combattere contro il passato cap12 bozza3
Sentii la cintura
fendere velocemente l'aria e incrociai le braccia
davanti al volto tenendole più in alto possibile, nella
speranza
di diminuire l'intensità del contraccolpo; strizzai gli
occhi
fino a farmi male e mi morsi il labbro, aspettando che il metallo mi
entrasse nella carne, cruento e inesorabile, per poi uscire e rientrare
ancora e ancora, più violentemente che mai. Trattenni il
respiro
e udii uno schiocco sonoro, come di qualcosa che si rompeva, e temetti
che mi avesse già colpito e frantumato qualche osso, ma
l'unica
cosa costruttiva che riuscii a fare fu annaspare per un po' d'aria,
preparandomi a fronteggiare l'arrivo del dolore, e strizzare gli occhi
ancora di più, senza permettere alle lacrime di trovare una
via
d'uscita da sotto le mie palpebre serrate.
«Gerard!»
sussurrò Fin, scuotendomi ripetutamente le spalle, «Gerard,
sono io, apri gli occhi per favore».
Sussultai nel sentire la sua voce e mi sentii riempire di speranza nel
capire che non se n'era andato abbandonandomi al mio destino per
pararsi il culo ma che era rimasto acquattato nel buio e che mi aveva
salvato la pelle, nonostante quello che mi aveva attaccato fosse il suo
patrigno. Scattai in avanti e mi avvinghiai alla sua felpa, tremando,
farfugliando parole di ringraziamento e tirando su col naso, ma lui non
si concesse il tempo di ascoltarle e mi tirò su, spingendomi
energicamente verso il corridoio. «Non
possiamo restare qui un secondo di più, dobbiamo trovare
Alicia
e scappare il più lontano possibile prima che
albeggi e
lui ci possa trovare»
mi ricordò frenetico, lanciandomi uno sguardo di scuse e
cominciando a correre a rotta di collo, mosso da un'adrenalina e una
paura che raramente avevo visto in un essere umano. Lo seguii a ruota e
notai che continuava a girarsi per controllare che il suo cosiddetto
papà non ci stesse già alle calcagna, rischiando
di
cadere in avanti; così accelerai e gli presi la mano,
cercando
d'infondergli un po' di fiducia in sé stesso. Lui fece un
sorriso di circostanza, un disegno di terrore e morte su un viso
altrimenti angelico, e imboccò il corridoio di destra,
entrando
senza bussare in camera della sorella, che si svegliò di
soprassalto mentre io irrompevo nel locale e il moro la scuoteva
violentemente. «Lui
è qui Ali, lui è qui ed è
arrabbiato»
farfugliò, gli occhi scuri sgranati e infossati
nel volto
scarno, «l'ho
colpito alla nuca con qualcosa di pesante e penso sia ancora
svenuto, ma fra poco si sveglierà e quando
realizzerà
ciò che ho fatto perderà il controllo e
finirà
l'opera che aveva minacciato d'iniziare. Dobbiamo andarcene, scappare
prima che sia troppo tardi, hai capito?».
Il
sorriso le morì sulle labbra con un rantolo di terrore e si
coprì istintivamente la bocca con le dita, come per
scongiurare
la remota possibilità che le sue corde vocali potessero
emettere
qualsiasi suono sgradito; e l'unica cosa a cui riuscii a pensare fu che
non mi ero mai reso conto di quanto fossero magre e affusolate in
confronto a quelle del fratello. Mi stupii di quanto potessi essere
fuori luogo in un frangente del genere e feci una smorfia,
affrettandomi a riempire lo zaino che mi aveva passato il ragazzo con
delle felpe e degli spray antizanzare che avevo trovato nella libreria
della mora, sopra una pila di cd di heavy metal e un libro di
fotografia. Alicia uscì dal piccolo bagno adiacente alla sua
camera con addosso un paio di jeans pieni di tasche e una giacca a
vento scura, infilandosi gli anfibi man mano che barcollava verso di
noi, e Fin inforcò la porta, lasciando cadere una
bottiglietta
d'acqua nella borsa a tracolla che aveva ripescato da sotto i peluche
della sorella. Mi chiesi da quanto tempo stessero pianificando la fuga
e deglutii, senza sentirmi autorizzato a domandargli
alcunché,
ma mi limitai a corrergli dietro e spegnermi la luce alle spalle, per
non lasciare tracce del nostro passaggio. «Aspetta»
mi fermò Alicia, ripiegando sui suoi passi, «lasciamo
accesa quella a basso consumo del bagno e spezziamo qualcosa nella
serratura di entrambe le stanze, così penserà che
ci
siamo chiusi lì dentro per sfuggirgli e quando
tenterà di
aprirla non ci riuscirà, così sarà
costretto ad
andare a cercare qualcosa per forzare la porta. Se abbocca all'amo,
perderà come minimo una decina di minuti prima di mangiare
la
foglia» ragionò, sistemando velocemente tutto.
«Forza,
venite» ci esortò con frequenti cenni
del capo il
moro, che nel frattempo aveva aperto una porta sul giardino e aveva in
mano il telecomando che permetteva l'apertura del gigantesco cancello
d'argento, di cui io mi ero completamente dimenticato ma che era un
ostacolo a dir poco insormontabile per chiunque fosse poco allenato
come me. Disattivò il sistema d'allarme e chiuse la porta,
lasciando che fossimo noi i primi a correre verso l'esterno, e con suo
grande sgomento percepì dei rumori all'interno della
villetta.
Colto dal terrore più profondo che avesse mai provato in
vita
sua, scattò in avanti e ci raggiunse in una manciata di
secondi,
dicendoci di accelerare il passo e dirigerci verso i boschi il
più silenziosamente possibile, e di non parlarci a meno che
non
fosse strettamente necessario. Annuimmo e continuammo per la nostra
strada, ricominciando a respirare solo una volta dopo aver oltrepassato
il confine della proprietà, quindi percorremmo altri
cinquecento
metri e ci fermammo dietro un cespuglio, per riprenderci e darci
qualche disposizione. A dispetto di tutte le mie iniziative, non fu Fin
a parlare: la sorella ci circondò le spalle con le braccia e
ci
avvicinò, guardandoci negli occhi mentre riprendeva il
controllo
dei suoi muscoli, e prima che uno di noi potesse anche solo pensare di
aprir bocca, ce le tappò con una mano e ce le tenne
bloccate. La
morbidezza della sua pelle bianca era in contrasto con il suo sguardo
affilato e pungente, ma non ebbi tempo di pensarci perché
lei
annuì tra sé e sé,
s'inumidì le labbra con
la lingua e cominciò ad esporci il suo piano, senza
tralasciare
alcun dettaglio.
Steve si strizzò gli occhi fra le dita, seccato, e
continuò a misurare il perimetro della cella a grandi
falcate,
interrompendosi ogni tanto per emettere uno sbuffo nervoso e
massaggiarsi la nuca, riflettendo sul da farsi. Era bloccato in
centrale e aveva appena dovuto fronteggiare una specie d'interrogatorio
preliminare, consistente solo nei fatti essenziali per la compilazione
della sua scheda di detenuto e per incastrarlo lì per un
altro
paio d'ore, finché i suoi non fossero arrivati per discutere
con
le guardie e tirarlo fuori. Suo padre avrebbe salutato l'agente con un
pacifico e neutrale buongiorno e sua madre avrebbe sfoderato il suo
sorriso più smagliante, tendendogli la mano in segno di
fiducia
e riservando al figlio la sua peggiore occhiata alla 'dopo te la vedrai
con me, signorino', tornando poi a concentrarsi col poliziotto per
trasmettergli tutta la positività possibile. Si sarebbe
schiarita la gola quasi impercettibilmente e si sarebbe aggiustata la
borsa firmata sulla spalla, tenendola ferma con un gesto delicato della
mano che agli occhi meno allenati sarebbe potuto sembrare casuale, e
avrebbe spostato il peso dal piede destro a quello sinistro, senza
però dar alcun segno d'impazienza o frenesia. Suo padre si
sarebbe levato gli occhiali, avrebbe tirato fuori un pezzo di stoffa
dalla tasca e gli avrebbe dato una pulita superficiale, senza staccare
lo sguardo da loro, per far pensare al poliziotto che andava tutto bene
e che non c'era motivo di credere che suo figlio, il ragazzo
intelligente ed educato che aveva cresciuto con tanta
premurosità, potesse realmente essere un criminale, o
tuttalpiù un complice. Ma allora dov'erano adesso?
Riprese a percorrere la stanza in lungo e in largo, contando le
piastrelle del pavimento e il numero delle sbarre, si sedette sul letto
scomodo che veniva messo a disposizione di chiunque fosse sospettato di
qualcosa e si prese la testa fra le mani, massaggiandosi le tempie con
gesti lenti e regolari. Aveva telefonato alla sua ragazza quando gli
avevano concesso la sua chiamata libera, ma ci aveva pensato la polizia
ad avvertire i suoi genitori e a dir loro di venire a trovarlo in
centrale, chissà che magari a loro non si aprisse,
confessando
di aver mandato in coma il suo migliore amico. Non trovava motivazioni
valide per cui avrebbe dovuto farlo, ma era perfettamente conscio del
fatto che nel mondo degli adulti bastasse una semplice gelosia per far
credere a un'intera giuria che in realtà loro non erano gli
amiconi che volevano far credere, ma due persone che si detestavano
vivamente e che altrettanto vivamente cercavano di ferirsi l'un
l'altra, senza risparmiarsi alcun colpo basso. Sputò a terra
e
si sentì intrappolato da quelle mura, così fini
eppure
così insormontabili, e cercò di calmarsi
ripetendo tra
sé e sé gli elementi della tavola periodica, che
gli
insegnanti lo avevano costretto ad imparare a memoria quando avevano
cominciato a studiare chimica e a fare esperimenti, qualche anno prima
del suo diploma e del conseguente abbandono delle materie scientifiche
di quel tipo. Non aveva nulla contro la scienza, anzi era convinto che
fosse una delle poche benedizioni dell'era in cui viveva, quando veniva
utilizzata per degli scopi utili, di cui potevano beneficiare centinaia
di altre persone; ma la chimica semplicemente non faceva per lui.
Meglio i computer, meglio la matematica, meglio la certezza che a tutto
c'è sempre una risposta e la piacevole distanza che studiare
questi argomenti porta a chiunque provi ad immergervisi per
più
di qualche secondo, spinto da qualcosa di più di un
desiderio di
ottenere un bel voto da parte di quel prof che si aspetta sempre troppo
dai suoi alunni e che inevitabilmente finisce con mettere dei votacci
a tutti perché non riescono a soddisfare le sue aspettative.
No,
a lui piaceva la scienza, ma gli piaceva praticarla in completa
autonomia, senza esser costretto a spiegare il perché di
ogni sua decisione a qualcuno che tanto avrebbe fatto
qualunque cosa tranne cercare di venirgli incontro e seguire i suoi
ragionamenti passo dopo passo; e per questo motivo era capitato che
fosse sbattuto fuori da club o associazioni specializzate
più
che spesso.
«Ma questo
è completamente irrilevante»
mormorò il ragazzo fra sé e sé, alla
ricerca delle
accuse che avrebbero potuto rivolgergli per incolparlo
dell'incidente, «la mia
socialità riguarda me e solo me e non possono cavarne fuori niente,
per quanto possano provarci. Solo perché non amo stare in
mezzo
alle persone quando lavoro non significa che sia affetto da un qualche
disturbo della personalità che mi porta ad uccidere - o in
questo caso tentare - le poche anime che mi stanno accanto da quando
sono piccolo. Non sta né in cielo né in terra,
chiunque
abbia studiato un minimo lo capirebbe». Si sentì
un po'
più al sicuro.
«E
anche se fosse, non ho mai dato segni di soffrire di una patologia del
genere - non più degli altri ragazzi della mia
età,
almeno - quindi non avrebbero neanche le basi complete su cui
accusarmi» commentò.
«No,
non possono trattenermi per questo. Possono provarci ma è
una
storia che non regge minimamente, non gli farebbe guadagnare neanche un
pugno di minuti se venisse portata davanti a un tribunale. Ma che dico,
anche un qualunque passante si renderebbe conto del fatto che stanno
accusando un ragazzo comunissimo di soffrire di una qualche malattia
mentale solo perché gli torna comodo al momento visto che
non
hanno altri sospetti; non ho nulla da temere». Sorrise. Forse
le
cose avevano finalmente cominciato ad andare per il verso giusto per
lui e i suoi amici.
Il ripetersi del suo nome da parte di una voce roca e man mano meno
distante lo riportò alla realtà, giusto in tempo
per
girarsi e incrociare lo sguardo dell'uomo che l'aveva sbattuto
lì dentro un paio d'ore prima, dopo che era stato accolto
all'ospedale da un paio d'infermiere terrorizzate e una manciata di
dottori dagli sguardi tanto sospettosi quanto il numero di spike
dell'amico. A nulla erano valse le sue proteste e le sue spiegazioni,
la polizia era stata chiamata e con lei quel detective, che per puro
caso invece di trovarsi nel suo appartamento nella città
vicina
si trovava in macchina a gironzolare nei pressi della statale
ed
era quindi
riuscito
ad arrivare in tempo quasi reale per gli standard del loro piccolo
paesino. Steve era rimasto stupito dall'arrivo di uno straniero ma non
l'aveva dato a vedere minimamente; si era limitato a scrollare le
spalle, storcere la bocca e osservarlo il più attentamente
possibile mentre quello si faceva riassumere la situazione dai medici,
che ogni tanto gli lanciavano delle occhiate diffidenti e preoccupate
da dietro la schiena del poliziotto. Lui aveva annuito varie volte,
sempre mantenendo il silenzio, aveva tirato fuori un involucro dalla
tasca da cui aveva tratto delle sigarette e l'aveva rimesso a posto,
tenendo lo sguardo fisso verso i volti degli interlocutori; poi, mentre
il più capelluto dei tre elencava energicamente i
particolari
della faccenda che lo inquietavano maggiormente e l'avevano convinto a
fare quella telefonata, si era portato una stecca alla bocca e aveva
smesso di distrarsi. Aveva ascoltato in religioso silenzio fino alla
fine, immobile, aveva ringraziato i dottori e li aveva guardati
allontanarsi, sotto suo consiglio, dalla saletta dove si trovava ancora
il sospettato, che lo osservava interessato senza scomporsi. Si era
acceso la sigaretta mentre si girava, lentamente, aveva messo
l'accendino in tasca, aveva inspirato e poi espirato, ma non aveva
ancora aperto gli occhi e guardato l'avversario in faccia. Steve aveva
pensato che fosse uno nuovo, qualcuno d'importante che si credeva
chissà chi, e aveva trovato irritante quella sua maniera di
comportarsi così arrogantemente lenta e tranquilla, quasi si
trattasse di una faccenda che non valeva nemmeno la pena ascoltare; e
per un paio d'istanti aveva pensato di dargli del filo da torcere
giusto per il gusto di vederlo sguazzare nella sua stessa impotenza,
poi aveva scosso il capo e l'idea era semplicemente scomparsa. Voleva
essere rilasciato, non attirare l'attenzione dell'intero corpo di
polizia su di sé, quindi avrebbe dovuto rigar dritto e
rispondere alle domande del detective, fingendo non solo di fidarsi di
lui, ma anche di stimarlo e, chessò, credere che avrebbe
potuto
davvero risolvere questo mistero rimasto abbandonato per oltre sei
anni, come se il primo venuto avesse davvero potuto cambiare qualche
carta in tavola.
«Ciao»
gli aveva detto, e Steve si era sentito decisamente sminuito.
«Ciao»
aveva risposto, facendo bene attenzione a ricambiare il tono dell'altro.
«I
dottori qui mi dicono che il tuo amico è in coma»
aveva
cominciato indicando il reparto con un dito, e Steve aveva annuito,
senza aggiungere nient'altro. «Non
voglio cominciare col piede sbagliato, ma mi spieghi com'è
possibile?»
Steve lo fulminò mentalmente. «Non sono
un dottore, ma una bella botta dovrebbe bastare».
«Una
botta esageratamente forte, ad essere precisi. Non vorrei essere nei
suoi panni» aveva proseguito, prendendo la sigaretta tra le
dita
e storcendo un attimo le labbra in una smorfia che avrebbe dovuto
divertire il castano. Non lo fece.
«Sei
shoccato?» aveva domandato; 'che domanda
cretina' aveva pensato l'altro, che invece aveva solo annuito
lentamente.
«È
il mio migliore amico, non vedo come potrei non esserlo»
aveva
mormorato, respirando a fondo senza scomporsi. «Ma se
lei è qui significa che qualcuno mi crede responsabile di
qualcosa, o sbaglio?»
«Non
sbagli» aveva sorriso il poliziotto, inspirando, «quindi
dovrò farti qualche domanda».
«Faccia
pure, non ho niente da nascondere» aveva ribattuto,
guardandolo negli occhi.
«Allora
non ti dispiacerà salire in macchina e seguirmi in
centrale» aveva espirato l'altro con uno scintillio negli
occhi,
aprendo le braccia per indicargli l'uscita e sottolineando il gesto con
un movimento del capo. «Da
questa parte» aveva aggiunto poi, come per rendere le cose un
po'
più ufficiali. Steve non aveva battuto ciglio e aveva
risposto
il più esaurientemente possibile a tutte le domande che gli
erano state poste riguardo le circostanze dell'incidente, del
ritrovamento e del successivo ricovero, e il poliziotto si era mostrato
leggermente preso alla sprovvista da questa sua partecipazione attiva e
accondiscendente, abituato com'era a trattare con gente che negava
anche quando veniva sbattuta in carcere dopo un regolare processo. Lo
aveva ringraziato, gli aveva stretto la mano, gli aveva detto che
avrebbe potuto fare una telefonata a chi voleva e che in successione
avrebbero chiamato i suoi genitori per informarli dell'accaduto e
scagionare la possibilità che loro figlio fosse coinvolto in
una
brutta situazione di qualunque tipo, poi l'aveva pregato di rimanere in
cella ad aspettare che arrivassero e se n'era andato tranquillamente.
'E ora eccolo qua' pensò Steve, per niente contento di dover
vedere la sua faccia malrasata piuttosto che quella dei suoi
genitori.
«Ehilà»
lo salutò l'uomo, stavolta senza che ci fosse una sigaretta
a pendergli dalle labbra.
«Ehilà»
salutò a sua volta il ragazzo, senza smettere di ripetere
gli
elementi della tavola periodica in maniera meccanica.
«Come
ti senti?» domandò il primo, appoggiandosi alle
sbarre con
il fianco destro. Steve si domandò se gliel'avesse chiesto
davvero o se fosse stato uno scherzo della sua mente, che aveva
cominciato a sottovalutarlo da quando gli si era presentato.
«Come
uno il cui migliore amico è appena finito in coma e l'unica
cosa
a cui gli altri pensano sia come addossargli la colpa per quello che
è successo. Come se non lo facessi già abbastanza
da
solo» rispose, amareggiato, e il poliziotto annuì.
«Già,
non dev'essere una bella situazione» convenne, lasciando che
la
conversazione morisse per un paio di minuti prima di riprenderne le
redini; «senti,
qui fuori ci sono i tuoi genitori, te la senti di vederli o vuoi che li
faccia tornare più tardi?»
«Nono,
va bene, non si preoccupi. Prima questo casino finisce, prima
potrò andare a visitare Jimmy e portare le mie condoglianze
alla
sua famiglia; vorrei evitare di trovarmi faccia a faccia con loro dopo
che lui si sarà svegliato con il 'mi dispiace' ancora in
gola,
ci farei la figura del cafone insensibile che abbandona gli amici nel
momento del bisogno» cercò di sdrammatizzare.
L'altro
sorrise.
«D'accordo;
li faccio accomodare allora» annuì, andando ad
aprire la
porta ai due coniugi, che ringraziarono con uno dei loro più
convincenti sorrisi di circostanza e un cenno del mento, prima di
entrare e salutare il figlio.
«Allora,
agente, cos'ha combinato di strano stavolta?»
cinguettò
sua madre, girandosi verso l'uomo in divisa con civetteria.
O almeno, questo è quello che avrebbe detto se fosse stata
lì.
Steve si premette i pugni contro la fronte, le tempie che gli pulsavano
sotto il ritmo accelerato dell'inquietudine, e strizzò gli
occhi
finché non ricominciò a vedere delle macchie di
colore
stagliarsi contro il nero che si faceva strada tra i suoi pensieri,
sentendosi istantaneamente un po' meno solo. Era lì da ore e
non
si era fatto vivo nessuno, né sua madre, né suo
padre,
né Lindsey. Figurarsi, poi, le aveva detto lui di non venire
e
tenersi sulle sue per un po' di tempo per il bene di tutto il gruppo,
ma non aveva calcolato quanto potesse essere opprimente il silenzio per
chi aspetta di essere messo a nudo e smontato pezzo per pezzo da un
agente di polizia. Sentiva i suoi nervi allentarsi e annodarsi sempre
di più man mano che il tempo passava, e a volte gli sembrava
di
perdere completamente la lucidità per un tempo che gli
sembrava
eterno, anche se poi si rivelava essere solo qualche secondo nel mondo
reale; e aveva paura di non poter sostenere un interrogatorio in quelle
condizioni. Sapeva che era esattamente ciò che il detective
voleva si dicesse, quindi ripeteva fra sé e sé la
sua
versione dei fatti e rispondeva a tutte le domande immaginarie che
riusciva a porsi al riguardo, sospirando sollevato ogni volta che
eludeva un pericolo, e si tranquillizzava pensando a tutti gli
interrogatori che aveva visto in tv o nei film fino a quel momento. Non
sembravano troppo duri e la cosa lo riempiva di fiducia, ma d'altra
parte neanche l'attesa sembrava poi così tremenda, mentre
lui in
quel momento avrebbe potuto palpare la tensione e plasmarla come
più gli piaceva senza il minimo bisogno d'immaginazione. Si
asciugò il sudore e sentì una serratura scattare;
alzò il viso in direzione del rumore e si chiese se non
stesse
per rivivere per l'ennesima volta la scena dell'arrivo dei suoi
genitori, ma ciò che vide gli fece passare lo sconforto: non
erano né i suoi genitori né il poliziotto che
l'aveva
interrogato, era la donna delle pulizie che passava di lì
per
lavare i pavimenti anche in quell'area dell'edificio. Notò
che
Steve la stava fissando e si avvicinò.
«E
tu che cosa hai fatto?» chiese indicandolo senza mezzi
termini, appoggiandosi con entrambe le mani al manico della scopa.
«Ho
accompagnato un mio amico all'ospedale dopo un incidente su in
montagna» rispose lui, riabbassando lo sguardo.
«Non
mi sembra poi così grave. Sei sicuro che non ci fosse
dell'altro?»
«Be',
era in coma» commentò storcendo la bocca, come se
fosse
accaduto a qualcun altro e non a lui qualche ora prima.
«Ma
è terribile, mi dispiace» fece la donna,
coprendosi la bocca con le dita, «e
pensano che tu sia colpevole?»
Steve si chiese se potesse fidarsi, poi si disse che sarebbe comunque
venuta a saperlo da qualcuno e annuì per cortesia. Lei parve
sinceramente indignata e gli lanciò un'altra occhiata
compassionevole, prima di storcere le labbra e sospirare. «Io non
posso di certo farti uscire, ma non penso che tu debba stare qui se
l'hai solo aiutato».
«Il
detective dice la stessa cosa, e che questa è solo la
procedura» le confidò, giocherellando con i suoi
capelli.
«Può
anche darsi; ma dammi retta, non è come sembra. Oltre il
muro,
può esserci qualsiasi cosa» lo avvisò,
riprendendo
a pulire. Steve la guardò e si chiese cosa intendesse, ma la
porta si aprì di scatto prima che potesse arrivare a una
conclusione che riuscisse a soddisfarlo, lasciando spazio al
poliziotto, così fu costretto a pensare ad altro e
concentrarsi
su di lui.
«Ehilà»
lo salutò l'uomo, aprendo la cella «devi
venire un attimo con me. Ci sono i tuoi».
Steve annuì e lo seguì docilmente, voltandosi
sull'uscio
per vedere se la donna lo stesse osservando, ma il suo sguardo
incontrò il vuoto. Un'altra allucinazione. Scosse il capo e
chiuse la porta.
Quando ci separammo eravamo usciti dalla loro proprietà da
meno
di quattro minuti scarsi, sebbene a tutti sembrava fosse passata
un'eternità, e non ci fu esitazione da parte di nessuno
quando
venne il momento di tirar fuori le torce, abbracciarci e proseguire io
e il moro verso sud-est, lei verso sud-ovest. Fu un saluto spiccio ma
mi sentii male nel vedere quanto significasse per i due fratelli, che
dopotutto scappavano da quello che sarebbe dovuto essere il loro
salvatore e che avrebbe dovuto garantir loro non solo un'esistenza
migliore, ma anche affetto, appoggio e tutto quello che un padre
dovrebbe rappresentare per i figli. Mi ripromisi di essere
più
presente nelle loro vite, in futuro, poi scacciai quell'immagine dalla
mente e mi concentrai sulla fuga, dalla quale sarebbe dipeso il resto
della mia esistenza.
Dalla villa non si sentivano rumori, ma anche se ce ne fossero stati
non saremmo stati in grado di udirli, impegnati com'eravamo a correre
in mezzo agli arbusti cercando di non inciampare rovinosamente e di non
strapparci i vestiti nelle piante spinose, visto che un frammento di
stoffa avrebbe potuto indirizzarlo verso di noi e rovinare tutto il
nostro piano in un batter d'occhio. Le foglie scricchiolavano sotto i
nostri piedi barcollanti, mentre al buio i sentieri che avevo percorso
due giorni prima mi sembravano diversi e pieni di intemperie, al punto
che non riuscivo a non domandarmi come avessi fatto ad attraversarli la
prima volta; ma nonostante tutto continuavamo a correre, senza avere la
forza d'animo di scambiare qualche parola. Ci fermammo quando
raggiungemmo uno spiazzo ombroso che ci parve lontano abbastanza dalla
villa e ci accasciammo dietro un masso colorato dal muschio, ansimanti
e terrorizzati. Il sangue che mi pompava nelle tempie e lo stomaco
sottosopra, trattenni il respiro per cercare di stabilizzarlo e mi
concentrai su quello di Fin, che mi sembrava molto più
silenzioso e normale, socchiudendo gli occhi. Solo allora mi accorsi di
quanto mi bruciassero sia loro che la faccia e mi portai una mano alla
guancia, bagnata da quello che sperai fosse solo sudore; mi voltai ad
osservare il moro e mi accorsi che anche lui era nella mia stessa
situazione: visibilmente spossato, tremante e spaesato, eppure ancora
vigile e attento ai dettagli, come se non avesse corso per niente. Fu
lui ad accorgersi dei rumori.
Mi si avvicinò, si fece il più piccolo possibile
e rimase
in ascolto, premendomi una mano sulle labbra e facendo lo stesso sulle
sue, e aspettò, deglutendo, che la tempesta si scatenasse e
c'investisse in pieno, senza cercare di alzarsi e riprendere a correre.
Lo sentii fremere e, se possibile, rimpicciolire ancora di
più,
ma tenne gli occhi aperti e serrò la mascella, deciso ad
andare
fino in fondo nel combattere le sue paure. Lo scalpiccio affannato si
fece più vicino e Fin tremò più
violentemente, ma
con altrettanta decisione non staccò la mano dal mio viso e
continuò a stringere i denti, facendo appello a tutto il suo
coraggio e la sua convinzione per non scoppiare in un urlo disperato e
consegnarci nelle mani del suo patrigno, che ormai potevo scorgere
sporgendomi oltre la zona sicura. Non riuscivo a vederlo in faccia e
non avevo voglia di espormi una seconda volta per controllare quanto
profondamente fosse incazzato per ciò che gli avevamo fatto
e
che eravamo riusciti ad architettare nel giro di pochi minuti, ma
sentivo nella pelle che se ci avesse notati sarebbe stata la fine per
ognuno di noi, nel senso più significativo della parola,
quindi
mi rintanavo anche io contro il moro, sperando con tutte le mie forze
che ci superasse senza intoppi. Il suo passo sincopato si fece
vicinissimo e si fermò di colpo, seguito da un ansimare
intenso
e irato, e in quell'istante il mio cuore smise di battere, mentre i
più bei momenti della mia vita mi martellavano la mente,
sovrapponendosi alle delusioni e alle amarezze che ero stato costretto
a mandare giù nel corso dei miei ventitré anni, e
mi
domandai per la prima volta se fossi pronto a morire. Pensai a me,
pensai alla mia famiglia, pensai ai miei amici, pensai al mio ragazzo
scomparso, che mai avrebbe voluto che scomparissi dalla faccia del
pianeta, e realizzai che no, non era ancora giunta la mia ora, che
volevo continuare a vivere e godermi ogni giorno, e mi sentii
più all'erta che mai, come se un'improvvisa scarica di
energia
mi avesse attraversato il corpo. Rimasi immobile finché la
sagoma non riprese a muoversi, recuperato il fiato e scorto
superficialmente il paesaggio, superandoci lentamente, dopo essersi
guardata attorno e aver strizzato gli occhi in seguito a una folata di
vento nella nostra direzione. Ramsey si era avvicinato un paio di
metri, poi una folata proveniente dall'altra parte dello spazio aperto
lo aveva distratto e dirottato verso un altro percorso, più
o
meno verso nord-est, lontano sia da noi che dalla nostra amica. Avevamo
tirato un tacito sospiro di sollievo e avevo stretto la mano del moro,
che aveva sorriso di un misto tra gioia, paura e soddisfazione e si era
lasciato scivolare con la testa in mezzo all'erba, coccolato dalla
vista delle sue amate stelle. Aspettammo cinque minuti prima di
permetterci di uscire dalla nostra zona sicura per lanciare un'occhiata
intorno e controllare di avere campo libero, e quando fummo tranquilli
riprendemmo ad allontanarci un po' più verso ovest,
camminando
all'inizio e correndo alla fine, una volta sicuri di non doverci
più preoccupare del rumore del sottobosco sotto le nostre
scarpe. Corremmo per quelli che a me parvero chilometri e, chi lo sa,
forse lo furono. Sbucammo in un sentiero di uso più comune
su
cui potevamo scorgere impronte di varia grandezza e diffusione, e
procedemmo ai lati, in modo da poterci nascondere nella vegetazione
rigogliosa in caso di bisogno ma di rimanere comunque abbastanza vicini
a una strada non trafficata, ma che alla civiltà forse ci
avrebbe portati; e ci sforzammo di mantenere il silenzio, nonostante le
scariche d'adrenalina che ci inducevano a pensare che il grosso ormai
era fatto e che potevamo anche cominciare a rilassarci ed allentare un
po' la tensione, perché al pericolo maggiore eravamo bell'e
scampati; e gli attacchi di realismo, che invece ci facevano realizzare
il rischio che avevamo corso e che ancora correvamo, e che ci facevamo
quindi dubitare delle nostre possibilità di sopravvivenza.
Nonostante tutto, riuscimmo a sbucare nei pressi di una baita
disabitata che mi sembrò di riconoscere, ma, quand'eravamo
sul
punto d'entrare, il pensiero di un'imboscata mi attraversò
la
mente e mi portò a trascinare il moro lontano
dall'abitazione di
peso, costringendolo a tornare in mezzo all'erba. Fin si sforzava di
sorridermi quando lo guardavo, ma gli si leggeva in faccia che era
esausto e che non ci sarebbe voluto molto prima che le gambe gli
cedessero e gli impedissero di proseguire; così sfruttavamo
gli
ultimi guizzi di energia che avevamo e correvamo lungo la strada,
sforzandoci di arrivare il più lontano possibile senza
lasciare
tracce troppo evidenti. Stavamo per imboccare la curva quando
intravedemmo due fari in una lontananza sempre più vicina,
così ci buttammo di lato e rotolammo nel sottobosco,
terrorizzati quanto lo eravamo stati fino a qualche ora prima.
Già, perché ormai che ore dovevano essere? Fin si
accasciò contro un albero e lasciò ciondolare la
testa in
avanti, distrutto; raccolsi qualche ramo da terra, ne strappai qualcuno
da un albero e glieli disposi sopra con delicatezza, cercando di
mimetizzarlo nel miglior modo possibile, poi mi sistemai accanto a lui
e ripetei lo stesso processo per me, addormentandomi pochi secondi dopo
aver chiuso gli occhi.
«Avete
visto anche voi quello che ho visto io?»
boccheggiò
Columbia dalla sua sedia, gli occhi sbarrati fissi sulla massa scura
rivolta davanti al roscio, che si confondeva con l'oscurità
e
faticava a immaginare come un uomo.
«Ti
prego, dimmi che questo coso ha registrato quello che è
appena
successo» sussurrò invece Lindsey, bianca come un
cencio.
«Non
ne ho la minima idea, ma anche se l'avesse fatto non potremmo
denunciarlo» la premonì Ray, mettendole una mano
sulla
spalla, «a
meno di non voler venir denunciati anche noi per aver invaso la sua
privacy con una telecamera non autorizzata».
«Cioè
noi sappiamo che quell'uomo è un pericolo pubblico e non
possiamo dirlo a nessuno?» ripeté lei.
«Per
quanto possa far schifo, è così»
annuì il
riccio, storcendo le labbra e incrociando le labbra sul petto,
amareggiato.
«Che
mondo di merda, cazzo» esclamò, scattando in piedi
e
andando a tirare un calcio al suo cuscino, sedendosi poi sul letto
improvvisato stringendosi la testa fra le mani. «E se
fossero morti? Se fosse successo qualcosa? Come avremmo
fatto?».
Ray si alzò dalla sua postazione e la raggiunse, mettendole
un braccio attorno alle spalle.
«Shh,
calma, non importa. Quello che conta ora è che
stanno bene
e che hanno un piano per tirarsi fuori da questo casino prima
dell'alba, okay? Il resto non è importante, ci penseremo
dopo.
Andrà tutto bene, non preoccuparti. Troveremo il modo di
denunciare quel bastardo, ma ora Gerard ha bisogno di te come non mai,
e ha bisogno di saperti al massimo delle tue forze per poter portare a
termine la missione senza ulteriori preoccupazioni. Ha bisogno di
sapere che qui va tutto bene, che siamo pronti ad aiutarlo e a parargli
il culo in caso di bisogno, e che anche se a volte i cattivi vincono, i
buoni sono sempre pronti a tornare in campo e dargli un paio di calci
nel sedere. Andrà tutto bene, ma abbiamo bisogno di te
ora» sussurrò, accarezzandole i capelli. Lei
sorrise.
«Hai
ragione come al solito» commentò, asciugandosi gli
occhi
con la manica e rimettendosi alla sua postazione tirando su col naso, «e
vedremo quanti calci in culo questo stronzo potrà
sopportare, prima di arrendersi e tornarsene a casa».
«Secondo me tanti quanti vorresti tu» li interruppe
la riccia, che indicò un punto sullo schermo,
«guarda». Le luci all'interno della casa si erano
accese,
mentre i tre ragazzi erano intenti a parlottare, e la silhouette del
patrigno si era stagliata davanti alla finestra del corridoio
più di una volta, carica di oggetti sempre differenti, e
ogni
tanto si passava una mano fra i capelli, sfiorandosi quella che la
ragazza immaginò dovesse essere la ferita. L'omaccione non
sembrava intenzionato a fermarsi prima di aver portato a compimento la
sua opera e Lindsey si sentì invadere da un senso di
ammirazione
nei confronti del lampo di genio di Alicia, che evidentemente aveva
progettato tutto da tempo, vista la rapidità con cui aveva
preparato le borse.
«Oddio guarda, si stanno separando» si
angosciò Columbia, stringendo forte la manica dell'amica, «mi
sento male per loro».
«Vedrai che ce la faranno, sono persone intelligenti e pronte
a
tutto» la tranquillizzò l'amica, che tuttavia
condivideva
le sue ansie e si domandava come sarebbe andata a finire la faccenda, «e poi
hai visto com'erano decisi, non si fermeranno davanti a
nulla».
«È proprio questo che mi spaventa»
squittì lei,
«sono ragazzi in fuga perseguitati da un possibile assassino,
non
hanno né cibo né acqua e stanno correndo a rotta
di collo
dentro un bosco pieno di pericoli che sembra tutto uguale albero dopo
albero».
«Su una cosa ti sbagli, non è tutto
uguale»
intervenne Ray, che nel frattempo era tornato alla sua postazione e
stava osservando con minuziosa attenzione il paesaggio, confrontandolo
con delle foto, «infatti
penso di aver appena riconosciuto la loro posizione».
Columbia s'illuminò. «Dici
davvero?»
«Non ne sono sicuro al cento per cento, ma direi che vale la
pena
provare» annuì lui, allontanandosi dallo schermo
per
permettere alle ragazze di individuare il punto sulla mappa, «anche
perché se non lo facciamo potrebbero vedersela molto
brutta».
«Aspetta, e quando li troviamo cosa facciamo?»
«Be', li portiamo alla base, mi sembra ovvio»
rispose aggrottando le sopracciglia.
«No, vabbé, questo è sottinteso, ma non
possiamo
tenerli qui per sempre, non abbiamo abbastanza soldi, cibarie e letti.
Possiamo anche organizzarci e prepararne qualcun altro, e magari
qualcuno può anche andare a fare la spesa di tasca sua, ma
non
possiamo tenerli rinchiusi sottoterra fino alla fine dei loro giorni,
qualcuno verrà a cercarli o potrebbe insospettirci non
vedendoci» lo incalzò.
«Columbia ha ragione, il nostro piano ha delle
falle» convenne la bionda, «ma
d'altra parte, che altro possiamo fare?»
«Io potrei portare Alicia a casa mia e spacciarla per una mia
vecchia amica che ho conosciuto durante un viaggio, dubito che a mia
madre possa venire in mente che sia una fuggitiva ricercata da un
possibile assassino» propose la prima,
«però metti che quello si crea una storia e viene
a
sporgere denuncia in città - a quel punto che
facciamo?»
«Okay, okay, ho capito, dobbiamo rivedere seriamente i nostri
progetti» acconsentì Ray, calmandole con un gesto
delle
mani.
«Ma non ora; non ne abbiamo il tempo materiale»
precisò, lanciando un'occhiata allo schermo, dove il roscio
si
era fermato ed accasciato contro una roccia muschiosa, in un paesaggio
ancora più brullo e desolato. Lindsey tacque e si
avvicinò.
«Questo posto lo conosco» mormorò
corrugando la fronte e poi allontanandosi,
«è a nord dello chalet».
«Aspetta, che cos'è quello?» la
bloccò
Columbia, indicando con un dito una sagoma in avvicinamento.
«Non ci credo, come diavolo ha fatto a trovarli?»
boccheggiò Lindsey, colta alla sprovvista.
«Non ne ho idea, ma non posso aspettare un minuto di
più» esclamò la riccia, schizzando in
piedi e
correndo verso la scaletta, estraendo le chiavi dalla tasca.
«Columbia, aspetta; è pericoloso»
esclamò
Ray, facendo per alzarsi, ma la bionda gli serrò una mano
sul
braccio e scosse il capo.
«Lasciala andare, ha ragione» sussurrò,
sentendola armeggiare con la serratura e aprire il portellone.
«Fammi almeno andare con lei» insistette il
ragazzo, sentendosi completamente inutile, «metti
che succeda qualcosa, metti che il motore si rompa, metti che incontri
traffico e si annoi ad aspettare da sola, metti che--».
«Se dovesse succedere qualcosa, la tua presenza lì
non
potrebbe cambiar nulla, mentre invece qui la differenza la
faresti» ribatté.
Il portellone si chiuse violentemente e l'impatto fece sobbalzare il
riccio, che ingoiò un nodo alla gola e rilassò i
muscoli,
sospirando.
«D'accordo» annuì,
«vediamo di renderci utili». Si alzò e
tornò
alla sedia, leggermente più pallido. L'uomo era scomparso
dallo
schermo e i due avevano ripreso a respirare, sebbene
impercettibilmente, e il riccio si sentì come se avesse
appena
mandato l'amica al macello inutilmente. Sperò con tutto
sé stesso che sarebbe tornata presto e senza un graffio, ma
un
brutto presentimento gli avvolgeva lo stomaco e gli ricordava quello di
cui quell'uomo era capace. Si strizzò le palpebre fra le
dita e
Lindsey gli mise una mano sul braccio, scuotendolo delicatamente e
guardandolo negli occhi con apprensione.
«Resto io qui, va a bere qualcosa»
mormorò,
ricevendo un'occhiata grata da parte del ragazzo, che si
alzò e
si accasciò sulle coperte. Non avrebbe avuto pace
finché
Columbia non fosse tornata alla base e ne erano entrambi più
che
consapevoli, ma forse avrebbe potuto mostrarsi di una qualche
utilità mentre lei non c'era, così da riuscire a
velocizzare il suo ritorno. Si tirò in piedi e
andò a
aprire il mobile che conteneva i fascicoli coi dati raccolti negli
ultimi anni, le pagine gialle e quelle bianche, gli annuari scolastici
e la mappa della città , e si chiese se nel controllarli la
prima volta non avessero tralasciato qualcosa d'importante.
Agguantò un paio di fascicoli e li portò alla
scrivania,
dove cominciò ad esaminarli e non si accorse dell'ombra che
aveva oscurato il viso di Lindsey.
Aveva perso completamente il contatto visivo con Gerard.
Note: okay, probabilmente è troppo corto rispetto agli altri
capitoli però va bene, insomma, non scrivevo cose serie da
settembre, quindi è un risultato piuttosto accettabile.
Avevo preparato altre due bozze che avevo sviluppato anche abbastanza a
lungo, però erano banali da far schifo quindi alla fine le
ho abbandonate e bam, ho proprio smesso di scrivere per qualcosa come
quattro mesi. L'altro giorno mi sono svegliata in piena notte per la
febbre e avevo l'idea in testa, quindi sotto consiglio di una mia amica
l'ho sviluppata ed ecco qua. Visto il tempo fra l'ultimo capitolo e
questo il mio stile è cambiato, però bene o male
penso di ricordarmi abbastanza i caratteri dei personaggi. Oddio boh
non so che dire, siate buoni ciao 3
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