Autore:
_wayward.
Titolo:
L'Emblema della Farfalla ~
Fandom:
Originale »
Fantasy.
Rating:
Giallo.
Genere:
Long fic [4/15].
Personaggi/Pairing:
Il Nateh'n, Thomas, Bartred, Aera.
Parole:
~4659.
Avvertimenti:
-
Disclaimer:
Mine ©.
Note:
[0]
Imagine, a poem
– F. Brown, 1955.
1)
Non so a quanti possa effettivamente interessare, ma, dal momento che
l'intero universo che fa da sfondo a questa storia è
veramente
vasto, ho creato un livejournal con lo scopo di raccogliere tutto il
materiale che si accumula di capitolo in capitolo. Su the_emblem
potrete trovare curiosità, aggiornamenti, un glossario con
tanto di
vocabolario e quan'altro mi venga in mente.
Introduzione:
«Ti
piacerebbe
racimolare un po' di denaro?»
Due ore dopo, Lucky era ancora vivo
ed il Nateh'n si stava incamminando verso un'enorme, grandiosa
avventura.
~
L'Emblema della Farfalla
Capitolo
IV ~ Immagina, un poema [0]
Avevano
camminato in silenzio per tutto il giorno.
Thomas
si strinse nelle spalle e rimpianse, nel freddo vento che si era
levato da almeno un paio d'ore, il non aver accettato il mantello che
Bartr gli aveva offerto quella mattina. Poi lo sguardo penetrante del
Nateh'n spezzò i suoi pensieri e lui riportò le
braccia lungo i
fianchi, ad accarezzare l'elsa della propria spada che oscillava
lievemente a tempo con il suo passo.
Bartr,
subito dietro all'elfo che, pur zoppicando, si ostinava ad avanzare,
gli lanciò un'occhiata preoccupata che Thomas
tentò di ignorare.
Era
stato Bartr ad avere insistito pur di accompagnarlo quantomeno fino
al porto di Onalĩa,
quella mattina – dopo essersi inginocchiato di fronte a lui
ed
avergli promesso di aiutarlo a raggiungere la capitale con qualsiasi
mezzo. Il Nateh'n a quel punto si era alzato, sempre barcollante, e,
il sorriso gelato sul volto, aveva detto al compagno: «Fa'
come
vuoi».
Quando,
raccolte un paio di sacche dall'accampamento, l'elfo aveva fatto per
andarsene, Bartr lo aveva fermato stringendogli l'avambraccio.
«Che
cosa stai facendo?»
«Me
ne vado» aveva detto l'altro.
«Non
possiamo certo andarcene così.»
«Può
venire anche lui, se vuole» una smorfia era nata sul volto
del
Nateh'n. «Sono sicuro che si troverà bene a Nath.
O da qualche
parte vicino al Ganell.»
Bartr
aveva scosso la testa. «Dobbiamo aiutarlo.»
«No,
non dobbiamo» e si era fatto
più distante. «Tu vuoi
farlo, non vedo perché questo dovrebbe
coinvolgere anche me.»
«Che
cosa ti prende?» aveva chiesto Bartr, alzando le folte
sopracciglia.
Il
Nateh'n aveva serrato la mascella ed il suo sguardo si era posato su
di lui.
Poi
avevano iniziato a parlare fra di loro, ma, seppure impegnato nella
conversazione, l'elfo non aveva smesso di fissarlo. Thomas era
riuscito a sostenere i suoi occhi che, implacabili, cercavano quasi
di oltrepassargli l'anima stessa e, infine, proprio dal verde
limpido di quell'iride, fra una parola ed un'imprecazione verso il
proprio compagno, aveva intravisto qualcosa.
L'odio
ed il rimpianto si erano schiantati su di lui con una forza che, se
colto impreparato, l'avrebbe fatto indietreggiare.
Con
il mento alzato verso l'alto, il fumo che saliva dalla Cattedrale
alle spalle e gli occhi del Nateh'n ad accusarlo di crimini mai
commessi, Thomas si era sentito l'essere più miserabile del
regno.
***
L'unica
cosa che Aera ricordava era il suo sorriso.
Non
che l'avesse realmente visto di persona, certo, ma sua madre gliene
aveva parlato così tante volte che l'immagine che si era
costruito
era ormai impressa nella sua memoria come se fosse un effettivo
ricordo.
Ogni
tanto, Aera usciva sotto la pioggia – perché era
l'unico momento
in cui la balia era troppo impegnata a raccogliere l'acqua piovana
che filtrava attraverso i buchi del tetto per tenerlo d'occhio
– e
correva fino alla biblioteca vicino al porto. Se l'unica guardia
lì
posta era il vecchio Aldebrani, allora riusciva a sgusciare furtivo
sotto fra le sue gambe ed a rifugiarsi in qualche angolo buio, con
l'unico conforto dell'unico libro che amasse e del ticchettio della
pioggia sul vetro delle finestre.
Aera
non sapeva leggere – la balia faceva di tutto, giorno per
giorno,
al fine di insegnargli a “diventare un buon
partito”, anche se
questo per lui non suscitava un grande interesse e tanto più
dal
momento che aveva ancora qualche dubbio su cosa essere un
buon
partito volesse significare. Nonostante questo,
però, si
impegnava a seguire con il piccolo dito spesso sporco di fango le
lettere scure sulla pagina, osservava con diligenza le varie immagini
ed annuiva, per dare enfasi alla narrazione, quando raggiungeva un
punto particolarmente ostico in cui proprio non riusciva a ricordare
la storia.
Era
questo uno dei motivi per cui Aera amava quel libro dalla copertina
logora e malconcia: sua madre gliel'aveva letto così tante
volte,
quando era più piccolo, che avrebbe potuto forse recitarlo a
memoria.
L'altro,
invece, arrivava nel momento in cui il bambino girava l'ultima
pagina.
Il
ritratto sfocato di un uomo dai capelli biondi, con l'armatura ben
lucidata ed il cerchio d'oro sulla fronte, il più luminoso
che Aera
avesse mai visto, gli sorrideva attraverso la polvere.
Spesso
accarezzava il foglio con la punta dell'indice, tracciando contorni
del suo viso, dagli occhi chiari fino al mento, e cercando di
ricordare la voce di sua madre quando ancora non era costretta a
letto, schiacciata dalla malattia.
«Tuo
padre è un eroe» gli raccontava, cullandolo
dolcemente davanti al
camino. Le lacrime le scivolavano sulle guance senza che lei facesse
nulla per fermarle. «Non dimenticarlo mai.»
Aera
non voleva dimenticare ma era difficile ricordare qualcuno che non
aveva mai conosciuto.
Quando
la madre si era ammalata e la balia era diventata la persona
più
influente nella sua vita, quest'ultima aveva iniziato a plagiarlo con
ben altri tipi di storie.
A
volte Aera entrava silenziosamente nella camera della madre, le
prendeva la mano e qualche lacrima scendeva veloce lungo le sue
guance.
«Lui
non mi ha dimenticato» sussurrava contro le lenzuola bianche,
negando le parole della balia in un solo singhiozzo, ma, nelle notti
più fredde, nemmeno i sospiri confortevoli della madre
riuscivano a
farglielo credere.
Poi
erano arrivati.
Pioveva.
Aera
aveva visto i loro mantelli rossi svolazzare, bagnati, nell'aria
tiepida della sera; aveva capito dove fossero diretti ed aveva avuto
paura. Si era nascosto dietro il cesto di frutta che la signora Llin
lasciava ogni giorno fuori dalla porta della propria casa.
Aveva
visto, spaventato, la balia che apriva la porta in seguito al loro
bussare e, quando loro si erano spinti dentro la casa, Aera aveva
sobbalzato così forte che il cesto si era rovesciato.
L'avevano
visto, la balia gli aveva gridato qualcosa e lui non aveva saputo far
altro che iniziare a correre verso la direzione opposta, senza mai
guardarsi indietro.
Solo
quella notte, infreddolito ed ancora terrorizzato dai passi pesanti
dei loro stivali sulla strada battuta, aveva avuto il coraggio di
tornare.
Si
era affacciato alla finestra e, dopo aver appurato che la casa fosse
vuota, vi si era praticamente buttato dentro.
La
balia, con un grosso livido nero sotto l'occhio destro, era seduta in
silenzio sulla sedia su cui si appoggiava Aera da piccolo, per
ascoltare i racconti della madre.
Quando
aveva messo piedi nella stanza, la donna aveva alzato lo sguardo e
gli aveva fatto cenno di avvicinarsi, abbracciandolo poi come mai, in
otto anni di conoscenza, aveva fatto.
Dietro
di lei, il letto era vuoto.
***
Thomas
scivolò sopra una foglia particolarmente bagnata e cadde con
le
ginocchia sul terreno roccioso.
«Ouch.»
Accidenti
a quell'elfo.
Singhiozzò
quando si accorse che con la torcia stava per appiccare fuoco ad un
arbusto lì vicino.
L'aveva
legato, saccheggiato – salvo poi restituito le poche cose
preziose
che effettivamente aveva –, legato di nuovo e, se fosse stato
per
lui, l'avrebbe lasciato in quello stato fino al suo ritorno.
Si
supponeva che dovesse essere lui, Thomas, e non l'altro ad avere il
diritto di mostrarsi offeso.
A
quanto pareva, invece, doveva esserci qualche regola non scritta
nella cultura elfica che sanciva il contrario.
Thomas
sospirò e si fece forza per tornare in piedi –
cercando di tenere
la torcia sufficientemente lontana da qualsiasi elemento
infiammabile.
Quando
era tramontato il sole, senza dire nemmeno una parola, l'elfo aveva
lasciato cadere una delle due sacche che trasportava ai piedi di una
quercia. Poi, scambiando un'occhiata d'intesa con Bartr, si era
allontanato verso la direzione opposta da cui erano arrivati.
Thomas
aveva fatto per seguirlo ma l'altro uomo gli aveva posato una mano
sulla spalla e, scuotendo la testa, gli aveva chiesto aiuto nel
montare l'accampamento.
L'elfo
non era tornato nemmeno per cenare.
«Non
è colpa vostra» l'aveva rassicurato Bartr,
divorando quelle che
sembravano essere intestina di cervo molto, molto attorcigliate fra
loro.
Lui
non aveva potuto far altro che annuire mentre non riusciva ad
ordinare in alcun modo i pensieri che gli vorticavano in testa.
Poco
tempo dopo, Bartr aveva lanciato l'ultimo ceppo di legno nel fuoco e
gli aveva augurato buona notte.
Thomas
aveva provato a dormire, davvero – e non che fosse comunque
facile,
con i rumori della foresta a tenerlo sveglio ed il forte russare
dell'altro uomo poco distante da lui – ma qualsiasi tentativo
di
trovare una posizione comoda portava con sé nuovi pensieri e
nuove
preoccupazioni.
Ogni
volta che chiudeva gli occhi, il fumo che saliva lento nel cielo di
quel mattino di stagliava contro le sue palpebre.
Thomas
aveva deciso di rimandare il momento in cui riflettere sugli eventi
degli ultimi giorni.
Non
poteva, semplicemente; almeno non ora dal momento che non sembrava
affatto reale.
La
Cattedrale in fiamme, il Maestro rapito, un colpo di stato.
In
sé, covava ancora la speranza che fosse tutto un incubo dal
quale
potersi risvegliare al più presto: prima del prossimo passo
nel buio
della foresta, si sarebbe risvegliato nel proprio letto, avrebbe
fatto colazione, sarebbe sceso in cortile ad allenarsi con la spada e
gli altri Eletti gli avrebbero lanciato i soliti sguardi sprezzanti.
Avrebbe poi pranzato da solo, nell'immensa sala che era riservata
agli eredi al trono, perché nessuno dei suoi fratelli
–
fratellastri, come gli ricordavano ogni sfortunata volta in cui si
incontravano nei corridoio – si fermava mai ad aspettare il
suo
arrivo, oppure con il Maestro, ancora troppo concentrato sui suoi
studi per offrirgli un'adeguata compagnia ma quantomeno non sarebbe
stato soltanto il rumore delle sue posate a risuonare nell'ambiente.
Se
anche solo si fermava a pensare che tutti loro, dagli Eletti alle
guardie e dai sacerdoti ai suoi fratelli, potevano essere morti...
Una
nuova caduta interruppe i suoi pensieri ma questa volta dovette
poggiare la mani per terra onde evitare di sbattere la faccia.
La
torcia, che aveva lasciato andare istintivamente, rotolò
vicino ad
un cespuglio in fiore che prese fuoco all'istante.
Mordendosi
il labbro inferiore per non urlare dalla frustrazione, Thomas
soffocò
la fiamma con i guanti prima che potesse ridurre tutta la vegetazione
attorno a lui in un mucchio di cenere.
Seguire
l'elfo gli era sembrata un'idea valida, quando si era rassegnato
all'insonnia; solo ora ne vedeva i lati negativi. Non solo non aveva
tenuto contro del buio e del suo pessimo senso d'orientamento ma
nemmeno del fatto che, anche ammesso l'avesse infine trovato davvero,
cosa mai avrebbe potuto trarre da uno come lui?
Quando
finalmente anche l'ultima lingua di fuoco si fu spenta, Thomas si
lasciò cadere all'indietro.
Nemmeno
le stelle sopra di lui, quelle poche che si intravedevano attraverso
la fitta coltre degli alberi, gli diedero il conforto di cui aveva
bisogno.
«State
cercando di dare fuoco all'intera foresta?»
La
voce ironica a pochi passi da lui lo colse talmente di sorpresa che
sobbalzò, portando la mano all'elsa della spada –
salvo poi
ricordarsi che l'aveva lasciata all'accampamento in favore del
pugnale che gli aveva offerto Bartr. Non ebbe comunque bisogno di
rispondere perché, una manciata di secondi dopo, una soffice
luce
blu illuminò un paio di stivali di fronte a lui.
Thomas
sollevò lo sguardo per incontrare gli occhi del Nateh'n ma
questo si
era già voltato per incamminarsi in mezzo agli arbusti.
«Non
ho intenzione di aspettarvi.»
Senza
farselo ripetere, Thomas si ritrovò a seguire la flebile
luce
attraverso la foresta.
C'era
un fiume, lì vicino.
Thomas
conosceva le mappe geografiche di tutto il regno a memoria e sapeva
che il Lliuto divideva la strada fra Alenea ed Onalĩa
esattamente a metà, ma questo non l'aveva certo aiutato ad
orientarsi meglio né a notare il rumore dell'acqua che
scorreva.
Quando
arrivarono in uno spiazzo erboso accanto al quale una conca sulla
parete del fiume aveva creato un piccolo laghetto più simile
ad una
grossa pozzanghera che ad altro, il Nateh'n lasciò cadere
dei pezzi
di legno vicino alle braci di un fuoco ormai spento.
La
luce blu che teneva in mano, che altri non era che un sasso
fluorescente, si spense al contatto con una delle tasche dell'elfo ma
la luna, piena, era perfettamente visibile in quel punto della
foresta e la sua luce era più che sufficiente.
Poco
più in là, la casacca bagnata che aveva indossato
era appesa al
ramo di un albero.
«Le
braci sono ancora calde» disse il Nateh'n senza rivolgergli
alcuno
sguardo e Thomas si avvicinò titubante, osservandolo mentre
frugava
all'interno della propria sacca, prima di sedersi accanto al
focolaio.
L'elfo
zoppicava ancora, anche se tentava di non darlo a vedere; estrasse un
involucro di pelle e poi delle foglie scure dalla tasca, per
lasciarsi cadere con un mugugno soffocato a pochi passi da lui.
«Sembra
una tagliola per vllyne [1]
»
mormorò Thomas quando l'altro sollevò la stoffa
che gli copriva il
polpaccio.
Il
Nateh'n fece una smorfia. «È
una tagliola per vllyne.»
Il
taglio partiva da dietro il ginocchio ed arrivava fino alla caviglia,
seguendo un percorso visibilmente dentellato lungo il quale la pelle
era stata lacerata in più punti, probabilmente nel tentativo
di
liberarsi dalla presa.
Thomas
lasciò che cadesse di nuovo il silenzio mentre l'altro
passava
delicatamente le erbe sulla ferita slabbrata. Una volta, con un
esemplare cucinato servito nel proprio piatto, il Maestro gli aveva
spiegato il senso delle trappole che veniva piazzate dappertutto: dal
momento che il vllyne era estremamente bravo a liberarsene, anche se
poi perdevano talmente tanto sangue da morire comunque poco lontano
dalla tagliola, i cacciatori avevano dato inizio ad una competizione
al termine della quale vinceva colui che aveva catturato l'animale
senza lasciarlo scappare.
I
segni netti e quasi geometrici sulla carne cotta, gli aveva mostrato
il Maestro, indicavano infatti che la trappola aveva ucciso il vllyne
all'istante e che questi non aveva avuto nemmeno il tempo di
dimenarsi.
Ottime
carni, aveva aggiunto il Maestro ma Thomas, pur facendosi
forza
per ignorare il conato di vomito che gli saliva dallo stomaco, non
era riuscito a mangiarle.
«Avete
bisogno di aiuto?» la sua stessa voce lo colse impreparato
nel
momento in cui uscì dalla sua gola e persino l'elfo
sembrò
sorpreso. Solo un istante, poi il solito ghigno comparve sulle sue
labbra.
«Voi?»
gli chiese con un tono che non sembrava affatto divertito.
«Cosa
potreste fare?»
Thomas
portò istintivamente una mano alla propria fronte; lui non
poteva
vederlo ma sapeva che il cerchio sulla sua fronte stava brillando.
«Potrei
aiutarvi con le bende.»
«Nient'altro?»
Thomas
esitò a rispondere – qualcosa, nel sorriso del
Nateh'n, lo
avvertiva di star giocando con il fuoco.
«Non
insegnano ai giovani Eletti alcun incantesimo di guarigione?»
La
consapevolezza che si nascondeva dietro quelle semplici parole fece
cadere di nuovo il silenzio. Lo scorrere del fiume coprì
ogni altro
rumore se non il fruscio delle foglie sulla gamba dell'elfo ed il
vento che faceva oscillare le cime degli alberi.
Il
Nateh'n fissava davanti a sé, sempre con un sorrisetto
vittorioso
sulle labbra, e Thomas, che fino a quel momento l'aveva imitato, si
girò verso di lui.
«Invece
insegnano agli elfi come lanciare un incantesimo dormiente.»
Il
sorriso sulle sue labbra scomparì ma continuò a
tenere lo sguardo
lontano.
«Evidentemente,»
la voce del Nateh'n divenne quasi un sussurro ma quanto di
più serio
Thomas avesse sentito negli ultimi giorni. «abbiamo
più cose in
comunque di quanto pensassimo.»
Sospirando,
Thomas si lasciò cadere all'indietro e chiuse gli occhi.
«Era
magia, quella con cui avete addormentato le guardie della carrozza.
Non l'effetto collaterale del fumo.»
Il
Nateh'n sbuffò. «In realtà quel fumo dovrebbe
far cadere
addormentati» asserì lentamente per poi
aggiungere, a voce talmente
bassa che Thomas non capì bene cosa volesse dire:
«... se solo
quell'imbroglione tenesse fede a quello che promette sui propri
prodotti.»
Un
ululato in lontananza riempì l'aria prima di nuove parole.
«Era
debole e si confondeva con il resto ma era magia senza alcun
dubbio»
continuò Thomas. «Si percepisce il suo sfrigolio
nell'aria come
l'elettricità prima di un temporale.»
«Così
dicono» ribatté il Nateh'n.
«Pensavo
che gli elfi non ne fossero capaci.»
«Pensavo
che ogni re dovesse per forza possederla.»
Thomas
aprì la bocca per rispondere ma non riuscì ad
emettere alcun suono.
Quando sollevò le palpebre si stupì nel trovare
un paio di occhi
che lo fissavano di rimando a nemmeno un passo da lui.
Non
si accorto che il Nateh'n si fosse sdraiato né che lo stesse
guardando.
La
luce della luna gli accarezzava la guancia rivolta verso l'alto, i
capelli erano schiacciati malamente contro il terreno e le sue
orecchie, stagliate contro il buio della foresta, sembravano ancora
più lunghe; non c'erano sorrisi ironici o di scherno sul suo
volto,
solo una profonda stanchezza dettata dagli occhi che quasi
brillavano, sotto le stelle.
«Non
dovreste andare a Cremysta.»
Thomas
sbatté le palpebre un paio di volte prima di accorgersi che
l'altro
aveva parlato: troppo concentrato nell'osservare i suoi occhi, non si
era nemmeno accorto di quando aveva mosso le labbra.
«Vi
stanno aspettando là» continuò l'elfo,
a bassa voce e senza
distogliere lo sguardo. «e non per un'accoglienza regale.
Cézras
non si fermerà fino a quando non vi avrà
ucciso.»
Un
lampo gli attraversò l'iride.
«Chi
è Cézras?»
Il
Nateh'n prese un lungo respiro prima di rispondere e la sua voce si
abbassò ancor di più. «Un
mercenario.»
Esitò.
«Era...» iniziò e Thomas si fece
più attento, capendo che
qualcosa di importante era in arrivo.
Ma
poi, senza darsi la possibilità di continuare, il Nateh'n
scosse la
testa e si voltò dalla parte opposta.
«È
qualcuno da cui è meglio scappare» e questa volta
la sua voce si
fece più risoluta.
Il
giovane fece per chiedergli di continuare ma l'altro lo interruppe
ancor prima che potesse proferir parola.
«Vi
accompagnerò da qualcuno che potrà
aiutarvi» promise l'elfo. «ma
poi le nostre strade si divideranno.»
Una
folata di vento gelido si insinuò fra loro e Thomas non
riuscì a
fare niente per rompere quella barriera che li separava.
Ancora
un volta, la conversazione era finita e non c'era nulla che potesse
essere aggiunto.
***
Le
prime luci dell'alba si riflettevano sulle guglie dorate del palazzo
reale e le urla degli abitanti di Cremysta avrebbero coperto il
rumore delle ruote contro la strada e lo scalpiccio dei cavalli di
qualsiasi carrozza.
Pecklo
aspettava di fronte alle enormi porte del palazzo ma nemmeno lui
avrebbe saputo dire se quelle erano grida dettate dalla gioia o dal
malcontento.
«Dov'è
la regina?» Un abitante malconcio cadde in ginocchio di
fronte alle
guardie. «Perché non si mostra?»
La
guardia più vicina strinse la mano intorno all'elsa della
propria
spada. «È usanza che la regina non esca dalle
proprie camere per
almeno nove giorni dalla morte del re, popolano.»
«Che
vengano mangiate dagli hooke [2],
le usanze!» urlò una voce che riuscì a
sovrastare le altre.
«Ha
ragione» esclamò di nuovo l'uomo in ginocchio.
«Abbiamo il diritto
di sapere cosa sta succedendo!»
«Vi
consiglio di ritornare fra la folla, popolano.»
«No!»
una donna si era arrampicata sullo stesso gradino in cui stava
Pecklo. «È stata la Regina Thempsa ad insegnarci a
combattere per i
nostri diritti: non lasceremo che le sue parole vengano
dimenticate!»
La
guardia sollevò la spada e Pecklo, sospirando, si
ricordò il motivo
per il quale si era ritirato come sacerdote nel palazzo reale.
Alzò
una mano e ondate di energia verdastra si diffusero nella piazza,
allontanando gli abitanti troppo vicini all'entrata. L'uomo malconcio
cadde indietro addosso ad una lavandaia.
«Per
favore, brava gente» esclamò con voce ferma,
facendosi avanti fra
il manipolo di guardie. «I vostri desideri sono nel giusto,
ma non
abbiamo la possibilità di rispondere alle vostre
domande.»
«Se
non ora,» gridò la stessa donna di prima.
«allora quando?»
«Presto»
promise Pecklo. «Ma ora non servirà a niente
radunarsi contro-»
La
mano posata rapidamente sulla sua spalla lo interruppe e persino la
folla rimase in attesa, mentre il corriere appena uscito dal palazzo
gli sussurrava qualcosa all'orecchio.
Pecklo
sospirò nuovamente.
«Bene»
rispose, a bassa voce. «Fate aprire i cancelli laterali.
Chiunque ci
sia, in quella carrozza... Non possiamo permetterci che la folla
scateni una rivolta.»
Il
corriere annuì e tornò sui propri passi.
«Brava
gente,» riprese Pecklo. «le risposte arriveranno,
ma non oggi. Oggi
è un giorno di commemorazione: i funerali del nostro amato
re
saranno celebrati nel pomeriggio e sono sicuro che nessuno di voi
abbia il desiderio di macchiare il suo ricordo con uno di spargimento
di sangue all'alba della sua morte.»
Solo
la donna di prima fece per ribattere ma qualcuno la zittì in
tempo
e, con un mormorio soffuso e l'aiuto delle guardie, la piazza
tornò
deserta – come avrebbe dovuto essere.
La
carrozza si palesò solo una manciata di minuti dopo.
Pecklo,
con un gesto, indicò i cancelli aperti del giardino interno
poi,
lasciandosi alle spalle una preghiera alla Stella, seguì le
guardie
oltre i portoni.
«Che
la Luce dell'Ovest illumini i nostri cammini.»
Pecklo
camminò rapidamente fra i corridoi illuminati ancora dalle
fiamme
delle torce appese ai muri.
Quando
arrivò di fronte alle porte per i giardini interni, si
passò una
mano sulla fronte – il simbolo degli Eletti era nascosto dai
capelli neri che andavano ingrigendosi sulle tempie – prese
un
profondo respiro e si forzò ad attraversarle.
Le
ultime stelle, oltre i maestosi alberi del cortile, sparivano
all'orizzonte ma nemmeno questo riuscì a non far infrangere
le
speranze dell'uomo, alla vista di coloro che stavano di fronte a lui.
«Maestro»
sussurrò, abbassando il capo in un saluto formale.
L'anziano,
alzando solo allora lo sguardo su di lui, chiuse gli occhi per
restituirgli al saluto.
Le
guardie della scorta avevano già iniziato a sbrigliare gli svædiphan
che scomparivano man mano, tornando immediatamente nei recinti per
loro adibiti.
Pecklo
tenne aperte le porte dietro di lui, invitando il Maestro ad entrare.
«Spero
che non siate troppo stanco per il viaggio, Maestro»
esclamò,
mentre questo lo oltrepassava. «Le vostre stanze sono
già pronte,
nel caso abbiate bisogno di riposare.»
«Ragazzo
mio,» esalò il Maestro e Pecklo non
poté nascondere un sorriso di
malinconia al ricordo dei tempi in cui egli aveva insegnato al
ragazzino che era stato. «temo che non ci sia tempo per
riposo. Non
in un giorno come questo.»
Un
soldato semplice si parò davanti a loro prima che altro
potesse
essere aggiunto.
«Maestro»
esclamò con un inchino, prima di voltarsi verso Pecklo e
ripetere il
gesto. «Primo Sacerdote. La regina ed il Consigliere Adrian
hanno
richiesto udienza con la massima priorità.»
«Pensavo
che fossimo attesi nella Sala del Consiglio per discutere con i
nobili riuniti» ribatté il sacerdote.
La
guardia non si mosse. «Con la massima priorità,
Primo.»
«Suppongo
che i nobili dovranno aspettare» sospirò Pecklo ed
il soldato si
girò per fargli strada fino alle stanze della regina. Il
Maestro,
restando in silenzio, si limitò a seguirli attraverso il
palazzo,
fermandosi occasionalmente per un breve respiro. Pecklo fu tentato di
chiedere se avesse di aiuto ma, prima ancora di poter aprire la
bocca, si rese conto di essere giunto a destinazione.
La
regina, seduta accanto alle enormi finestre della stanza matrimoniale
– la più grande e lussuosa del palazzo –
non li degnò che di
uno sguardo stanco da sopra la spalla.
I
capelli chiarissimi che le ricadevano sulle spalle ricurve la
facevano apparire ancora più vecchia di quanto non fosse e
quando
parlò la voce uscì con fatica dalla labbra secche.
«Maestro»
sussurrò e quasi immediatamente un violento attacco di tosse
le fece
portare una mano al petto.
«Vostra
maestà» salutò in rimando il Maestro
che, di fronte alla vecchia
regina, sembrava di gran lunga più giovane.
«Vostra
maestà» ripeté una voce preoccupata da
oltre la scrivania contro
la parete frontale. «Non dovreste sforzarvi così
tanto: potevo
pensare io a questa faccenda.»
La
regina si lasciò scappare un piccolo sorriso. «Ti
ringrazio,
Adrian, ma non posso rimandare i miei doveri nei confronti del
regno.»
La
Consigliera – Pecklo notò solo in quel momento che
indossava
l'armatura ufficiale della guardia cittadina –
tornò a sedersi
dietro la scrivania, senza però smettere di lanciare
occhiate
preoccupate alla regina.
«Mi
dispiace di avervi deviato dall'incontro con i nobili
riuniti»
esclamò dopo una manciata di secondi, la solita voce
autoritaria che
era aveva consigliato il re per più di quindici anni.
«Ma la regina
ed io abbiamo bisogno di risposte precise prima di
quell'incontro. Quindi--»
«Per
favore, Gladys» la voce della regina era un sussurro in
confronto a
quella di Adrian. «Ditemi che il vostro messaggero era in
errore.»
Dopo
un lungo silenzio, il Maestro parlò.
«No,
vostra maestà. Vorrei tanto potervi mentire, in queste
circostanze.»
La
regina lasciò che la testa le cadesse contro il petto ed
Adrian
chiuse gli occhi, recitando con le labbra un pezzo del Poema [3].
“La
lucente spada lasciò cadere/ terra nei capelli, volto
coperto dal
fango/ solo gli occhi del cielo potevan vedere/ e la battaglia
finì
in quell'ultimo giorno.”
«Raccontate
ogni cosa dal suo inizio, Maestro.»
Pecklo
chiuse gli occhi a sua volta.
«Tre
giorni fa sono partito insieme all'Erede ed a una piccola scorta di
soldati dalla Cattedrale di Alenea. Le due carrozze si sono
distanziate come previsto.
A
poco più di mezza giornata di viaggio, ancora nei boschi
presso la
città, degli uomini incappucciati hanno assaltato la
carrozza su cui
viaggiavo: erano Eletti ma non li avevo mai incontrati prima
né
avevano il marchio dorato sulla fronte.»
“Rosso
di sangue il dorato mantello/ rubato dai gemiti della morte arrivata/
farfalla libera dal dolce fardello/ una rosa di fuoco, leggenda era
nata.”
«Hanno
lanciato un tempesta di fuoco ma sono riuscito a completare un
incantesimo che ci ha permesso di uscire indenni dalle fiamme.
L'Erede era con loro, così come l'elfo dai capelli rossi e
l'arma
incantata» il Maestro chinò il capo e la sua voce
si spense. «Non
ha fatto nulla per evitare la tempesta.»
“Il
mondo fu tomba di tanto splendore/ le nubi piangevan i suoi passi
leggeri/ la terra tremò il suo infinito dolore/ lacrime del
Bambino,
negli occhi suoi veri.”
«La
notizia dell'incendio ci è arrivata al tramonto del terzo
giorno. È
partito dalla Cattedrale e si è diramato fino agli
appartamenti
degli Eletti: solo una decina sono sopravvissuti.»
“Poi,
fra le luci dell'alba/ scia di farfalle attraverso le colline/ il
segno e la salma/ persino sopra le correnti marine.”
«L'elfo
è stato visto scappare poco dopo.»
La
regina scosse lentamente la testa ed un altro attacco di tosse la
fece piegare.
«Gli
altri..?» persino la voce di Adrian apparì incerta.
«Nessuno
dei principi è uscito dalla Cattedrale.»
Il
sacerdote portò le mani al collo ed alzò lo
sguardo verso il
soffitto alto.
Il
suono delle campane della chiesa, esattamente di fronte al palazzo,
fece tremare i vetri mentre lo scalpiccio oltre la porta indicava
che, finalmente, la servitù si era svegliata ma niente, in
quell'istante – nemmeno il rumore della boccetta di
inchiostro che
si infranse contro il pavimento quando Adrian fece cadere ogni
oggetto dalla scrivania – poté sovrastare la
cantilena terribile
delle lacrime di una madre.
“Pregando
al tempo/ d'illuminar la sera/ sola Stella, nel vento/ dell'ora
nostra più nera.”
~
Glossario:
[1]
“Il vllyne
sorrise da sotto i baffi e fece per addentare il primo pesce caduto
dal carretto del cacciatore quando un orso gli si parò
davanti.
«Dove
hai trovato
tutti questi pesci?» gli chiese con voce grave, indicando con
gli
artigli il lago ghiacciato.
«Li
ho pescati»
esclamò senza esitazione il vllyne. «Fai un buco
nel ghiaccio ed
immergici la coda: vedrai quanti pesci abboccheranno!» e
l'orso, non
molto noto per la propria intelligenza, se ne andò per fare
come gli
era stato detto.
Così
il vllyne poté
mangiare tranquillamente il pesce che aveva rubato; poi, quando fu
sazio, tornò a trotterellare verso la foresta ma
incappò in una
delle tagliole lasciate dal cacciatore e morì.”
Tratto
da “Venti
favole senza morale (più una)”, raccolte
da Tsegh M. Mirborr.
[2]
“Non è per
vantarmi ma ho incontrato, in tutta la mia vita, ben tre hooke
e nessuno di loro mi ha ucciso.
Le
leggende li
descrivono sempre come demoni mostruosi, con corna ed artigli, pronti
ad ingannare chiunque creda alle loro parole per sbranare la loro
anima prima che questa possa ritornare nell'abbraccio della Luce
dell'Ovest.
Non
credete a tali
menzogne.
Gli
hooke non sono
altro che dolci fanciulle, il più delle volte indifese,
maltrattate
per essere più belle di molte altre.
[...]
Una di loro mi
ha spiegato un giorno che, molto tempo fa, erano adorate da noi
mortali perché possiedono il dono di avverare qualsiasi
nostro
desiderio [...].
Proprio
non capisco
tutta questa malignità nei confronti di cotal bellezza
soave!”
Tratto
da “La
ballata del cadavere vanitoso” di Flov Cetar H. P.
[3]
“Si racconta
che, esattamente cent'anni dopo la morte della Regina, nei giorni
cupi delle guerre contro la Confederazione di Elsàvon, un
giovanotto
pensieroso camminasse lungo il litorale a sud di Alenea.
Colto
improvvisamente da una divina visione, il giovane corse a casa ed
iniziò a scrivere.
Dopo
tre anni,
rimirando il lavoro più impegnativo di tutta la sua carriera
di
scrittore e poeta, Lhira Nediigate si disse soddisfatto: il Poema
– allora intitolato “Il poema della
regina” – era finalmente
ultimato.”
Dal
capitolo su
Lhira Nediigate di “Biografie non autorizzate”,
autore
ignoto.
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