uomo volubile
ed estremamente narciso: mi è bastato sussurrargli due
paroline all’orecchio e ha subito allontanato le guardie del
corpo. Mi ha portata in un albergo promettendomi il Paradiso, e io
l’ho spedito dritto dritto all’Inferno. Quando
scoprirono il corpo, il giorno dopo, avevo già lasciato il
Paese.”
Ancora una volta si sorprese della freddezza con cui lei parlava.
D’altronde, aveva soltanto fatto un dono
all’umanità, uccidendo quel bastardo di Kaibara.
“Quanti anni avevi?”
“Sedici. Avevo vissuto gli ultimi sei anni pianificando la
morte di un uomo.”
Adesso, si rese conto Ryo, i suoi occhi erano lucidi e la sua voce
tremava leggermente, come se all’improvviso la vita fosse
tornata ad animare quel guscio altrimenti vuoto. Ma fu soltanto un
attimo, perché quando lei parlò di nuovo, non
c’era traccia di debolezza nella sua voce.
“Poi toccò a William Spencer. Si faceva chiamare
l’Americano, e ci misi due anni per mettermi sulle sue
tracce. Un contadino di Pueblo mi aveva detto che era stato lui ad
appiccare il fuoco alla casa, nonostante mio padre e mio fratello
fossero già morti. Gli sparai alle spalle, perché
è così che meritava di morire un vigliacco come
lui.”
Ryo ricordava di aver sentito che il cadavere dell’Americano
era stato ritrovato con un proiettile nella schiena, a faccia in
giù nel letame. E allora aveva capito tutto, aveva collegato
la morte di Shin a quella di Spencer e aveva capito che il prossimo
sarebbe stato lui. Sentì il bisogno di dirle ciò
che stava pensando.
“Dopo la morte dell’Americano, ho cominciato ad
aspettarti. Sapevo che nulla avrebbe potuto fermarti e che saresti
arrivata anche da me, prima o poi. Ma sapevo anche che non mi avresti
mai sparato alle spalle, e che non avresti mai assoldato qualcuno per
uccidermi. Saresti venuta tu, mi avresti guardato negli occhi come quel
giorno di dieci anni fa e mi avresti parlato come stai facendo
adesso.”
E poi mi avresti ucciso, pensò, ma non lo disse. Tutto
quello che doveva esser detto era ormai stato detto, adesso rimaneva
soltanto il silenzio, l’attimo infinitesimale che precede la
fine e l’inizio di ogni cosa.
“L’avevi mai conosciuto, mio padre? Sapevi chi era,
perché stavate per ucciderlo?”
Adesso la voce di lei era acuta ed incrinata, e Ryo ne fu quasi
sollevato, quel gelido controllo di prima gli faceva paura. Ma non
sapeva cosa dire, così disse semplicemente la
verità.
“No. Ma quella era la guerra.”
Ricordava quel bigliettino, il nome scritto sopra, “Shinichi
Makimura” diceva il bigliettino, e lui non si era mai chiesto
chi fosse, pensava soltanto che quello sarebbe stato l’ultimo
uomo che avrebbe ucciso, e poi la guerra, almeno per lui, sarebbe
finita. Che stupido, si disse, la guerra non finisce mai, soltanto
adesso, un attimo prima di morire, posso dire che la guerra sia davvero
finita.
“Mio padre era un uomo splendido. Cosa vuol dire, che quella
era la guerra?”
“Bisognava fare quello che ci veniva ordinato.”
“Anche uccidere dei bambini?”
“Tu non capisci.”
“Allora spiegamelo.”
“Lasciami in pace. Fai quello che devi fare, ma lasciami in
pace.”
“Spiegami le vostre ragioni.”
“Lasciami in pace, ti prego.”
“Spiegami quale ragione ti ha portato ad
uccidere un uomo che nemmeno conoscevi. E un bambino che aveva la tua
stessa età.”
Ryo non rispose. Stranito, si portò una mano alla guancia,
avvertendo una sensazione di fastidioso umidore. E infatti le dita
erano umide, quando le ritrasse, umide di quelle che sembravano
– si rese conto agghiacciato – lacrime.
Rimase a fissarsi le dita per svariati secondi. Aveva sempre pensato al
pianto come a qualcosa di stupidamente patetico e fondamentalmente
inutile, acqua e sale, muco, grottesche smorfie del viso.
Non ricordava di aver mai pianto, per questo la semplicità
disarmante con cui quella lacrima era scivolata fino al suo mento lo
aveva colto di sorpresa.
Guardò la donna di sottecchi, adesso imbarazzato,
chiedendosi se lei si fosse accorta di qualcosa e gli occhi di Kaori
resero immediatamente palese quello Ryo che aveva temuto.
“Che importa in fondo, tanto tra qualche istante
morirò e questa lacrima non significherà
più nulla.”
Ma adesso bruciava, come se una scia infuocata avesse solcato la sua
guancia, perché si rese conto che non aveva pianto solo con
gli occhi ma anche con l’anima, quel luogo oscuro che pensava
di non aver mai posseduto, o quanto meno di non possedere
più.
Si impose di smetterla di pensare, e di dare così tanta
importanza ad un fenomeno fisiologico come quello del frignare.
Kaori si schiarì la voce.
“Posso chiederti un’ultima cosa?”, gli
disse.
E così la fine è vicina, pensò Ryo.
Non gli era sfuggito quell’aggettivo, lei non aveva detto
“una cosa”, aveva detto
“un’ultima cosa”.
“Certo.”
“Quel giorno mio padre mi aveva nascosta in una botola in
cantina. Tu hai aperto la botola, io mi sono girata e per un attimo ci
siamo guardati. Ti ricordi?”
Ryo la guardò negli occhi, di nuovo, attentamente, e allora
finalmente gli parve di ritrovare nella bellezza stanca della donna che
aveva di fronte, l’innocenza e le perfezione di quella
bambina che lo fissava da un buco nel pavimento.
Le disse che si ricordava tutto, e che non aveva fatto altro, in tutti
quegli anni, che aspettarla e ricordare ogni cosa.
Poi tacque, aspettando che lei si decidesse a fare quello per cui era
venuta.
Kaori fissò l’uomo che aveva di fronte.
Lo aveva cercato invano per quasi sei anni, mentre la sua vita si
logorava in quella ricerca snervante, e i giorni i mesi e gli anni le
scivolavano tra le dita nell’attesa.
Adesso lui sedeva sul suo letto, sconfitto, inerme. Sapeva che non si
sarebbe opposto, l’aveva capito nel momento stesso in cui si
erano guardati negli occhi, appena qualche minuto prima.
Cercò a tentoni la borsetta, senza smettere di guardarlo.
Lui aveva la testa bassa, in un atteggiamento che era di penitenza e di
sconfitta insieme.
Il metallo tra le dita, freddo, pesante. Pesante quanto la
responsabilità di porre fine ad una vita umana.
Era stato così facile per gli altri due, dopo aver premuto
il grilletto era andata via senza nemmeno voltarsi.
Li aveva guardati negli occhi, prima di ucciderli, e nei non aveva
scorto nessuna traccia di comprensione, o di consapevolezza, o di
pentimento.
Ma quella lacrima. E quegli occhi vuoti, così simili ai
suoi. E quelle parole – “ non ho fatto altro, in
tutti questi anni, che aspettarti e ricordare ogni cosa.”
Lui era riuscito a destabilizzarla.
Incertezza: la mano le tremava, mentre toglieva la sicura alla Beretta.
Stanchezza: aveva vissuto per quello, per la vendetta, ma adesso si
sentiva solo stremata, come se il suo corpo avesse trattenuto troppa
rabbia, troppo a lungo, e poi la rabbia l’avesse abbandonata
di colpo, lasciandola solo come istupidita e intimamente spossata.
Tra qualche secondo avrebbe ucciso quell’uomo non per sete di
vendetta, si rese conto con sgomento – ma solo per routine,
per un distorto senso del dovere.
Ma lei non doveva uccidere nessuno,
perché nessuno le aveva imposto di farsi giustizia da sola.
Non suo padre, non suo fratello.
La gabbia mentale – la vendetta – in cui aveva
vissuto per tutti quegli anni, se l’era creata da sola.
E vi era rimasta imprigionata, avviluppata dalle spirali
dell’odio, assorbita soltanto da quell’ira ormai
vuota, tanto che aveva quasi dimenticato i volti di suo fratello e di
suo padre, scordando quello che di buono lui le aveva insegnato.
“Lui non avrebbe voluto che io facessi questo”,
pensò. “Mio padre non avrebbe voluto che io
facessi questo.”
Continuò a pensare quella frase, come una nenia silenziosa,
gli occhi sbarrati, spalancati nel buio, la mano che impugnava la
pistola ancora sollevata a mezz’aria, contro il torace
dell’uomo.
E poi, tutto esplose nella sua testa, e le sbarre della gabbia mentale
si infransero. Si sentì libera – non doveva
fare niente, il suo destino non era già scritto,
l’odio non era più il suo ossigeno.
Non poteva cambiare il passato, ma adesso niente le avrebbe impedito di
sperare nel futuro.
Kaori era felice, di una felicità semplice e commossa che
non provava più da tanto, troppo tempo.
Sbirciò nuovamente in direzione di Ryo, ma adesso lo vedeva
come un uomo, e non più come l’ultimo
uomo.
E se avesse ricominciato proprio da lì, da quel viso di
bambino proteso verso il suo?
E se avessero ricominciato entrambi da
lì, da dove tutto era finito?
Sentiva, curiosamente, che quell’uomo sarebbe stato
importante per lei – l’aveva percepito
inconsciamente già quel giorno lontano di dieci anni prima.
Le sarebbe piaciuto conoscerlo meglio, imparare a comprendere i suoi
sguardi e i suoi silenzi.
Si rese conto di avere ancora la pistola puntata contro di lui,
così si affrettò ad abbassare la mano, rimise la
sicura e poggiò l’arma sul pavimento.
Ryo doveva essersi accorto di qualcosa, perché
sollevò la testa e la guardò, rivolgendole con
gli occhi una muta domanda.
Ma adesso non aveva voglia di parlare. Per quello, ci sarebbe stato
tutto il tempo di questo mondo.
Si avvicinò a lui, lentamente. L’uomo la
guardò sconcertato, ma non si mosse e non fece commenti, e
Kaori gliene fu intimamente grata.
Si mise sul fianco, poi tirò su le ginocchia verso il petto
in posizione fetale, le gambe perfettamente allineate – con
rigore geometrico, aveva pensato Ryo allora, ed era la stessa cosa che
pensò adesso.
L’uomo sorrise leggermente, forse intuendo i pensieri di
Kaori, forse per il semplice gusto di sorridere.
La donna appoggiò la fronte contro la spalla di Ryo,
rannicchiandosi nella coperta che lui le aveva dato.
Poi chiuse gli occhi e si addormentò.
Non c’è differenza: odio e amore sono le
due facce della stessa medaglia.
Così come vendetta e perdono.
Cos’è in fondo il perdono, se non la
più sottile forma di vendetta?
Il perdono è una vendetta appagante, paziente, e crudelmente
dolce.
Ma senza sangue.
FINE
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