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Autore: _wayward    23/03/2013    1 recensioni
Il Nateh'n oridinò un'altra birra e si voltò verso la porta d'ingresso da dove, con i denti dorati in bella mostra, Lucky – che avrebbe presto capito di avere i giorni contati – gli si stava avvicinando sorridente.
«Ti piacerebbe racimolare un po' di denaro?»
Due ore dopo, quel buono a nulla era ancora vivo e lui si stava incamminando verso un'enorme, grandiosa avventura.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Autore: _wayward.
Titolo: L'Emblema della Farfalla ~
Fandom: Originale » Fantasy.
Rating: Giallo.
Genere: Long fic [4/15].

Personaggi/Pairing: Il Nateh'n, Thomas, Bartred, Aera.
Parole: ~4659.
Avvertimenti: -

Disclaimer: Mine ©.
Note: [0] Imagine, a poem – F. Brown, 1955.
1) Non so a quanti possa effettivamente interessare, ma, dal momento che l'intero universo che fa da sfondo a questa storia è veramente vasto, ho creato un livejournal con lo scopo di raccogliere tutto il materiale che si accumula di capitolo in capitolo. Su the_emblem potrete trovare curiosità, aggiornamenti, un glossario con tanto di vocabolario e quan'altro mi venga in mente.

Introduzione: «Ti piacerebbe racimolare un po' di denaro?»
Due ore dopo, Lucky era ancora vivo ed il Nateh'n si stava incamminando verso un'enorme, grandiosa avventura.




~ L'Emblema della Farfalla
Capitolo IV ~ Immagina, un poema [0]



Avevano camminato in silenzio per tutto il giorno.
Thomas si strinse nelle spalle e rimpianse, nel freddo vento che si era levato da almeno un paio d'ore, il non aver accettato il mantello che Bartr gli aveva offerto quella mattina. Poi lo sguardo penetrante del Nateh'n spezzò i suoi pensieri e lui riportò le braccia lungo i fianchi, ad accarezzare l'elsa della propria spada che oscillava lievemente a tempo con il suo passo.
Bartr, subito dietro all'elfo che, pur zoppicando, si ostinava ad avanzare, gli lanciò un'occhiata preoccupata che Thomas tentò di ignorare.
Era stato Bartr ad avere insistito pur di accompagnarlo quantomeno fino al porto di Onalĩa, quella mattina – dopo essersi inginocchiato di fronte a lui ed avergli promesso di aiutarlo a raggiungere la capitale con qualsiasi mezzo. Il Nateh'n a quel punto si era alzato, sempre barcollante, e, il sorriso gelato sul volto, aveva detto al compagno: «Fa' come vuoi».
Quando, raccolte un paio di sacche dall'accampamento, l'elfo aveva fatto per andarsene, Bartr lo aveva fermato stringendogli l'avambraccio.
«Che cosa stai facendo?»
«Me ne vado» aveva detto l'altro.
«Non possiamo certo andarcene così.»
«Può venire anche lui, se vuole» una smorfia era nata sul volto del Nateh'n. «Sono sicuro che si troverà bene a Nath. O da qualche parte vicino al Ganell.»
Bartr aveva scosso la testa. «Dobbiamo aiutarlo.»
«No, non dobbiamo» e si era fatto più distante. «Tu vuoi farlo, non vedo perché questo dovrebbe coinvolgere anche me.»
«Che cosa ti prende?» aveva chiesto Bartr, alzando le folte sopracciglia.
Il Nateh'n aveva serrato la mascella ed il suo sguardo si era posato su di lui.
Poi avevano iniziato a parlare fra di loro, ma, seppure impegnato nella conversazione, l'elfo non aveva smesso di fissarlo. Thomas era riuscito a sostenere i suoi occhi che, implacabili, cercavano quasi di oltrepassargli l'anima stessa e, infine, proprio dal verde limpido di quell'iride, fra una parola ed un'imprecazione verso il proprio compagno, aveva intravisto qualcosa.
L'odio ed il rimpianto si erano schiantati su di lui con una forza che, se colto impreparato, l'avrebbe fatto indietreggiare.
Con il mento alzato verso l'alto, il fumo che saliva dalla Cattedrale alle spalle e gli occhi del Nateh'n ad accusarlo di crimini mai commessi, Thomas si era sentito l'essere più miserabile del regno.

***

L'unica cosa che Aera ricordava era il suo sorriso.
Non che l'avesse realmente visto di persona, certo, ma sua madre gliene aveva parlato così tante volte che l'immagine che si era costruito era ormai impressa nella sua memoria come se fosse un effettivo ricordo.
Ogni tanto, Aera usciva sotto la pioggia – perché era l'unico momento in cui la balia era troppo impegnata a raccogliere l'acqua piovana che filtrava attraverso i buchi del tetto per tenerlo d'occhio – e correva fino alla biblioteca vicino al porto. Se l'unica guardia lì posta era il vecchio Aldebrani, allora riusciva a sgusciare furtivo sotto fra le sue gambe ed a rifugiarsi in qualche angolo buio, con l'unico conforto dell'unico libro che amasse e del ticchettio della pioggia sul vetro delle finestre.
Aera non sapeva leggere – la balia faceva di tutto, giorno per giorno, al fine di insegnargli a “diventare un buon partito”, anche se questo per lui non suscitava un grande interesse e tanto più dal momento che aveva ancora qualche dubbio su cosa essere un buon partito volesse significare. Nonostante questo, però, si impegnava a seguire con il piccolo dito spesso sporco di fango le lettere scure sulla pagina, osservava con diligenza le varie immagini ed annuiva, per dare enfasi alla narrazione, quando raggiungeva un punto particolarmente ostico in cui proprio non riusciva a ricordare la storia.
Era questo uno dei motivi per cui Aera amava quel libro dalla copertina logora e malconcia: sua madre gliel'aveva letto così tante volte, quando era più piccolo, che avrebbe potuto forse recitarlo a memoria.
L'altro, invece, arrivava nel momento in cui il bambino girava l'ultima pagina.
Il ritratto sfocato di un uomo dai capelli biondi, con l'armatura ben lucidata ed il cerchio d'oro sulla fronte, il più luminoso che Aera avesse mai visto, gli sorrideva attraverso la polvere.
Spesso accarezzava il foglio con la punta dell'indice, tracciando contorni del suo viso, dagli occhi chiari fino al mento, e cercando di ricordare la voce di sua madre quando ancora non era costretta a letto, schiacciata dalla malattia.
«Tuo padre è un eroe» gli raccontava, cullandolo dolcemente davanti al camino. Le lacrime le scivolavano sulle guance senza che lei facesse nulla per fermarle. «Non dimenticarlo mai.»
Aera non voleva dimenticare ma era difficile ricordare qualcuno che non aveva mai conosciuto.
Quando la madre si era ammalata e la balia era diventata la persona più influente nella sua vita, quest'ultima aveva iniziato a plagiarlo con ben altri tipi di storie.
A volte Aera entrava silenziosamente nella camera della madre, le prendeva la mano e qualche lacrima scendeva veloce lungo le sue guance.
«Lui non mi ha dimenticato» sussurrava contro le lenzuola bianche, negando le parole della balia in un solo singhiozzo, ma, nelle notti più fredde, nemmeno i sospiri confortevoli della madre riuscivano a farglielo credere.
Poi erano arrivati.

Pioveva.
Aera aveva visto i loro mantelli rossi svolazzare, bagnati, nell'aria tiepida della sera; aveva capito dove fossero diretti ed aveva avuto paura. Si era nascosto dietro il cesto di frutta che la signora Llin lasciava ogni giorno fuori dalla porta della propria casa.
Aveva visto, spaventato, la balia che apriva la porta in seguito al loro bussare e, quando loro si erano spinti dentro la casa, Aera aveva sobbalzato così forte che il cesto si era rovesciato.
L'avevano visto, la balia gli aveva gridato qualcosa e lui non aveva saputo far altro che iniziare a correre verso la direzione opposta, senza mai guardarsi indietro.
Solo quella notte, infreddolito ed ancora terrorizzato dai passi pesanti dei loro stivali sulla strada battuta, aveva avuto il coraggio di tornare.
Si era affacciato alla finestra e, dopo aver appurato che la casa fosse vuota, vi si era praticamente buttato dentro.
La balia, con un grosso livido nero sotto l'occhio destro, era seduta in silenzio sulla sedia su cui si appoggiava Aera da piccolo, per ascoltare i racconti della madre.
Quando aveva messo piedi nella stanza, la donna aveva alzato lo sguardo e gli aveva fatto cenno di avvicinarsi, abbracciandolo poi come mai, in otto anni di conoscenza, aveva fatto.
Dietro di lei, il letto era vuoto.

***

Thomas scivolò sopra una foglia particolarmente bagnata e cadde con le ginocchia sul terreno roccioso.
«Ouch.»
Accidenti a quell'elfo.
Singhiozzò quando si accorse che con la torcia stava per appiccare fuoco ad un arbusto lì vicino.
L'aveva legato, saccheggiato – salvo poi restituito le poche cose preziose che effettivamente aveva –, legato di nuovo e, se fosse stato per lui, l'avrebbe lasciato in quello stato fino al suo ritorno.
Si supponeva che dovesse essere lui, Thomas, e non l'altro ad avere il diritto di mostrarsi offeso.
A quanto pareva, invece, doveva esserci qualche regola non scritta nella cultura elfica che sanciva il contrario.
Thomas sospirò e si fece forza per tornare in piedi – cercando di tenere la torcia sufficientemente lontana da qualsiasi elemento infiammabile.
Quando era tramontato il sole, senza dire nemmeno una parola, l'elfo aveva lasciato cadere una delle due sacche che trasportava ai piedi di una quercia. Poi, scambiando un'occhiata d'intesa con Bartr, si era allontanato verso la direzione opposta da cui erano arrivati.
Thomas aveva fatto per seguirlo ma l'altro uomo gli aveva posato una mano sulla spalla e, scuotendo la testa, gli aveva chiesto aiuto nel montare l'accampamento.
L'elfo non era tornato nemmeno per cenare.
«Non è colpa vostra» l'aveva rassicurato Bartr, divorando quelle che sembravano essere intestina di cervo molto, molto attorcigliate fra loro.
Lui non aveva potuto far altro che annuire mentre non riusciva ad ordinare in alcun modo i pensieri che gli vorticavano in testa.
Poco tempo dopo, Bartr aveva lanciato l'ultimo ceppo di legno nel fuoco e gli aveva augurato buona notte.
Thomas aveva provato a dormire, davvero – e non che fosse comunque facile, con i rumori della foresta a tenerlo sveglio ed il forte russare dell'altro uomo poco distante da lui – ma qualsiasi tentativo di trovare una posizione comoda portava con sé nuovi pensieri e nuove preoccupazioni.
Ogni volta che chiudeva gli occhi, il fumo che saliva lento nel cielo di quel mattino di stagliava contro le sue palpebre.
Thomas aveva deciso di rimandare il momento in cui riflettere sugli eventi degli ultimi giorni.
Non poteva, semplicemente; almeno non ora dal momento che non sembrava affatto reale.
La Cattedrale in fiamme, il Maestro rapito, un colpo di stato.
In sé, covava ancora la speranza che fosse tutto un incubo dal quale potersi risvegliare al più presto: prima del prossimo passo nel buio della foresta, si sarebbe risvegliato nel proprio letto, avrebbe fatto colazione, sarebbe sceso in cortile ad allenarsi con la spada e gli altri Eletti gli avrebbero lanciato i soliti sguardi sprezzanti. Avrebbe poi pranzato da solo, nell'immensa sala che era riservata agli eredi al trono, perché nessuno dei suoi fratelli – fratellastri, come gli ricordavano ogni sfortunata volta in cui si incontravano nei corridoio – si fermava mai ad aspettare il suo arrivo, oppure con il Maestro, ancora troppo concentrato sui suoi studi per offrirgli un'adeguata compagnia ma quantomeno non sarebbe stato soltanto il rumore delle sue posate a risuonare nell'ambiente.
Se anche solo si fermava a pensare che tutti loro, dagli Eletti alle guardie e dai sacerdoti ai suoi fratelli, potevano essere morti...
Una nuova caduta interruppe i suoi pensieri ma questa volta dovette poggiare la mani per terra onde evitare di sbattere la faccia.
La torcia, che aveva lasciato andare istintivamente, rotolò vicino ad un cespuglio in fiore che prese fuoco all'istante.
Mordendosi il labbro inferiore per non urlare dalla frustrazione, Thomas soffocò la fiamma con i guanti prima che potesse ridurre tutta la vegetazione attorno a lui in un mucchio di cenere.
Seguire l'elfo gli era sembrata un'idea valida, quando si era rassegnato all'insonnia; solo ora ne vedeva i lati negativi. Non solo non aveva tenuto contro del buio e del suo pessimo senso d'orientamento ma nemmeno del fatto che, anche ammesso l'avesse infine trovato davvero, cosa mai avrebbe potuto trarre da uno come lui?
Quando finalmente anche l'ultima lingua di fuoco si fu spenta, Thomas si lasciò cadere all'indietro.
Nemmeno le stelle sopra di lui, quelle poche che si intravedevano attraverso la fitta coltre degli alberi, gli diedero il conforto di cui aveva bisogno.
«State cercando di dare fuoco all'intera foresta?»
La voce ironica a pochi passi da lui lo colse talmente di sorpresa che sobbalzò, portando la mano all'elsa della spada – salvo poi ricordarsi che l'aveva lasciata all'accampamento in favore del pugnale che gli aveva offerto Bartr. Non ebbe comunque bisogno di rispondere perché, una manciata di secondi dopo, una soffice luce blu illuminò un paio di stivali di fronte a lui.
Thomas sollevò lo sguardo per incontrare gli occhi del Nateh'n ma questo si era già voltato per incamminarsi in mezzo agli arbusti.
«Non ho intenzione di aspettarvi.»
Senza farselo ripetere, Thomas si ritrovò a seguire la flebile luce attraverso la foresta.

C'era un fiume, lì vicino.
Thomas conosceva le mappe geografiche di tutto il regno a memoria e sapeva che il Lliuto divideva la strada fra Alenea ed Onalĩa esattamente a metà, ma questo non l'aveva certo aiutato ad orientarsi meglio né a notare il rumore dell'acqua che scorreva.
Quando arrivarono in uno spiazzo erboso accanto al quale una conca sulla parete del fiume aveva creato un piccolo laghetto più simile ad una grossa pozzanghera che ad altro, il Nateh'n lasciò cadere dei pezzi di legno vicino alle braci di un fuoco ormai spento.
La luce blu che teneva in mano, che altri non era che un sasso fluorescente, si spense al contatto con una delle tasche dell'elfo ma la luna, piena, era perfettamente visibile in quel punto della foresta e la sua luce era più che sufficiente.
Poco più in là, la casacca bagnata che aveva indossato era appesa al ramo di un albero.
«Le braci sono ancora calde» disse il Nateh'n senza rivolgergli alcuno sguardo e Thomas si avvicinò titubante, osservandolo mentre frugava all'interno della propria sacca, prima di sedersi accanto al focolaio.
L'elfo zoppicava ancora, anche se tentava di non darlo a vedere; estrasse un involucro di pelle e poi delle foglie scure dalla tasca, per lasciarsi cadere con un mugugno soffocato a pochi passi da lui.
«Sembra una tagliola per vllyne [1] » mormorò Thomas quando l'altro sollevò la stoffa che gli copriva il polpaccio.
Il Nateh'n fece una smorfia. «È una tagliola per vllyne.»
Il taglio partiva da dietro il ginocchio ed arrivava fino alla caviglia, seguendo un percorso visibilmente dentellato lungo il quale la pelle era stata lacerata in più punti, probabilmente nel tentativo di liberarsi dalla presa.
Thomas lasciò che cadesse di nuovo il silenzio mentre l'altro passava delicatamente le erbe sulla ferita slabbrata. Una volta, con un esemplare cucinato servito nel proprio piatto, il Maestro gli aveva spiegato il senso delle trappole che veniva piazzate dappertutto: dal momento che il vllyne era estremamente bravo a liberarsene, anche se poi perdevano talmente tanto sangue da morire comunque poco lontano dalla tagliola, i cacciatori avevano dato inizio ad una competizione al termine della quale vinceva colui che aveva catturato l'animale senza lasciarlo scappare.
I segni netti e quasi geometrici sulla carne cotta, gli aveva mostrato il Maestro, indicavano infatti che la trappola aveva ucciso il vllyne all'istante e che questi non aveva avuto nemmeno il tempo di dimenarsi.
Ottime carni, aveva aggiunto il Maestro ma Thomas, pur facendosi forza per ignorare il conato di vomito che gli saliva dallo stomaco, non era riuscito a mangiarle.
«Avete bisogno di aiuto?» la sua stessa voce lo colse impreparato nel momento in cui uscì dalla sua gola e persino l'elfo sembrò sorpreso. Solo un istante, poi il solito ghigno comparve sulle sue labbra.
«Voi?» gli chiese con un tono che non sembrava affatto divertito. «Cosa potreste fare?»
Thomas portò istintivamente una mano alla propria fronte; lui non poteva vederlo ma sapeva che il cerchio sulla sua fronte stava brillando.
«Potrei aiutarvi con le bende.»
«Nient'altro?»
Thomas esitò a rispondere – qualcosa, nel sorriso del Nateh'n, lo avvertiva di star giocando con il fuoco.
«Non insegnano ai giovani Eletti alcun incantesimo di guarigione?»
La consapevolezza che si nascondeva dietro quelle semplici parole fece cadere di nuovo il silenzio. Lo scorrere del fiume coprì ogni altro rumore se non il fruscio delle foglie sulla gamba dell'elfo ed il vento che faceva oscillare le cime degli alberi.
Il Nateh'n fissava davanti a sé, sempre con un sorrisetto vittorioso sulle labbra, e Thomas, che fino a quel momento l'aveva imitato, si girò verso di lui.
«Invece insegnano agli elfi come lanciare un incantesimo dormiente.»
Il sorriso sulle sue labbra scomparì ma continuò a tenere lo sguardo lontano.
«Evidentemente,» la voce del Nateh'n divenne quasi un sussurro ma quanto di più serio Thomas avesse sentito negli ultimi giorni. «abbiamo più cose in comunque di quanto pensassimo.»
Sospirando, Thomas si lasciò cadere all'indietro e chiuse gli occhi.
«Era magia, quella con cui avete addormentato le guardie della carrozza. Non l'effetto collaterale del fumo.»
Il Nateh'n sbuffò. «In realtà quel fumo dovrebbe far cadere addormentati» asserì lentamente per poi aggiungere, a voce talmente bassa che Thomas non capì bene cosa volesse dire: «... se solo quell'imbroglione tenesse fede a quello che promette sui propri prodotti.»
Un ululato in lontananza riempì l'aria prima di nuove parole.
«Era debole e si confondeva con il resto ma era magia senza alcun dubbio» continuò Thomas. «Si percepisce il suo sfrigolio nell'aria come l'elettricità prima di un temporale.»
«Così dicono» ribatté il Nateh'n.
«Pensavo che gli elfi non ne fossero capaci.»
«Pensavo che ogni re dovesse per forza possederla.»
Thomas aprì la bocca per rispondere ma non riuscì ad emettere alcun suono. Quando sollevò le palpebre si stupì nel trovare un paio di occhi che lo fissavano di rimando a nemmeno un passo da lui.
Non si accorto che il Nateh'n si fosse sdraiato né che lo stesse guardando.
La luce della luna gli accarezzava la guancia rivolta verso l'alto, i capelli erano schiacciati malamente contro il terreno e le sue orecchie, stagliate contro il buio della foresta, sembravano ancora più lunghe; non c'erano sorrisi ironici o di scherno sul suo volto, solo una profonda stanchezza dettata dagli occhi che quasi brillavano, sotto le stelle.
«Non dovreste andare a Cremysta.»
Thomas sbatté le palpebre un paio di volte prima di accorgersi che l'altro aveva parlato: troppo concentrato nell'osservare i suoi occhi, non si era nemmeno accorto di quando aveva mosso le labbra.
«Vi stanno aspettando là» continuò l'elfo, a bassa voce e senza distogliere lo sguardo. «e non per un'accoglienza regale. Cézras non si fermerà fino a quando non vi avrà ucciso.»
Un lampo gli attraversò l'iride.
«Chi è Cézras?»
Il Nateh'n prese un lungo respiro prima di rispondere e la sua voce si abbassò ancor di più. «Un mercenario.»
Esitò. «Era...» iniziò e Thomas si fece più attento, capendo che qualcosa di importante era in arrivo.
Ma poi, senza darsi la possibilità di continuare, il Nateh'n scosse la testa e si voltò dalla parte opposta.
«È qualcuno da cui è meglio scappare» e questa volta la sua voce si fece più risoluta.
Il giovane fece per chiedergli di continuare ma l'altro lo interruppe ancor prima che potesse proferir parola.
«Vi accompagnerò da qualcuno che potrà aiutarvi» promise l'elfo. «ma poi le nostre strade si divideranno.»
Una folata di vento gelido si insinuò fra loro e Thomas non riuscì a fare niente per rompere quella barriera che li separava.
Ancora un volta, la conversazione era finita e non c'era nulla che potesse essere aggiunto.

***

Le prime luci dell'alba si riflettevano sulle guglie dorate del palazzo reale e le urla degli abitanti di Cremysta avrebbero coperto il rumore delle ruote contro la strada e lo scalpiccio dei cavalli di qualsiasi carrozza.
Pecklo aspettava di fronte alle enormi porte del palazzo ma nemmeno lui avrebbe saputo dire se quelle erano grida dettate dalla gioia o dal malcontento.
«Dov'è la regina?» Un abitante malconcio cadde in ginocchio di fronte alle guardie. «Perché non si mostra?»
La guardia più vicina strinse la mano intorno all'elsa della propria spada. «È usanza che la regina non esca dalle proprie camere per almeno nove giorni dalla morte del re, popolano.»
«Che vengano mangiate dagli hooke [2], le usanze!» urlò una voce che riuscì a sovrastare le altre.
«Ha ragione» esclamò di nuovo l'uomo in ginocchio. «Abbiamo il diritto di sapere cosa sta succedendo!»
«Vi consiglio di ritornare fra la folla, popolano.»
«No!» una donna si era arrampicata sullo stesso gradino in cui stava Pecklo. «È stata la Regina Thempsa ad insegnarci a combattere per i nostri diritti: non lasceremo che le sue parole vengano dimenticate!»
La guardia sollevò la spada e Pecklo, sospirando, si ricordò il motivo per il quale si era ritirato come sacerdote nel palazzo reale. Alzò una mano e ondate di energia verdastra si diffusero nella piazza, allontanando gli abitanti troppo vicini all'entrata. L'uomo malconcio cadde indietro addosso ad una lavandaia.
«Per favore, brava gente» esclamò con voce ferma, facendosi avanti fra il manipolo di guardie. «I vostri desideri sono nel giusto, ma non abbiamo la possibilità di rispondere alle vostre domande.»
«Se non ora,» gridò la stessa donna di prima. «allora quando?»
«Presto» promise Pecklo. «Ma ora non servirà a niente radunarsi contro-»
La mano posata rapidamente sulla sua spalla lo interruppe e persino la folla rimase in attesa, mentre il corriere appena uscito dal palazzo gli sussurrava qualcosa all'orecchio.
Pecklo sospirò nuovamente.
«Bene» rispose, a bassa voce. «Fate aprire i cancelli laterali. Chiunque ci sia, in quella carrozza... Non possiamo permetterci che la folla scateni una rivolta.»
Il corriere annuì e tornò sui propri passi.
«Brava gente,» riprese Pecklo. «le risposte arriveranno, ma non oggi. Oggi è un giorno di commemorazione: i funerali del nostro amato re saranno celebrati nel pomeriggio e sono sicuro che nessuno di voi abbia il desiderio di macchiare il suo ricordo con uno di spargimento di sangue all'alba della sua morte.»
Solo la donna di prima fece per ribattere ma qualcuno la zittì in tempo e, con un mormorio soffuso e l'aiuto delle guardie, la piazza tornò deserta – come avrebbe dovuto essere.
La carrozza si palesò solo una manciata di minuti dopo.
Pecklo, con un gesto, indicò i cancelli aperti del giardino interno poi, lasciandosi alle spalle una preghiera alla Stella, seguì le guardie oltre i portoni.

«Che la Luce dell'Ovest illumini i nostri cammini.»
Pecklo camminò rapidamente fra i corridoi illuminati ancora dalle fiamme delle torce appese ai muri.
Quando arrivò di fronte alle porte per i giardini interni, si passò una mano sulla fronte – il simbolo degli Eletti era nascosto dai capelli neri che andavano ingrigendosi sulle tempie – prese un profondo respiro e si forzò ad attraversarle.
Le ultime stelle, oltre i maestosi alberi del cortile, sparivano all'orizzonte ma nemmeno questo riuscì a non far infrangere le speranze dell'uomo, alla vista di coloro che stavano di fronte a lui.
«Maestro» sussurrò, abbassando il capo in un saluto formale.
L'anziano, alzando solo allora lo sguardo su di lui, chiuse gli occhi per restituirgli al saluto.
Le guardie della scorta avevano già iniziato a sbrigliare gli svædiphan che scomparivano man mano, tornando immediatamente nei recinti per loro adibiti.
Pecklo tenne aperte le porte dietro di lui, invitando il Maestro ad entrare.
«Spero che non siate troppo stanco per il viaggio, Maestro» esclamò, mentre questo lo oltrepassava. «Le vostre stanze sono già pronte, nel caso abbiate bisogno di riposare.»
«Ragazzo mio,» esalò il Maestro e Pecklo non poté nascondere un sorriso di malinconia al ricordo dei tempi in cui egli aveva insegnato al ragazzino che era stato. «temo che non ci sia tempo per riposo. Non in un giorno come questo.»
Un soldato semplice si parò davanti a loro prima che altro potesse essere aggiunto.
«Maestro» esclamò con un inchino, prima di voltarsi verso Pecklo e ripetere il gesto. «Primo Sacerdote. La regina ed il Consigliere Adrian hanno richiesto udienza con la massima priorità.»
«Pensavo che fossimo attesi nella Sala del Consiglio per discutere con i nobili riuniti» ribatté il sacerdote.
La guardia non si mosse. «Con la massima priorità, Primo.»
«Suppongo che i nobili dovranno aspettare» sospirò Pecklo ed il soldato si girò per fargli strada fino alle stanze della regina. Il Maestro, restando in silenzio, si limitò a seguirli attraverso il palazzo, fermandosi occasionalmente per un breve respiro. Pecklo fu tentato di chiedere se avesse di aiuto ma, prima ancora di poter aprire la bocca, si rese conto di essere giunto a destinazione.
La regina, seduta accanto alle enormi finestre della stanza matrimoniale – la più grande e lussuosa del palazzo – non li degnò che di uno sguardo stanco da sopra la spalla.
I capelli chiarissimi che le ricadevano sulle spalle ricurve la facevano apparire ancora più vecchia di quanto non fosse e quando parlò la voce uscì con fatica dalla labbra secche.
«Maestro» sussurrò e quasi immediatamente un violento attacco di tosse le fece portare una mano al petto.
«Vostra maestà» salutò in rimando il Maestro che, di fronte alla vecchia regina, sembrava di gran lunga più giovane.
«Vostra maestà» ripeté una voce preoccupata da oltre la scrivania contro la parete frontale. «Non dovreste sforzarvi così tanto: potevo pensare io a questa faccenda.»
La regina si lasciò scappare un piccolo sorriso. «Ti ringrazio, Adrian, ma non posso rimandare i miei doveri nei confronti del regno.»
La Consigliera – Pecklo notò solo in quel momento che indossava l'armatura ufficiale della guardia cittadina – tornò a sedersi dietro la scrivania, senza però smettere di lanciare occhiate preoccupate alla regina.
«Mi dispiace di avervi deviato dall'incontro con i nobili riuniti» esclamò dopo una manciata di secondi, la solita voce autoritaria che era aveva consigliato il re per più di quindici anni. «Ma la regina ed io abbiamo bisogno di risposte precise prima di quell'incontro. Quindi--»
«Per favore, Gladys» la voce della regina era un sussurro in confronto a quella di Adrian. «Ditemi che il vostro messaggero era in errore.»
Dopo un lungo silenzio, il Maestro parlò.
«No, vostra maestà. Vorrei tanto potervi mentire, in queste circostanze.»
La regina lasciò che la testa le cadesse contro il petto ed Adrian chiuse gli occhi, recitando con le labbra un pezzo del Poema [3].
La lucente spada lasciò cadere/ terra nei capelli, volto coperto dal fango/ solo gli occhi del cielo potevan vedere/ e la battaglia finì in quell'ultimo giorno.
«Raccontate ogni cosa dal suo inizio, Maestro.»
Pecklo chiuse gli occhi a sua volta.
«Tre giorni fa sono partito insieme all'Erede ed a una piccola scorta di soldati dalla Cattedrale di Alenea. Le due carrozze si sono distanziate come previsto.
A poco più di mezza giornata di viaggio, ancora nei boschi presso la città, degli uomini incappucciati hanno assaltato la carrozza su cui viaggiavo: erano Eletti ma non li avevo mai incontrati prima né avevano il marchio dorato sulla fronte.»
Rosso di sangue il dorato mantello/ rubato dai gemiti della morte arrivata/ farfalla libera dal dolce fardello/ una rosa di fuoco, leggenda era nata.
«Hanno lanciato un tempesta di fuoco ma sono riuscito a completare un incantesimo che ci ha permesso di uscire indenni dalle fiamme. L'Erede era con loro, così come l'elfo dai capelli rossi e l'arma incantata» il Maestro chinò il capo e la sua voce si spense. «Non ha fatto nulla per evitare la tempesta.»
Il mondo fu tomba di tanto splendore/ le nubi piangevan i suoi passi leggeri/ la terra tremò il suo infinito dolore/ lacrime del Bambino, negli occhi suoi veri.
«La notizia dell'incendio ci è arrivata al tramonto del terzo giorno. È partito dalla Cattedrale e si è diramato fino agli appartamenti degli Eletti: solo una decina sono sopravvissuti.»
Poi, fra le luci dell'alba/ scia di farfalle attraverso le colline/ il segno e la salma/ persino sopra le correnti marine.
«L'elfo è stato visto scappare poco dopo.»
La regina scosse lentamente la testa ed un altro attacco di tosse la fece piegare.
«Gli altri..?» persino la voce di Adrian apparì incerta.
«Nessuno dei principi è uscito dalla Cattedrale.»
Il sacerdote portò le mani al collo ed alzò lo sguardo verso il soffitto alto.
Il suono delle campane della chiesa, esattamente di fronte al palazzo, fece tremare i vetri mentre lo scalpiccio oltre la porta indicava che, finalmente, la servitù si era svegliata ma niente, in quell'istante – nemmeno il rumore della boccetta di inchiostro che si infranse contro il pavimento quando Adrian fece cadere ogni oggetto dalla scrivania – poté sovrastare la cantilena terribile delle lacrime di una madre.
Pregando al tempo/ d'illuminar la sera/ sola Stella, nel vento/ dell'ora nostra più nera.


~


Glossario:

[1] “Il vllyne sorrise da sotto i baffi e fece per addentare il primo pesce caduto dal carretto del cacciatore quando un orso gli si parò davanti.
«Dove hai trovato tutti questi pesci?» gli chiese con voce grave, indicando con gli artigli il lago ghiacciato.
«Li ho pescati» esclamò senza esitazione il vllyne. «Fai un buco nel ghiaccio ed immergici la coda: vedrai quanti pesci abboccheranno!» e l'orso, non molto noto per la propria intelligenza, se ne andò per fare come gli era stato detto.
Così il vllyne poté mangiare tranquillamente il pesce che aveva rubato; poi, quando fu sazio, tornò a trotterellare verso la foresta ma incappò in una delle tagliole lasciate dal cacciatore e morì.”
Tratto da “Venti favole senza morale (più una)”, raccolte da Tsegh M. Mirborr.

[2] “Non è per vantarmi ma ho incontrato, in tutta la mia vita, ben tre hooke e nessuno di loro mi ha ucciso.
Le leggende li descrivono sempre come demoni mostruosi, con corna ed artigli, pronti ad ingannare chiunque creda alle loro parole per sbranare la loro anima prima che questa possa ritornare nell'abbraccio della Luce dell'Ovest.
Non credete a tali menzogne.
Gli hooke non sono altro che dolci fanciulle, il più delle volte indifese, maltrattate per essere più belle di molte altre.
[...] Una di loro mi ha spiegato un giorno che, molto tempo fa, erano adorate da noi mortali perché possiedono il dono di avverare qualsiasi nostro desiderio [...].
Proprio non capisco tutta questa malignità nei confronti di cotal bellezza soave!”
Tratto da “La ballata del cadavere vanitoso” di Flov Cetar H. P.

[3] “Si racconta che, esattamente cent'anni dopo la morte della Regina, nei giorni cupi delle guerre contro la Confederazione di Elsàvon, un giovanotto pensieroso camminasse lungo il litorale a sud di Alenea.
Colto improvvisamente da una divina visione, il giovane corse a casa ed iniziò a scrivere.
Dopo tre anni, rimirando il lavoro più impegnativo di tutta la sua carriera di scrittore e poeta, Lhira Nediigate si disse soddisfatto: il Poema – allora intitolato “Il poema della regina” – era finalmente ultimato.”
Dal capitolo su Lhira Nediigate di “Biografie non autorizzate”, autore ignoto.
  
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