Anime & Manga > City Hunter/Angel Heart
Segui la storia  |       
Autore: iusip    12/09/2007    1 recensioni
Questa ff è una AU, ambientata nel periodo in cui Ryo combatte come soldato nel Sud America. Shinichi Makimura è padre di due bambini, un maschio e una femmina. Soltanto la bambina sopravvive al massacro che colpisce la famiglia. Dopo 20 anni, Ryo Saeba e Kaori Makimura si incontrano di nuovo. Ma, questa volta, SENZA SANGUE. (Ispirato al romanzo omonimo di Baricco.) Buona lettura.
Genere: Romantico, Triste, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio, Hideyuki Makimura/Jeff, Kaori/Greta, Ryo Saeba/Hunter
Note: Alternate Universe (AU), What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
La palazzina di mattoni rossi era soltanto un’ombra confusa stagliata contro il manto scuro del cielo di notte.

Ryo si fermò davanti alla porta di casa sua, una mano che stringeva possessivamente quella della donna, l’altra che frugava senza fretta nella tasca destra dei suoi pantaloni, alla ricerca delle chiavi.

La situazione gli sembrava così strana, quasi irreale.

Non era la prima volta che portava una donna a casa sua, ma adesso avvertiva una sensazione insolita, che segretamente lo turbava, come se qualcosa di ineluttabile stesse per accadere, come se il suo destino stesse per compiersi.

Guardò di sottecchi la donna al suo fianco, che era rimasta silenziosa da quando avevano lasciato il locale.

Lei si stava mangiucchiando le unghie della mano libera, in un gesto nervoso e vagamente infantile. Il suo cuore si strinse in un’ondata di inaspettata tenerezza, che lo lasciò disorientato e senza fiato.

Cosa diavolo gli stava succedendo? Si stava comportando come un ragazzino al suo primo appuntamento.

Finalmente trovò il portachiavi, infilò la chiave nella toppa e con uno scatto metallico aprì la porta blindata, trascinando la ragazza all’interno.

Per un attimo la debole luce dei lampioni proveniente dalla strada illuminò l’uscio, proiettando le loro ombre deformate sul pavimento del soggiorno.

Quando Ryo si chiuse la porta alle spalle, la stanza sprofondò nelle tenebre.

L’uomo si mosse sicuro all’interno della piccola stanza, quasi potesse vederla chiaramente anche al buio, conducendo la donna su per le scale.

La sua camera da letto era la prima porta sulla sinistra, e ad ogni passo che faceva in quella direzione, Ryo rafforzava la stretta sulla mano piccola della donna.

Si accorse con stupore di avere i palmi delle mani umidi, e si chiese imbarazzato se lei lo avesse notato.

Ma la donna si guardava attorno, il suo sguardo nascosto dietro le lenti scure degli occhiali scivolava lento sull’armadio, sul comodino, fino a posarsi sul letto matrimoniale che campeggiava al centro della stanza.

Ryo le chiese “Hai paura?”, e la voce gli uscì strozzata dalla gola, e si vergognò perché per qualche assurda e oscura ragione era lui ad essere spaventato.

La donna disse “No”, poi si allontanò da lui, mettendosi di fronte alla finestra, dandogli le spalle.

Gettò la borsetta sul letto e lentamente si sfilò il tubino nero, lasciandolo cadere ai suoi piedi.

Quando si voltò indossava solo la biancheria intima e gli occhiali da sole, e Ryo deglutì, piano.

Lei scavalcò agilmente il vestito, avvicinandosi a lui, a lui che la guardava soltanto, incapace di muoversi – e i tacchi facevano quel rumore, tac tac tac, così curiosamente sincronizzato con il battito accelerato del suo cuore.

Si fermò ad un passo da lui, così vicina che Ryo poteva sentire il suo respiro lento e regolare.

Lui annullò la distanza che li separava, le prese il viso tra le mani e la baciò.

Le sue labbra erano dischiuse, e morbide, proprio come si era aspettato. Ma c’era qualcosa di strano, come una nota stonata che disturbasse l’armonia di quel bacio altrimenti perfetto.

Si staccò da lei, confuso, guardandola, e gli ci volle qualche secondo per rendersi conto che gli occhi della donna erano ancora celati dagli occhiali da sole.

Li afferrò e glieli tolse delicatamente, aspettandosi quasi che lei si opponesse. Ma la donna rimase immobile, con il viso basso, così Ryo poggiò gli occhiali sul comodino e la trascinò sul letto.

Si stese sul materasso accanto a lei, puntellandosi su un gomito per poterla osservare, ma la donna ancora non lo guardava.

La pallida luce della luna, proveniente dalla finestra, gettava un’ombra perlacea sui loro corpi immobili.

Ryo le prese il volto tra le mani, inclinandolo di lato, esponendo il suo viso a quel delicato chiarore.

E allora lei finalmente lo guardò, e i loro sguardi si incontrarono, e improvvisamente il mondo scomparve e gli sembrò di essere tornato indietro di dieci anni, quando era rimasto inerme a fissare gli occhi grandi – troppo grandi per un viso così piccolo – di una bambina distesa in una botola, con la schiena premuta contro il duro e freddo pavimento di terra, una bambina che indossava una salopette e una magliettina giallo canarino.

E capì chi fosse la misteriosa donna seminuda che teneva tra le braccia, e capì cosa sarebbe successo quella notte.

In fondo l’aveva sempre saputo, dal momento stesso in cui lei si era seduta allo sgabello accanto al suo in quel night club.

Aveva semplicemente deciso di non vedere, di illudersi che il passato non l’avrebbe mai raggiunto, un passato che non era sepolto e che mai lo sarebbe stato.

Chiuse gli occhi, stupendosi di quanto si sentisse sorprendentemente tranquillo.

Un’esistenza intera – tutta la sua vita – scandita dalla lotta per la sopravvivenza, tesa a sgusciare dalla presa della Morte, più per istinto di perpetuazione della razza che per reale attaccamento alla vita.

E adesso la morte era vicina, così vicina, e lui non si sentiva assolutamente turbato.

Anzi, le si gettava tra le braccia, proprio come si era gettato tra le braccia di quella donna misteriosa che adesso lo fissava e doveva aver capito dalla sua espressione di consapevolezza che lui aveva compreso ogni cosa.

Gli occhiali da sole, l’audace e inaspettato invito, la borsetta che giaceva sul letto accanto al fianco della donna, a portata di mano - ora tutto acquistava un significato ben preciso; quei dettagli, all’apparenza insignificanti, erano tasselli di un puzzle di cui solo adesso intuiva il disegno.

Sempre ad occhi chiusi, si lasciò cadere supino sul letto, e visto che la donna non parlava, lo fece lui.

“Tu, donna misteriosa, sei la figlia minore di Shinichi Makimura”, disse, stupidamente.

Il silenzio si protrasse per alcuni minuti, tanto che Ryo aprì gli occhi per verificare che lei fosse ancora lì, e che quello non fosse solo uno scherzo giocatogli dalla mente magari obnubilata dall’alcool.

Ma lei era lì, eterea e tangibile insieme, allo stesso tempo nube perlacea e corposo chiaroscuro.

E lo stava guardando con degli occhi che gli parvero, per un folle momento, carichi di dolcezza.

Kaori non disse nulla. Attese. Allora Ryo continuò.

“Dieci anni fa hai visto tre uomini uccidere a sangue freddo tuo padre e tuo fratello. Io sono l’unico sopravvissuto.”

La donna continuò a rimanere in silenzio, fissandolo con quegli occhi brillanti e ferini.

“Mi hai cercato per tutto questo tempo, studiando le mie abitudini. Sapevi che non avrei mai rifiutato l’invito di una donna bella come te.”

Parlava tranquillo, come se stesse raccontando un sogno che aveva fatto la notte precedente, non era nervoso.

“Adesso mi hai trovato”, concluse, sempre con quella attonita tranquillità che ancora lo stupiva. Vide la donna rabbrividire.

Era ancora seminuda, e la stanza era gelida, ma qualcosa nel modo in cui lei strinse gli occhi gli fece capire che non era il freddo, a farla tremare.

Ma lo stesso si alzò e frugò nell’armadio alla ricerca di una coperta, che le sistemò sulle spalle nude e pallide.

Lei sembrò sconcertata da quel gesto, ma mai quanto lo era lui stesso.

Sapeva che quella donna era venuta lì per ucciderlo, sapeva che nascondeva una pistola nella sua borsetta, sapeva che l’alba del giorno seguente avrebbe illuminato il suo corpo gelato ed esangue, abbandonato sul copriletto, le membra scomposte come quelle di un inutile fantoccio.

E sapeva anche di essere fisicamente più forte della donna, e che sarebbe bastato un semplice gesto per fermarla, un semplice gesto che gli avrebbe salvato la vita.

Ma lui sentiva di meritare quella punizione, per tutto il male che aveva inflitto in passato a persone infinitamente più innocenti di lui.

E aveva come l’impressione che lei avesse capito che questa volta non si sarebbe sottratto alla morte, che anzi le avrebbe spalancato le braccia senza pensarci due volte.

Un nemico, una malattia, la vecchiaia, la sua stessa stupidità – sarebbe morto, prima o poi, per una di queste ragioni, e allora perché togliere a quella giovane donna l’unica cosa che le fosse rimasta, la vendetta?

Si sedette sul letto accanto a lei, sorridendole come per incoraggiarla, ansioso di farle comprendere che tutto sarebbe andato bene.

Lei si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, poi cominciò inaspettatamente a parlare.

“Quando ero bambina, il mio nome era Kaori. Ma da allora nessuno mi chiama più con quel nome. Da quel giorno Kaori non esiste più, è solo un cadavere carbonizzato in una fattoria ormai inesistente. Adesso mi chiamano Maria, o Viola, o Nina, ed ho tanti nomi diversi, e in fondo non sono nessuno.”

“Dopo quel giorno ricordo un orfanotrofio, all’inizio, dove tutti si preoccupavano molto per me. Dicevano che fossi stata miracolata da Dio, mi chiamavano “la sopravvissuta”. Io ascoltavo e non capivo, e per anni non ho ricordato niente di quello che era successo prima dell’orfanotrofio. È come se fossi venuta al mondo direttamente in quel luogo, e nulla esistesse al di fuori di quelle quattro mura. Mi dissero che mio padre e mio fratello erano stati uccisi dall’esercito, ma per me erano parole insensate, perché nessun padre e nessun fratello erano presenti nei miei ricordi. Inizialmente le infermiere pensavano che semplicemente non volessi parlare di quello che mi era successo quella mattina, e non insistevano, persuase che ricordare quei momenti avrebbe significato per me riviverli una seconda volta. Fu soltanto dopo cinque anni che si resero conto che avevo subito un’amnesia.”

“Avevo dieci anni, e finalmente mi ero decisa a chiedere chi fossero quell’Hideyuki e quello Shinichi di cui tutti mi parlavano. Ricordo il viso sconvolto dell’infermiera, la sua improvvisa comprensione. Nel tentativo di restituirmi la memoria mi portarono a Pueblo, davanti a quella che per cinque anni era stata la mia casa e che adesso era meno di un cumulo di macerie. Mi raccontarono dell’agguato alla fattoria, di quei tre soldati dell’esercito federale che avevano ucciso a sangue freddo mio padre e mio fratello, e poi avevano appiccato il fuoco alla casa. Dissero che un contadino aveva sentito le mie urla, e si era gettato tra le fiamme. Mi aveva trovata in una botola, ancora distesa sul pavimento di terra. Quell’uomo mi ha salvato la vita, ma non sono nemmeno riuscita a ringraziarlo. Mi ha portata all’orfanotrofio del paese più vicino, affidandomi alle cure delle infermiere e delle suore. Ma il suo corpo era ricoperto di vesciche e scottature, ed è morto dopo due ore.”

La donna fece una pausa. Ryo pensò che era strano il modo in cui lei stava raccontando la sua vita. Il suo tono era pacato, misurato, quasi freddo ed indifferente. Sembrava che stesse parlando di un’altra persona. Aprì la bocca per dirle questi pensieri, ma poi si ricordò che quello era lo stesso tono che lui stesso usava le rare volte in cui aveva parlato a qualcuno del suo passato, così la richiuse e stette zitto.

“Quando rividi quella terra bruciata, quelle pietre accatastate senza ordine e annerite dal fumo, ricordai ogni cosa. Mio padre e mio fratello, le gite al fiume, le torte di mele. E con i ricordi felici tornarono anche quelli dolorosi, e io mi costrinsi a ricordarli dal primo all’ultimo momento, senza mai chiudere gli occhi, guardavo il nulla dove un tempo avevo vissuto felice e rivivevo ogni secondo di quel giorno che distrusse per sempre ogni felicità possibile.”

“L’infermiera mi chiese se avessi ricordato qualche cosa, ma io dissi di no. Quella stessa notte fuggii dall’orfanotrofio, quelle immagini ben impresse nella mente, e la vendetta bruciante nel cuore.”

Ryo pensò a Kaibara. Quel giorno, dopo l’agguato alla fattoria dei Makimura, era fuggito dall’accampamento nella giungla e non aveva mai più rivisto quello che per anni aveva considerato un padre. Ma Ryo sapeva che era stato Shin, il primo a pagare per aver osato destare la ferocia dei bambini. Era morto una fredda sera di ottobre, apparentemente avvelenato, ma qualcuno mormorava che una ragazza bellissima dai capelli rossi fosse stata la sua ultima compagnia. La Polizia non l’aveva mai trovata, qualcuno disse che si chiamava Viola e che era arrivata in città da pochi giorni, ma sembrava che si fosse dileguata nel nulla.

Kaori sembrò seguire il corso dei suoi pensieri, perché riprese a parlare.

“Shin Kaibara fu il primo. Era in Corea per affari, quando lo uccisi. Stava smerciando una partita di una droga sintetizzata da lui stesso, la Polvere degli Angeli. Non è stato facile restare da sola con lui, era sempre circondato da guardie del corpo armate fino ai denti. Mi sono finta una viziata ragazzina desiderosa di provare uno sballo nuovo, ma non ha funzionato come avrei voluto, perché gli scimmioni erano sempre nei paraggi. Ma Kaibara era un uomo volubile ed estremamente narciso: mi è bastato sussurrargli due paroline all’orecchio e ha subito allontanato le guardie del corpo. Mi ha portata in un albergo promettendomi il Paradiso, e io l’ho spedito dritto dritto all’Inferno. Quando scoprirono il corpo, il giorno dopo, avevo già lasciato il Paese.”

Ancora una volta si sorprese della freddezza con cui lei parlava. D’altronde, aveva soltanto fatto un dono all’umanità, uccidendo quel bastardo di Kaibara.

“Quanti anni avevi?”

“Sedici. Avevo vissuto gli ultimi sei anni pianificando la morte di un uomo.”

Adesso, si rese conto Ryo, i suoi occhi erano lucidi e la sua voce tremava leggermente, come se all’improvviso la vita fosse tornata ad animare quel guscio altrimenti vuoto. Ma fu soltanto un attimo, perché quando lei parlò di nuovo, non c’era traccia di debolezza nella sua voce.

“Poi toccò a William Spencer. Si faceva chiamare l’Americano, e ci misi due anni per mettermi sulle sue tracce. Un contadino di Pueblo mi aveva detto che era stato lui ad appiccare il fuoco alla casa, nonostante mio padre e mio fratello fossero già morti. Gli sparai alle spalle, perché è così che meritava di morire un vigliacco come lui.”

Ryo ricordava di aver sentito che il cadavere dell’Americano era stato ritrovato con un proiettile nella schiena, a faccia in giù nel letame. E allora aveva capito tutto, aveva collegato la morte di Shin a quella di Spencer e aveva capito che il prossimo sarebbe stato lui. Sentì il bisogno di dirle ciò che stava pensando.

“Dopo la morte dell’Americano, ho cominciato ad aspettarti. Sapevo che nulla avrebbe potuto fermarti e che saresti arrivata anche da me, prima o poi. Ma sapevo anche che non mi avresti mai sparato alle spalle, e che non avresti mai assoldato qualcuno per uccidermi. Saresti venuta tu, mi avresti guardato negli occhi come quel giorno di dieci anni fa e mi avresti parlato come stai facendo adesso.”

E poi mi avresti ucciso, pensò, ma non lo disse. Tutto quello che doveva esser detto era ormai stato detto, adesso rimaneva soltanto il silenzio, l’attimo infinitesimale che precede la fine e l’inizio di ogni cosa.

“L’avevi mai conosciuto, mio padre? Sapevi chi era, perché stavate per ucciderlo?”

Adesso la voce di lei era acuta ed incrinata, e Ryo ne fu quasi sollevato, quel gelido controllo di prima gli faceva paura. Ma non sapeva cosa dire, così disse semplicemente la verità.

“No. Ma quella era la guerra.”

Ricordava quel bigliettino, il nome scritto sopra, “Shinichi Makimura” diceva il bigliettino, e lui non si era mai chiesto chi fosse, pensava soltanto che quello sarebbe stato l’ultimo uomo che avrebbe ucciso, e poi la guerra, almeno per lui, sarebbe finita. Che stupido, si disse, la guerra non finisce mai, soltanto adesso, un attimo prima di morire, posso dire che la guerra sia davvero finita.

“Mio padre era un uomo splendido. Cosa vuol dire, che quella era la guerra?”

“Bisognava fare quello che ci veniva ordinato.”

“Anche uccidere dei bambini?”

“Tu non capisci.”

“Allora spiegamelo.”

“Lasciami in pace. Fai quello che devi fare, ma lasciami in pace.”

“Spiegami le vostre ragioni.”

“Lasciami in pace, ti prego.”

“Spiegami quale ragione ti ha portato ad uccidere un uomo che nemmeno conoscevi. E un bambino che aveva la tua stessa età.”

Ryo non rispose. Stranito, si portò una mano alla guancia, avvertendo una sensazione di fastidioso umidore. E infatti le dita erano umide, quando le ritrasse, umide di quelle che sembravano – si rese conto agghiacciato – lacrime.

Rimase a fissarsi le dita per svariati secondi. Aveva sempre pensato al pianto come a qualcosa di stupidamente patetico e fondamentalmente inutile, acqua e sale, muco, grottesche smorfie del viso.

Non ricordava di aver mai pianto, per questo la semplicità disarmante con cui quella lacrima era scivolata fino al suo mento lo aveva colto di sorpresa.

Guardò la donna di sottecchi, adesso imbarazzato, chiedendosi se lei si fosse accorta di qualcosa e gli occhi di Kaori resero immediatamente palese quello Ryo che aveva temuto.

“Che importa in fondo, tanto tra qualche istante morirò e questa lacrima non significherà più nulla.”

Ma adesso bruciava, come se una scia infuocata avesse solcato la sua guancia, perché si rese conto che non aveva pianto solo con gli occhi ma anche con l’anima, quel luogo oscuro che pensava di non aver mai posseduto, o quanto meno di non possedere più.

Si impose di smetterla di pensare, e di dare così tanta importanza ad un fenomeno fisiologico come quello del frignare.

Kaori si schiarì la voce.

“Posso chiederti un’ultima cosa?”, gli disse.

E così la fine è vicina, pensò Ryo. Non gli era sfuggito quell’aggettivo, lei non aveva detto “una cosa”, aveva detto “un’ultima cosa”.

“Certo.”

“Quel giorno mio padre mi aveva nascosta in una botola in cantina. Tu hai aperto la botola, io mi sono girata e per un attimo ci siamo guardati. Ti ricordi?”

Ryo la guardò negli occhi, di nuovo, attentamente, e allora finalmente gli parve di ritrovare nella bellezza stanca della donna che aveva di fronte, l’innocenza e le perfezione di quella bambina che lo fissava da un buco nel pavimento.

Le disse che si ricordava tutto, e che non aveva fatto altro, in tutti quegli anni, che aspettarla e ricordare ogni cosa.

Poi tacque, aspettando che lei si decidesse a fare quello per cui era venuta.




Kaori fissò l’uomo che aveva di fronte.

Lo aveva cercato invano per quasi sei anni, mentre la sua vita si logorava in quella ricerca snervante, e i giorni i mesi e gli anni le scivolavano tra le dita nell’attesa.

Adesso lui sedeva sul suo letto, sconfitto, inerme. Sapeva che non si sarebbe opposto, l’aveva capito nel momento stesso in cui si erano guardati negli occhi, appena qualche minuto prima.

Cercò a tentoni la borsetta, senza smettere di guardarlo. Lui aveva la testa bassa, in un atteggiamento che era di penitenza e di sconfitta insieme.

Il metallo tra le dita, freddo, pesante. Pesante quanto la responsabilità di porre fine ad una vita umana.

Era stato così facile per gli altri due, dopo aver premuto il grilletto era andata via senza nemmeno voltarsi.

Li aveva guardati negli occhi, prima di ucciderli, e nei non aveva scorto nessuna traccia di comprensione, o di consapevolezza, o di pentimento.

Ma quella lacrima. E quegli occhi vuoti, così simili ai suoi. E quelle parole – “ non ho fatto altro, in tutti questi anni, che aspettarti e ricordare ogni cosa.”

Lui era riuscito a destabilizzarla.

Incertezza: la mano le tremava, mentre toglieva la sicura alla Beretta.

Stanchezza: aveva vissuto per quello, per la vendetta, ma adesso si sentiva solo stremata, come se il suo corpo avesse trattenuto troppa rabbia, troppo a lungo, e poi la rabbia l’avesse abbandonata di colpo, lasciandola solo come istupidita e intimamente spossata.

Tra qualche secondo avrebbe ucciso quell’uomo non per sete di vendetta, si rese conto con sgomento – ma solo per routine, per un distorto senso del dovere.

Ma lei non doveva uccidere nessuno, perché nessuno le aveva imposto di farsi giustizia da sola. Non suo padre, non suo fratello.

La gabbia mentale – la vendetta – in cui aveva vissuto per tutti quegli anni, se l’era creata da sola.

E vi era rimasta imprigionata, avviluppata dalle spirali dell’odio, assorbita soltanto da quell’ira ormai vuota, tanto che aveva quasi dimenticato i volti di suo fratello e di suo padre, scordando quello che di buono lui le aveva insegnato.

“Lui non avrebbe voluto che io facessi questo”, pensò. “Mio padre non avrebbe voluto che io facessi questo.”

Continuò a pensare quella frase, come una nenia silenziosa, gli occhi sbarrati, spalancati nel buio, la mano che impugnava la pistola ancora sollevata a mezz’aria, contro il torace dell’uomo.

E poi, tutto esplose nella sua testa, e le sbarre della gabbia mentale si infransero. Si sentì libera – non doveva fare niente, il suo destino non era già scritto, l’odio non era più il suo ossigeno.

Non poteva cambiare il passato, ma adesso niente le avrebbe impedito di sperare nel futuro.

Kaori era felice, di una felicità semplice e commossa che non provava più da tanto, troppo tempo.

Sbirciò nuovamente in direzione di Ryo, ma adesso lo vedeva come un uomo, e non più come l’ultimo uomo.

E se avesse ricominciato proprio da lì, da quel viso di bambino proteso verso il suo?

E se avessero ricominciato entrambi da lì, da dove tutto era finito?

Sentiva, curiosamente, che quell’uomo sarebbe stato importante per lei – l’aveva percepito inconsciamente già quel giorno lontano di dieci anni prima.

Le sarebbe piaciuto conoscerlo meglio, imparare a comprendere i suoi sguardi e i suoi silenzi.

Si rese conto di avere ancora la pistola puntata contro di lui, così si affrettò ad abbassare la mano, rimise la sicura e poggiò l’arma sul pavimento.

Ryo doveva essersi accorto di qualcosa, perché sollevò la testa e la guardò, rivolgendole con gli occhi una muta domanda.

Ma adesso non aveva voglia di parlare. Per quello, ci sarebbe stato tutto il tempo di questo mondo.

Si avvicinò a lui, lentamente. L’uomo la guardò sconcertato, ma non si mosse e non fece commenti, e Kaori gliene fu intimamente grata.

Si mise sul fianco, poi tirò su le ginocchia verso il petto in posizione fetale, le gambe perfettamente allineate – con rigore geometrico, aveva pensato Ryo allora, ed era la stessa cosa che pensò adesso.

L’uomo sorrise leggermente, forse intuendo i pensieri di Kaori, forse per il semplice gusto di sorridere.

La donna appoggiò la fronte contro la spalla di Ryo, rannicchiandosi nella coperta che lui le aveva dato.

Poi chiuse gli occhi e si addormentò.






Non c’è differenza: odio e amore sono le due facce della stessa medaglia.

Così come vendetta e perdono.

Cos’è in fondo il perdono, se non la più sottile forma di vendetta?

Il perdono è una vendetta appagante, paziente, e crudelmente dolce.

Ma senza sangue.


FINE
  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > City Hunter/Angel Heart / Vai alla pagina dell'autore: iusip