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…they have
trapped me in a bottle…
Before you begin… Ciao,
siamo Nai e liz *_* Ditelo, che siete felici di vederci <3 E questa è la seconda
storia che scriviamo insieme e decidiamo di pubblicare dopo Cupid’s. Speriamo vi
piaccia altrettanto X3 (anche perché questa è una storia vera!).
Precisazioni del caso: nessuno
dei personaggi citati ci appartiene (e dal momento che sono veramente… ma
veramente svariati °.° È giusto dirlo XD) e noi non abbiamo niente a che fare
con loro se lasciamo da parte il fatto che li amiamo tutti, in un modo o
nell’altro è_é Non abbiamo niente a che fare con loro e, per la maggior parte,
non hanno mai fatto né faranno niente di quanto descritto in questa storia.
Ovviamente non ci guadagniamo
niente >_< Sono solo fanfiction, in fondo ù_ù
Per quanto fanfiction, però, la
base di partenza è reale °_° È ambientata fra la fine di luglio e l’inizio di
settembre di quest’anno, durante il Projekt Revolution (festival itinerante al
quale hanno preso parte band celebri come i Linkin Park, ideatori del progetto,
e i My Chemical Romance… e il bello è che avranno tutti un ruolo, in questa
storia XD). Siamo state abbastanza scrupolose, ma se c’è qualche cavolata random
non badateci troppo >.<
Per quanto sia triste, né Cody
né Gaia sono contemplati è_é” In fondo è meglio così, credeteci :D
Buona lettura :*
One:
Ci sono giorni che semplicemente
dovrebbero non esistere.
A volte sogno di tracciare una
linea rossa sopra questi giorni. Sogno che basti questo – un colpo di
pennarello, pescato a caso dentro il cesto della frutta senza che nemmeno sappia
come ci è arrivato – per farli sparire ugualmente dai miei ricordi.
Lo sogno.
E generalmente sto facendo
proprio come ora. Sto guardando fuori da un finestrino un mondo che va veloce
nella direzione opposta.
Sono stanco. Non ho molto altro
da dire, molto altro che mi pesi addosso. Sono semplicemente stanco. Come
qualunque persona che sia stata costretta per un lungo periodo di tempo a
sottoporsi allo stress costante di un lavoro dai ritmi frenetici.
Potrei essere stanco come un
manager di impresa, o come un dirigente di industria, o come un professore
universitario in giro per congressi. Invece sono stanco come il cantante di una
band rock in tour da quasi un anno e mezzo. E questo, per uno strano caso del
destino, vale a togliere attendibilità, dinanzi alla gente, al mio stato fisico
e mentale. Per questo strano caso del destino, infatti, la gente sembra credere
che un musicista rock non possa in alcun modo rivendicare il diritto a
qualificare il proprio come “lavoro”. Figuriamoci a riconoscergli “ritmi
frenetici” al punto da indurlo a stancarsi.
Di conseguenza, io sono stanco.
Davvero. Ma ufficialmente non posso dirlo.
Stefan fa un gran casino quando
si lascia cadere pesantemente accanto a me. Il cuscino sistemato sulla panca si
abbassa e slitta un po’ sul legno, lui si sistema contro il tavolo e mi gira lo
sguardo addosso, anche se io non posso vederlo.
Infatti non lo vedo, ma lo so.
-Hai intenzione di restare con
la faccia incollata al vetro finché la tua pelle non si fonderà con il
finestrino?
È un’immagine disgustosa. Penso
che dovrei dirglielo, ma mi limito a storcere il naso senza muovermi e a
mugugnare qualcosa di assolutamente incomprensibile, che vorrebbe essere una
protesta risentita.
Sono patetico.
Stefan sospira, si rimette
dritto, so che sta scambiando un’occhiata con Steve. Lo so anche perché Steve
smette per un attimo di giocare con quelle dannate bacchette e libera la mia
mente dall’orrido e ripetuto ticchettio che ha prodotto finora. Presumibilmente
Stefan gli sta chiedendo con lo sguardo cosa diavolo devono fare con me.
Quasi certamente Steve gli sta rispondendo con un’alzata di spalle.
-Brian!- mi richiama Stefan con
una certa urgenza. Mugugno di nuovo una cosa molto simile alla precedente, che
stavolta vorrebbe essere un’attestazione di presenza…Il mio vocabolario si sta
riducendo incredibilmente in questi pochi minuti.- O.k., senti.- Sento. Ma lui
ci pensa su. Si ferma un attimo e raccoglie le idee. Nel frattempo io colgo
l’immagine del deserto che sfila contro di noi. Poi il profilo di un altro
autobus, leggo il nome del gruppo sulla fiancata quando ci superano. Il deserto
ritorna nel mio spazio visivo…- C’è qualcosa che possiamo fare io e Steve per
tirarti su di morale?- s’informa Stef alla fine.
-No.- borbotto appena.
La prima parola di senso
compiuto da non ricordo quante ore.
Un altro sospiro. Adesso Stefan
sta puntando Alex. Lei è seduta nel posto più lontano del tour bus.
Si ricambiano lo sguardo, lei scuote il capo dicendogli di lasciarmi
perdere. Mi passerà.
Ha ragione lei, è chiaro. Credo
che nessuno, a parte i cavalli, sia mai davvero morto di stanchezza.
Solo che Stefan non accetta di
lasciarmi perdere. Per lui occuparsi di me è una priorità, una necessità
indefettibile. A volte questa cosa mi fa piacere. Altre volte mi sfinisce,
esaurendo le mie ultime energie. Come questa volta…
-Senti, Bri.- Tono carezzevole,
giusto per farmi sentire che è preoccupato per me e che, quindi, sarebbe carino
che io gli dessi quel minimo di attenzione necessario a rassicurarlo. Mi ci
sforzo, mi tiro un po’ più su sulla panca, rimetto le spalle in asse con il
resto del corpo e stacco la fronte dal finestrino.- Lo so che siamo tutti a
pezzi e che non vediamo l’ora di tornare a casa, ma dobbiamo tenere duro ancora
un po’.
Borbotto qualcosa che non so
nemmeno io cosa sia. Forse un assenso, forse una nuova protesta. Suscito
l’ennesimo respiro profondo da parte di Stef. Lui mi guarda, io non alzo il viso
ma tanto i suoi occhi li sento anche a metri e metri di distanza, anche quando
sto facendo tutt’altro e non ho neppure voglia di voltarmi a sincerarmi che lui
sia davvero lì…
C’è questo silenzio che si
protrae un po’. Steve ridacchia, Stefan gli sibila di piantarla, aggiunge che è
un cretino e che dovrebbe aiutarlo invece di ridere. Steve gli dice che si
preoccupa troppo e si alza per andarsi a prendere una birra dal mini
frigorifero. Torna indietro con tre bottiglie, ne posa una davanti a Stefan,
l’altra me la apre e la allunga verso il mio viso.
-Grazie.- mormoro sollevando gli
occhi su di lui mentre prendo la birra dalle sue mani.
Mi sorride come a dirmi che non
importa.
-Beh, almeno guarda che bel
tramonto.- prova ancora Stefan, cercando invano di scuotermi dalla mia apatia.
Mi volto. Oltre il finestrino si
allunga una striscia rosa sull’orizzonte. Una parte del vetro, illuminata
direttamente dalle luci del tour bus, mi rimanda il mio volto disfatto.
-Ne ho visti di più belli.-
sussurro sollevando la macchina fotografica e fermando il tempo.
***
La fotografia è una “cosa” di
Helena.
In una relazione,
inevitabilmente, le persone prendono qualcosa le une dalle altre. Io ho preso da
Helena molto più di quanto le abbia dato ed alla fine l’unica cosa che le
riconosco è questa. Lo penso mentre soppeso la macchina fotografica sul palmo
della mano.
Fuori si è fatto tutto buio. Ci
sono solo le stelle ed i fari della nostra piccola carovana di autobus e camion
ad illuminare la strada che passa attraverso il deserto. Io sono l’unico qui
dietro ancora sveglio. Stefan se n’è andato a dormire da poco; Steve sonnecchia
su un divanetto, ogni tanto si rigira, apre un occhio e mi brontola qualcosa,
poi crolla di nuovo senza pretendere una risposta. Alex è in cabina guida, stava
ascoltando musica con l’autista fino ad una decina di minuti fa, ora mi arrivano
di tanto in tanto le loro risate e qualche battuta a voce alta. Mi ha chiesto se
volevo sedermi con loro, ho risposto che preferivo restare ed andare a dormire
anche io.
Helena è uscita dalla mia vita
da un po’ ormai.
Helena ed io ci siamo lasciati
in modo civile, seduti dentro un caffè, sorridendoci mentre ci dicevamo “addio”.
Ha fatto male lo stesso. Ma non
a me.
Io da lei avevo già preso tutto
quello che volevo. Il mio nuovo equilibrio, la mia nuova pace interiore, la mia
nuova capacità di accettare e di farmi accettare dagli altri.
Lei da me voleva solo una
cosa, ma quella davvero non poteva dargliela. Perché io non l’amavo, ed alla
fine doveva accorgersene, doveva capire le mie bugie e la mia falsità, nascosta
dietro lo zucchero. E dirmi che era finita lì. Com’è finita, infatti.
Sì, sembra strano a me per
primo. È stata lei a lasciarmi, lei a dirmi che tra noi non c’era nulla, quando
il nulla ero solo io. Il fatto che sia stata lei ha reso possibile che entrambi
sorridessimo quando ci siamo alzati da quel tavolo dentro il caffè.
Da allora sono stato felice. Lo
ero anche con lei, ma in modo diverso. Quel modo ordinario e pervicace delle
storie serie ma senza anima. Lei mi aveva curato, io le ero riconoscente, ero
vivo grazie a lei ed ero felice di questo.
Ma è stato solo quando lui è
entrato nella mia esistenza che ho capito davvero che fino a quel momento ero
sopravvissuto. E basta.
Suona il cellulare. Mi strappa
ai ricordi. Poso la macchina fotografica davanti a me sul ripiano chiaro, spingo
le dita nella tasca dei jeans e riesco con difficoltà a tirar fuori il telefono.
Leggo il nome sul display mentre la suoneria sveglia di nuovo Steve. Solleva la
testa e mi guarda, contrariato.
-Digli che non può rompere
quando qui sono le tre di notte e noi domani abbiamo un concerto!- sbotta prima
di lasciarsi ricadere sui cuscini.
Sorrido. Improvvisamente mi
sento meno stanco.
-Matt.- chiamo rivolto alla
persona dall’altro immaginario capo dell’apparecchio.
Ridacchia e poi tira un respiro
profondo. Come se avesse davvero bisogno d’aria.
…Come se quell’aria fossi io.
-Brian!- esclama alla fine.-
Dove sei?- mi chiede subito dopo con urgenza.
Ridacchio anch’io.
-Da qualche parte, in un deserto
“x” qualunque, in uno stato a caso degli USA.- riassumo ricominciando a fissare
il paesaggio oltre il vetro.
Adesso che è veramente buio
riesco a vedere quasi solo il mio profilo. O quello dei mobili, che sembrano
arancione sotto la luce artificiale. Vedo il divanetto su cui Steve ha
ricominciato a dormire, la bottiglia di birra che Stefan ha mollato a metà. La
mia ormai vuota. La macchina fotografica con l’obiettivo serrato ed il laccio
logoro che mi ricade addosso oltre il bordo del tavolo.
-Uno Stato a caso?!- ripete
Matt.
Sento che ne sta combinando
qualcuna. Mi arrivano il rumore dei suoi passi e poi dei suoni sordi, come se
spostasse qualcosa che cadendo produce un tonfo leggero. Mi piacerebbe
chiedergli cosa sta facendo, ma preferisco aspettare. Matt è un mago, sapete? Sa
fare piccole magie. Riesce a fare apparire cose meravigliose dal nulla. Ma se
gli chiedi ad alta voce cosa sta facendo e lui ti risponde, allora la magia non
funziona più.
I rumori finiscono. Ha una voce
allegra ed eccitata quasi quanto quella di un bambino, quando riprende a
parlare.
-Sai cosa ho comprato oggi?- mi
domanda.
-No…- rispondo io. Alzo una
gamba ed incastro il ginocchio contro il tavolo posandoci sopra il gomito.
-Un atlante degli Stati Uniti
d’America.- mi spiega.
-Cosa dovresti farci?- chiedo
stupito.
-Beh, come cosa?!- sbotta lui,
deluso.- Ci seguo le tappe del Festival!
Rido.
-Matt!- lo richiamo.
Mi vengono in mente un centinaio
di cose da dirgli, suonano tutte come una sorta di rimprovero. Mi fermo a metà
quando mi rendo conto che sono altrettante scuse per non ammettere quanto mi
faccia piacere questa sua idea.
Sì, Matt è un mago.
“E questa è una delle sue
magie”, penso mentre mi sistemo contro lo schienale della panca e lo lascio
continuare senza più contraddirlo.
-Ho preso una scatola enorme di
pennarelli colorati…- si ferma e ci ripensa- O.k., i pennarelli li avevo presi
per altro in realtà.- precisa.
-Cosa?
-Mah. Volevo fare una specie di
disegno da appendere sul palco nelle prossime date, ma è venuto una schifezza!-
confessa ridendo.- Allora ho deciso che potevo utilizzarli in un altro modo e,
quando ho capito che Dom non apprezzava che ci colorassi i contorni della sua
batteria…
-Come diavolo hai fatto a
sopravvivergli?!- sbotto ridendo anch’io.
-Semplicemente si è vendicato su
una delle mie chitarre!- mi risponde lui.- Ci ha fatto i baffi, Brian! Ti rendi
conto?!- mi chiede come se da questo dipendesse la sua vita.- I baffi e
poi…tipo…degli occhiali da sole o qualcosa del genere. Insomma, adesso ha una
faccia e…
-I pennarelli sono indelebili?-
domando io, passandomi le dita sugli occhi per scacciare via quel po’ di
stanchezza che rimane. Voglio parlare con lui ancora un po’…
-Ma và!- ritorce lui. Non sembra
particolarmente arrabbiato, ma del resto ormai l’ho capito che lui e Dominic
hanno un loro linguaggio personale per comunicare, fatto anche di piccoli
dispetti da ragazzini.- Ovviamente andranno via comunque, ma chiaramente adesso
passiamo tutte le prove ad insultarci vicendevolmente ed a guardarci in
cagnesco. Chris e Tom ci odiano già.
-Immagino.- soffio appena,
sorridendo. Mi rilassa immensamente sentirlo parlare.- Allora dimmi, quando hai
capito che Dom non gradiva la tua arte, cosa hai fatto dei pennarelli?-
m’informo.
-Ah sì.- Riacchiappa qualcosa,
un altro rumore, probabilmente l’atlante gli era scivolato, perché quando ci
batte su la mano riconosco il rumore delle pagine e del cartonato plastificato
della copertina.- Ho deciso che potevo segnarci le date del vostro tour. Tipo,
in rosso le date del Festival, in blu quelle del tour di “Meds” e, quando andate
via da una tappa, ci metto un segno verde. Poi indico anche i giorni che passate
in ogni città e…
-Matt.
Si interrompe ed aspetta.
Io prendo fiato. Una. Due volte.
Prendo fiato e glielo dico.
-Non dovresti.
Il suo silenzio fa più male di
quanto pensassi. Ora so cosa ha provato Helena quel giorno, lo so perché adesso
sì che sono innamorato. E quindi so cosa vuol dire avere paura.
-Sei un cretino, Brian.- mi
risponde lui con una serietà che gli è totalmente inusuale.
-…già.
Un altro silenzio. Nel vuoto che
lascia ci si potrebbero infilare migliaia di pensieri. Ma la mia mente si ostina
a non farcene entrare nemmeno uno, perché è come se ciascuno di quelli che si
affacciano iniziasse con “se lui non ci fosse…”. Ed io in realtà non voglio
nemmeno pensare alla possibilità che lui non ci sia.
-Sai che tra tredici giorni
tornerete in Europa?- mi chiede alla fine.
“…tredici giorni…”
-E voi andrete in Australia.-
rispondo io.
-No, solo ad ottobre. A
settembre siamo in Europa come voi.
-Est Europa.- correggo.- E noi
in sala prove.
-Beh, come noi adesso.
Respiriamo con lo stesso ritmo.
Qualcosa di terribile se non fosse meraviglioso. E ridiamo nello stesso momento,
come due idioti.
-Che schifo di lavoro!- commenta
lui per primo.
-Non ti credi nemmeno tu quando
lo dici!- ribatto io.
-L’anno prossimo vacanze
insieme!- pretende.
-L’anno prossimo si vedrà.-
sminuisco.
-Tu non mi ami abbastanza!-
protesta lui.
-Non vedo neppure perché dovrei
farlo…- ci scherzo io.
-…Vuoi andare a dormire,
cretino?! Domani devi lavorare!- sbotta Matt arrabbiato.
“No, Matt. Voglio parlare ancora
un po’…”
-Sì, papà, vado a
dormire, promesso.- sorrido invece.
-Ecco!
Quando riattacco e guardo di
nuovo fuori dal finestrino, mi dico che avrei dovuto chiedergli dove siamo -
“Guarda sul tuo atlante, Matt, dimmi se mi vedi” - invece non l’ho fatto, forse
per paura che lui me lo dicesse davvero. Che puntasse il dito su un deserto “x”
qualunque di uno Stato a caso e mi dicesse “sei qui”. E potesse avere ragione.
-Che ne dici se ora mantieni la
tua promessa?
Mi volto verso Stefan, che mi
guarda e sorride. Ricambio il suo sorriso e scivolo lungo la panca per uscire da
dietro il tavolino.
-A che ora arriviamo domani?
-Alle dieci.- risponde lui
sbadigliando.
-Dovremmo svegliare Steve e
mettere a letto anche lui.- noto distrattamente, mentre passiamo per raggiungere
la zona notte.
-Io non ci provo nemmeno,
l’ultima volta mi stavo beccando un cazzotto sul naso!- ricorda Stefan, gettando
un’occhiata a Steve.
-Questo perché lui ha aperto gli
occhi e si è ritrovato il tuo brutto muso davanti. Invece, se lo sveglio io…-
comincio ad argomentare con saccenteria, ma badando a tenermi lontano dal
nostro batterista.
Stefan mi manda cortesemente a
cagare e si infila risoluto nella propria cuccetta. Mi stendo anch’io e fisso il
tettuccio del tour bus.
-Stefan.- chiamo. Lui brontola
qualcosa per farmi capire che mi ascolta.- Che cazzo ci facevi ancora
sveglio?- domando.
-Mi assicuravo che non cercassi
di strozzarti con il laccio della macchina fotografica.- sospira girandosi verso
la parete- Ed ora dormi, Brian! Dannazione a te!
Ridacchio e lo imito,
arrotolandomi nelle coperte.
-‘Notte, Stef.
-‘Notte, insopportabile
scocciatore dell’esistenza altrui.- mi risponde, prendendosi immediatamente una
cuscinata addosso.
-Stronzo!- gli strillo contro.
-Fanculo!- ritorce lui
restituendomi il favore.
-Volete dormire?!- strepita
Steve, svegliandosi di botto e ripiombando nell’incoscienza quasi nello stesso
momento.
-Come accidenti ci riesce
secondo te?!- protesto fissando sconvolto Steve riprendere a russare come se
niente fosse.
-Non è umano, è evidente.-
afferma Stefan, annuendo convinto.- Ora, però, ti prego, Brian, dormiamo
davvero!- m’implora, lasciandosi ricadere sul materasso.
-Sì sì.- borbotto stendendomi di
nuovo anch’io.
-E dì a Bellamy di chiamarti di
giorno, se ci riesce.
-Mi chiama quando vuole.
-Sei una ragazzina.
-E tu sei stronzo.
-Lo hai già detto.
-Beh, volevo ribadirlo.
-Se non dormite, giuro che vengo
lì e vi “addormento” io.- s’intromette Steve.
***
Sedevo sul fondo del backstage.
Avevamo appena finito di esibirci, ero felice di come fosse andata, ancora
assordato dalle urla dei fan sotto il palco, sereno dopo che la mia storia con
Helena era finita appena quattro giorni prima.
Stefan e Steve erano spariti da
qualche parte. Dopo i concerti hanno ognuno il proprio rituale. Stefan ama
continuare il bagno di folla, raggiungendo i fan per le foto, gli autografi, i
complimenti a voce e tutto quanto ne consegue. Steve doveva essere corso a
chiamare la moglie e la figlia.
Io non avevo niente da fare.
Quattro giorni prima sarei stato attaccato ad un cellulare anch’io, ma in quel
momento potevo starmene seduto a terra, contro le casse della strumentazione,
con il cellulare effettivamente in mano e nessuno da chiamare.
Helena mi aveva fatto un regalo
enorme. Fino a prima di lei questa mia condizione mi avrebbe gettato nello
sconforto… in quel momento dentro di me c’era invece solo una luminosità calda e
profonda.
Mi venne incontro direttamente
dalla zona del palco. Aveva le mani in tasca e sorrideva, teneva gli occhi fissi
su di me, quasi volesse farmi capire che mi cercava, che era proprio me che
voleva. M’incuriosì, fino a quel momento non ci eravamo mai nemmeno scambiati
due parole. Ero convinto che ci stessimo evitando, una di quelle convinzioni
silenziose che si creano e che ci portano a parlare di “taciti accordi”. Il
nostro accordo avrebbe dovuto prevedere che ognuno di noi due ignorasse l’altro.
Lui lo stava per violare.
Si fermò davanti a me e mi
guardò senza sfilare le mani dalle tasche dei pantaloni. Io ricambiai il suo
sguardo ed attesi.
Quando parlò non mi sembrò
davvero che avesse violato alcunché.
-Complimenti.- mi disse.
-Grazie.
-È stata un’ottima performance.
Mi strinsi nelle spalle,
ripetere “grazie” era privo di senso. Non c’era ironia nella sua voce, non
provavo alcuna avversione o fastidio nel rimanere seduto a parlare con lui. Già
questo mi stupì.
-Noi ci esibiamo tra poco.- Lo
sapevo, annuii.- Resti a guardarmi?
Rimasi sbigottito. Aprii la
bocca annaspando. Lui mi fissava con un candore tale da darmi il capogiro e
nemmeno si rendeva conto – credo – di quanto assurdo fosse quello che mi aveva
appena domandato.
Sarebbe stato già tanto se lui
mi avesse chiesto di rimanere per sentire loro. Ma mi aveva appena
chiesto di rimanere a guardare lui. E nel farlo mi aveva fissato con la
stessa espressione che io usavo da bambino, quando correvo da mio padre a
mostrargli i voti presi a scuola, in cerca della sua approvazione.
In quel momento capii che, tutte
le volte che Matthew Bellamy aveva detto di stimare me e la mia band, non aveva
mentito. A differenza mia.
Che, quando gli avevo consegnato
il premio agli EMA del 2004 e lui mi aveva abbracciato per ringraziarmi, non
aveva mentito. A differenza mia.
…che, quando mi aveva fatto i
complimenti poco prima, non aveva mentito.
Ma lì nemmeno io nel dirgli
“grazie”.
Fu il senso di colpa a farmi
accettare di restare. Provavo una vergogna terribile al pensiero di quanto ero
stato meschino fino a quel momento. Guardai la sua esibizione, mi fermai anche
dopo, quando mi invitò ad andare con lui al party che si teneva dopo il
concerto; mi fermai con lui anche al party, mentre tutti gli altri intorno ci
guardavano come se fossimo impazziti. E forse lo eravamo. Io rimanevo al suo
fianco, lo ascoltavo parlare a raffica come il suo solito, e per una volta – la
prima in questa assurda storia – non ne trovavo la voce sgradevole, il
tono spiacevole, le parole stizzenti. Trovavo la sua presenza confortante.
So che non fu l’alcool – come mi
giustificai il giorno dopo con Steve e Stefan – a farmi accettare il suo invito
a casa. So che ero perfettamente padrone di me, mentre lo guardavo balbettare
qualche scusa ridicola sul fatto che voleva il mio parere su alcuni lavori
incompiuti. E so che ero perfettamente padrone di me anche quando acconsentii,
ben sapendo che si stava nascondendo, ed anche male, e che i suoi occhi azzurri
finivano per tradirlo più della sua incapacità di mentire.
Per questo, e per rendergli più
facile il resto, fui io a baciarlo quando arrivammo a casa sua e lui ebbe
richiuso la porta dietro di noi.
Ricordo che mi disse impacciato
che non aveva mai fatto sesso con un uomo. Lo disse subito, ed io risi divertito
da questa sua sincerità e dal fatto che riuscisse a mettere nero su bianco
quello che voleva senza esserne veramente imbarazzato. In fondo a parte il mio
bacio non avevo ancora ammesso di avere voglia di lui. Potevo tranquillamente
prenderlo in giro, mollarlo lì ed andarmene. Lui non ne aveva paura. O più
semplicemente, a differenza della maggior parte delle persone comuni, lui era
disposto a rischiare di essere sincero.
Non posso davvero negare che fu
questo a conquistarmi. Se lui fosse stato appena meno sincero, appena più
interessato, quella notte sarebbe rimasta solo un episodio della mia vita, come
negli anni se ne erano succeduti tanti. Ma Matthew Bellamy era quello che io
vedevo e quello che vedevo mi aveva già strappato l’anima.
Mi si avvicinò quasi con timore,
guardandomi attentamente, come non sapesse neanche cosa aspettarsi da me.
Continuò a guardarmi a quel modo anche quando cademmo con un tonfo pesante sul
letto – senza spingerci, senza fretta, sfiorammo il materasso con le gambe dopo
aver vagato alla cieca lungo tutto il corridoio e buona parte della camera da
letto, e semplicemente ci lasciammo cadere lì come foglie – continuò a guardarmi
a quel modo sbottonando la mia camicia, scivolandomi addosso con i polpastrelli,
sfilando la cintura dai jeans dopo averla sfibbiata. Continuò a guardarmi a quel
modo anche quando rimasi completamente nudo fra le sue mani, come avesse paura
che potessi improvvisamente trasformarmi in qualcos’altro o scomparire in una
nuvola di vapore.
Continuò a guardarmi e lo
guardai anch’io. E quando i suoi occhi incontrarono i miei, lui sorrise appena,
imbarazzato, chiedendomi se mi stesse dando fastidio, se fosse troppo lento o
troppo veloce. Capii che voleva essere rassicurato, ma non potevo realmente
dirgli che nonostante i movimenti maldestri era così perfetto da farmi pensare
avesse studiato quei momenti nel dettaglio per fare in modo che si adattassero
perfettamente ai miei desideri.
Adoravo che mi guardasse in quel
modo, adoravo che i suoi occhi irradiassero quel tipo di venerazione che riservi
alle cose nuove che trovi stupende al punto da toglierti il fiato. Adoravo che
mi toccasse piano, lievemente, come fosse spaventato.
…adoravo che mi toccasse.
E no, non potevo dirglielo,
perché erano solo dieci ore e qualcosa che ci conoscevamo. Ed anche se per lui
non sembrava passato troppo poco tempo per mettersi nelle mie mani in quel modo,
per me era ancora troppo, troppo presto.
Mi limitai a sollevarmi sui
gomiti e baciarlo, attirandolo a me con una mano sulla nuca, sperando che
decidesse di lasciare da parte le insicurezze e si lasciasse un po’ andare.
Lo fece.
Affondò con un sospiro sollevato
il viso nell’incavo fra il mio collo e la mia spalla, baciandomi lievemente in
una scia bagnata e morbida che viaggiava verso il petto. Sembrava stesse
seguendo una mappa ideale, toccando tutti i punti più sensibili del mio corpo,
come volesse registrare le mie reazioni e imparare a muoversi nel modo giusto.
Come si stesse preparando ad
altre milioni di volte.
E nessuno dei sospiri che mi
sfuggirono dalle labbra, nessun ansito, nessun gemito, nessun movimento
improvviso del mio corpo, nessun accenno di spinta verso di lui, niente fu
falso, non simulai niente, non forzai nulla solo per compiacerlo; e quando mi
morsi le labbra per non urlare, fu solo perché se non l’avessi fatto avrei
urlato davvero; e quando mi aggrappai alle sue spalle per non cadere, fu solo
perché se non l’avessi fatto sarei caduto davvero; e quando lui mi si strinse
addosso, e chiamò il mio nome mentre veniva, io chiamai il suo. E non fu perché
durante il sesso sono cose che si fanno. Fu perché lui era lì. E stava
godendo per me, con me, dentro di me. Ed io facevo lo stesso. E ringraziarlo –
per tutto, tutto – era davvero il minimo che potessi fare.
***
Vedevo i suoi occhi. Erano
limpidi al punto da risplendere anche al buio. La luce della luna filtrava dalla
finestra spalancata e lui mi guardava, perché quell’azzurro chiaro e brillante
era fisso su di me. Mi guardava, appoggiato con i gomiti al cuscino, il busto
sollevato, mi studiava come se fossi stato un’insolita opera d’arte caduta sul
suo letto…
-…cosa?- mormorai alla fine.
Sorrise, penso, perché il suo
sorriso fece un rumore divertente, come uno sbuffo leggero di fiato. Per un
momento gli occhi si chiusero e poi tornarono a guardarmi.
Ma non mi ripose.
-Matt.- chiamai a bassa voce,
sorpreso io per primo di come fosse stato facile prendere confidenza con un
diminuitivo. Come se fossimo amici da sempre. Amanti da tutta la vita. Respirai
e sollevai lo sguardo a ricambiare il suo attraverso la penombra. Mi chiesi se
anche i miei occhi riuscivano ad essere così limpidi al buio- Che intenzioni hai
adesso?
Non so perché glielo chiesi, ma
immagino avesse a che fare con la consapevolezza che lui non sarebbe mai
riuscito a rivolgermi quella domanda. La mia risposta la conoscevo già, volevo
che tutto quello fosse più di una notte. La sua mi rigirava in testa dandomi un
leggero capogiro, come se avessi le vertigini e rischiassi da un momento
all’altro di cadere giù.
-Serie.- mi rispose lui come se
stessimo discutendo di una cosa perfettamente ordinaria. Del tempo. Del tour.
Dei progetti per il giorno dopo. Poggiò la guancia su una mano e mi fissò con il
viso inclinato, aspettando.
Divenne urgente assicurarmi che
avesse capito davvero.
-Sai di cosa sto parlando,
Matthew?- ribadii, sentendo il mio tono alzarsi impercettibilmente, dandomi
l’esatta misura dell’ansia che mi agitava. Annuì per interrompermi, ma non lo
feci lo stesso.- Sto parlando di stare insieme. Sto parlando di sopportarci l’un
l’altro ogni volta che uno di noi due starà male, che avrà voglia di urlare, di
rendersi impossibile ed insopportabile. Sto parlando di dormire assieme e
svegliarsi assieme la mattina dopo, sto parlando di imparare a capirsi anche
quando non si parla, di riuscire ad intendere i silenzi anche quando si fanno
pesanti, di superarli nonostante non se ne abbia la voglia. Sto parlando di dire
al mondo che tu sei me ed io sono te, di ammetterlo davanti ai nostri amici, di
farlo accettare a loro ed a chiunque altro e…
-Stai parlando troppo.- mi
mormorò lui, piano.
Lo disse in un modo tanto quieto
da zittirmi. Un tono fioco e sottile, che non perse di forza per essere così
labile, ma acquistò di gentilezza e di delicatezza nell’infilarsi tra le mie
paure ed i miei dubbi.
Sentii un nodo serrarmi la gola
comunque, e somigliava fin troppo ad un pianto trattenuto.
-Tu mi hai chiesto che
intenzioni io abbia, ed io posso risponderti solo su questo.- mi spiegò
pacatamente lui- E ti rispondo che le mie intenzioni hanno a che fare con il non
lasciarti uscire da qui per non tornare più.- ammise stringendosi nelle spalle-
Il resto non lo so, Brian, e nemmeno me lo chiedo ora come ora.
Vorrei chiedermelo io per
tutti e due…
Ed invece rimasi a fissarlo, le
labbra schiuse su una frase che non ho mai detto. E, invece di chiedermelo per
entrambi, ho smesso del tutto di farlo.
Ricordo che il mattino dopo
quando mi svegliai ancora tra le sue coperte, lui era già uscito. Lo scoprii
dopo un po’, quando tornò in camera da letto, vestito di tutto punto, con un
vassoio e con i croissant appena sfornati ancora in un pacchetto. Risi, perché
mi sentivo idiota nel ritrovarmi ad avere un uomo che mi portava la colazione a
letto. Lui rise con me, rendendosi conto che era davvero ridicolo. Ma poi c’era
una confusione terribile su quel vassoio, le tazze del caffè rischiarono almeno
un paio di volte di cadere e Matt aveva dimenticato – grazie al cielo – sia i
fiori, sia la spremuta d’arancia o la marmellata con le fette biscottate, e
tutto questo bastò a rimettere le cose in ordine, mentre mi tiravo a sedere e
lui si metteva di fianco a me, incrociando le gambe come un bambino e posando il
vassoio tra noi.
Non ricordo, invece, di cosa
parlammo. Sciocchezze, penso. E già pensare questo mi basta, e non riesco a
ricordare altro. Mi basta perché era l’inizio della nostra abitudinarietà, la
confidenza che si crea nelle coppie un pezzo alla volta e che è fatta anche di
discorsi futili dimenticati subito dopo che si esce dalla porta di casa.
Quando uscii dalla porta di casa
sua quel mattino, lui era con me.
Doveva andare agli Studi della
Universal, ci salutammo sul portone ed io presi un taxi per farmi
riaccompagnare. Sorridevo ancora quando scesi dall’auto ed attraversai la
strada.
-Brian!
Sollevai lo sguardo, abbastanza
stupito. E se già dovevo trovare assurdo sentire la voce di Stefan a quell’ora
del mattino davanti casa mia, fui ancora più stupito quando me li ritrovai lì
entrambi. Stef a braccia conserte sul petto e con un’espressione tutt’altro che
amichevole in faccia e Steve che mi guardava divertito.
-Che accidenti ci fate qui?-
chiesi d’istinto.
-Che accidenti ci facevi tu
fuori casa?!- strillò Stefan furioso- E perché diamine sei vestito come
ieri?! E soprattutto, dove accidenti sei finito ieri?!
Sbattei le palpebre, realizzando
che era palesemente preoccupato per me.
-Stef, ho trentacinque anni…-
feci notare.
-E non sei capace di badare a te
stesso, è evidente!- strepitò lui senza neppure ascoltarmi.- Ti abbiamo cercato
tutta la notte! Eravamo in pensiero per te! Potevi almeno…che so! fare una
telefonata! O quanto meno rispondere al telefono!
Tirai fuori dalla tasca del
cappotto il cellulare e mi accorsi che effettivamente mi avevano chiamato più
volte.
-Ahah- registrai indifferente.-
Sono vivo. Posso andare a dormire?- chiesi educatamente.
-Avresti già dovuto essere a
dormire!- ci tenne a specificare lui.- Avresti dovuto aprire la porta in
pigiama, urlare contro di noi che le dieci del mattino non sono un orario
accettabile per essere svegliati e poi invitarci ad affogarci in un caffè!
-Hai di me una visione
orribile.- notai perplesso.
-Non c’entra!
Scrollai le spalle, infastidito
dal protrarsi inutile di quella discussione.
-Comunque io sono già affogato
in un caffè per stamattina.- ammisi semplicemente, tirando fuori dalla tasca
anche le chiavi per aprire il portone.- A casa di Matt.- specificai.
Stefan mi fissò come se non
potesse credere che fossi proprio io, vivo, vegeto ed in carne ed ossa, davanti
a lui. Steve si accodò a lui per un momento. Poi scoppiò a ridacchiare come un
ragazzino – ed io lo seguii praticamente subito – e commentò.
-Allora era vero…
Stefan si voltò verso di lui,
continuando a mantenere la stessa espressione sconvolta.
-Non dire “allora è vero” come
se fosse una cosa normale…- lo pregò in un soffio strozzato.- Brian!- chiamò
poi, voltandosi. Sbuffai e mi feci spazio per andare ad aprire- Cos’è questa
storia? Vi hanno visti tutti al party ieri sera, ma io non posso credere che
davvero tu e Bellamy…- non finì la frase, come se la sola idea fosse
inconcepibile. Aprii il portone appoggiandomici con la schiena e li guardai,
invitandoli silenziosamente ad entrare- Insomma, voi due vi odiavate fino a
ieri!-mi ricordò alla fine.
Ci pensai su, spingendo il
portone finché non urtò contro il muro, e rimasi lì appoggiato aspettando che
loro sfilassero davanti a me.
-No, ci sbagliavamo tutti su
quello.- spiegai quindi.
Steve rise di nuovo, facendo
risuonare tutto l’atrio del palazzo, provai a dirgli di piantarla, ma siccome lo
feci ridendo anch’io non servì a molto. Stefan invece mi guardò. Mi guardò
attentamente per un bel po’ di tempo. Poi non disse più nulla e seguì Steve fino
all’ascensore.
*
Nota di fine capitolo della
Nai:
…bah.
E’ il concetto che credo
renda meglio il perché di questa storia.
Giusto per dovere di cronaca,
comunque, dico subito che il titolo è rubato a parte del titolo – chilometrico –
con cui il Sig. Molko ha identificato una “graziosa” rassegna fotografica da lui
realizzata durante il tour.
Il titolo completo è perfino
più deprimente del pezzetto scelto! ^_^
Al momento l’unico “perché”
della scelta è dato dal fatto che mi piacesse l’idea di un Brian Molko che
dichiara al mondo di essere stato preso in trappola in una bottiglia. Come un
genio o un folletto.
Ma sto divagando e, siccome
devo lasciare spazio alla Liz per la sua nota di fine capitolo, mi interrompo
qui.
Spero che vi sia piaciuto,
avevo bisogno di zucchero e questa storiella a capitoli – leggera ed
inconsistente – è zucchero e poco altro. Un po’ di sano romanticismo ogni tanto
fa bene al cuore *_*
Inoltre sono così
felice che la Liz abbia deciso di assecondare questa follia e
collaborare alla sua realizzazione che penso piangerò di gioia (ç_ç) e desidero
dichiararle pubblicamente il mio eterno amore!!!
Detto questo. Un bacio ed al
prossimo capitolo!
Nota di fine capitolo della
liz:
…amore a parte è___é Anche io
sono molto felice di aver assecondato questa follia e…
…anzi, no, amore a parte il
cavolo: questa storia È amore <3 È tipo la personificazione dell’amore romantico
come lo intendo io nei miei sogni di gloria *.* Ed è fantastico che la Nai sia
riuscita a partorire una cosa simile… peraltro tutta da sola <_< Non credetele,
quando mi dà i meriti: la maggior parte delle volte mi arrogo meriti non miei
perché lei scrive cose talmente belle che poi mi ispirano a scriverci su dando
il massimo ù.ù *sì, in questo consiste il mio aiuto*
Comunque, comunque. Anche se
ancora non si vede, per i capitoli futuri avrete di che odiarmi *-* *risata
malvagia*
*scompare in dissolvenza*
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