Capitolo 7 – The last act.
Sette
agosto.
L’Uchiha spalancò gli occhi, allibito e seriamente
spaventato. Era morto e
nemmeno se n’era accorto?
«Ci hai creduto, stronzetto».
Attonito, Sasuke si guardò attorno e cercò di
capire da dove provenisse
esattamente quella voce; aveva la sensazione di conoscerla e anche
piuttosto
bene, ma era piuttosto arrochita e non riuscì a definire
all’impatto a chi
appartenesse.
Tentò di alzarsi da quello che sembrava essere un letto,
lenzuola bianche e
macchie rosse… Il diciannovenne si guardò le mani
e le scoprì madide di sangue.
Controllò ogni punto del suo corpo che poteva dolergli, ma
non ve ne trovò.
«Non è il tuo sangue quello che hai sulle
mani».
«Madara?!», il moro gridò quel nome
nella speranza che fosse davvero Madara
l’uomo che parlava, anche se la voce lasciava intendere
altro; almeno in parte.
Era dannatamente confuso e stordito, le vene pulsavano e sembravano
voler
scoppiare, s’ingrossavano e gonfiavano come il petto per ogni
respiro del
giovane, gli occhi erano fuori dalle orbite e insanguinati, il bisogno
di
esternare la frustrazione e la rabbia che aveva covato per
così tanto dentro sé
era prepotente ed impellente.
«Vieni da me, Sasuke…»
«Puoi starne certo, bastardo!»
Traballante, il giovane si issò e, guardandosi attorno e
tremando, cercò di
scovare l’altro Uchiha.
Era circondato da rocce. Quel posto sembrava non avere vie
d’uscita.
«Non spaventarti, giovane e… innocente
Sasuke Uchiha».
«Ma che ca…»
«Vieni, vediamo se sarai in grado di farmi
divertire».
E fu allora che lo vide.
Non era solo, ma la compagnia sembrava innocua e tutt’altro
che preoccupante.
Era solo un anziano signore deperito attaccato con uno strano tubo ad
una
roccia molleggiante… Ma le rocce sono dure e non sono
morbide! Non possono
fluttuare!
«È… materiale organico,
diciamo».
Ti uccido.
«Tu provaci».
E Sasuke si trovò un kunai tra le mani, anch’esso
macchiato di sangue.
Cercò di non badarci troppo e corse verso
l’avversario, ricordando tutte quelle
storie raccontategli da Itachi, quegli insegnamenti giusto per
divertimento di
cui aveva fatto un prezioso tesoro.
«Ma poi potresti perdere l’opportunità,
l’unica che hai, di conoscere la verità».
E il diciannovenne si bloccò.
Bastardo.
«Non sei curioso di sapere chi ha ucciso i tuoi genitori, la
ragazzina dai
capelli rosa, Itachi?»,
sghignazzò
con cattiveria, sospirando di piacere nel vedere
l’espressione sconcertata del
ragazzo di fronte a sé, nel quale s’era avviata la
battaglia tra cosa fosse più
importante tra le due cose.
«Oh, quasi dimenticavo il tuo amichetto biondo… Uzumaki Naruto».
«CHE COS’HAI FATTO A NARUTO?!»
«Cosa “ho” fatto?»,
sibilò quasi incredulo l’uomo, «Cosa hai fatto, giovane Uchiha».
«Io non gli farei mai del male!»
«Così come non ne avresti mai fatto ai tuoi cari
genitori, alla nuova amichetta
che ti eri fatto e soprattutto al tuo nii-san»,
pronunciò le ultime due parole marcando tutto il
risentimento che albergava
dentro sé, sorridendo.
«Io non ho mai fatto del male ai miei cari, taci!»
«Nessuno
può essere sicuro che
ciò che chiama realtà non sia solo una illusione.
In fondo, non è forse vero
che le persone vivono immerse nel torpore dei propri preconcetti?»
Itachi.
«Sì, tuo fratello era un vero saggio, non
c’è che dire», ammise, «un
abile
oratore».
«Non osare parlare di Itachi», minacciò
l’Uchiha, «sei un uomo morto!»
«Non puoi ammazzarmi, ragazzino, rassegnati», lo
disilluse Madara, con cipiglio
severo e una serietà disarmante, «io e te siamo
uguali».
«Io non sono un criminale, Madara», rise amaramente
il diciannovenne, scuotendo
il capo incredulo e continuando a fissare le sue mani e il kunai che
impugnava.
E i dubbi sorsero nonostante a parlare fosse quello stesso uomo che era
apparso
poco prima che suo fratello morisse. Quello stesso criminale che fu
cacciato da
Konoha e che gli Hokage non furono in grado di imprigionare o
neutralizzare.
Quante possibilità aveva di poter cambiare le
cose…?
Eppure doveva ucciderlo.
Doveva.
Madara sorrise.
«Vuoti di memoria, Sasuke?»
Il suddetto rabbrividì.
«Vuoi ricordare, ragazzino?»
Voglio ricordare ciò che non so di
aver
vissuto?
«Lo vivrai…», gli
assicurò, «di nuovo».
Fu il più anziano dei due ad alzare le mani e stendere le
braccia davanti a sé,
i palmi aperti e la pelle raggrinzita, color bianco-grigiastro, gli
occhi
sorprendentemente neri con riflessi violacei nelle sclere; li richiuse
dopo
poco e Sasuke sentì le proprie forze scemare: la vista
abbagliarsi ed
offuscarsi, uno stridio improvviso e poi il silenzio totale, un vuoto
sotto di
sé al posto delle rocce e non sentiva più il
kunai tra le mani, così com’era
sparito il senso di fastidio causato dal sangue; era scomparso anche il
suo
odore pungente e la saliva insapore mista al sapore di sangue e vomito
spariva
dalle sue papille gustative.
Era diventato il nulla.
Si sentiva esattamente come quando aveva visto Madara.
Forse non sta mentendo.
Forse ho mentito a me stesso.
Si possono cancellare davvero i ricordi sgraditi?
E
rivide se
stesso da bambino nel buio dinanzi ai suoi occhi, nonostante la
certezza che le
sue palpebre fossero aperte; qual
è la
verità?
E le grida ovattate che pian piano riuscì ad
udire, le lacrime, la rabbia e
il sangue, i suoi genitori stesi sul pavimento, morti, e Itachi dietro
immobile.
Statuario.
E vide Sakura. La sua femminilità risaltata dai movimenti
sinuosi nonostante la
corporatura esile di cui godeva, i tentativi di spiegare tutto in
parole
semplici e in maniera lineare, la perdita di coscienza e di nuovo urla,
lacrime, rabbia e sangue. Un altro corpo senza vita.
E vide Itachi.
Il suo nii-san.
Gli aveva detto che l’amava e lui, orgoglioso
com’era, non aveva mai avuto il
coraggio di dirgli lo stesso più di due volte nel giro di un
anno trascorso in
balìa del loro rapporto amoroso e non più
soltanto fraterno.
Madara era lì e lo guardava.
E le mani di Sasuke si destreggiavano con maestria sul corpo ormai
coperto del
fratello maggiore; non per accarezzarlo, denudarlo e farci di nuovo
l’amore
come se fosse la prima volta. Stava tracciando la linea dei pettorali
sino a
giungere al suo cuore, disegnandoci degli invisibili cerchi concentrici
e riuscendo
addirittura a vedere oltre lo strato di epidermide chiara di Itachi.
Vedeva il
suo cuore battere furiosamente e il sangue circolare, i muscoli
tutt’attorno e
come pian piano i battiti del suo muscolo cardiaco andavano
affievolendosi. E
una lama che penetrava attraverso quella pelle bianca chiazzandola di
rosso,
gli occhi spalancati del ventitreenne, che ormai sarebbe stato un
ventiquattrenne, ancora sangue che fuoriusciva dalla sua bocca.
Il sorriso sadico di se stesso scandalizzò il giovane Uchiha
che fissava
paralizzato la scena, in bilico tra l’essere felice di non
potersi ammazzare
sul serio e il bisogno fisico e mentale di farlo il prima possibile.
«Non ci saranno prossime volte, otouto».
Udì la voce del fratello per la prima volta dopo tanto
tempo, che coincideva
anche con l’ultima.
E poi vide Naruto.
«No, Naruto no», riuscì a pensare
spalancano fauce e occhi, tremando nonostante
non riuscisse a percepire le scosse sul suo corpo. Sentì il
suo cuore
incrinarsi, nonostante avesse constatato
l’impossibilità del sentirsi così e
poi, chinando il capo, aveva scorto l’oscurità che
circondava se stesso e in
lontananza il vecchio signore appoggiato alla roccia e Madara
impassibile.
Una forza invisibile lo costrinse a fissare la scena di se stesso che,
sedendosi a cavalcioni sul biondo, ammazzava anche lui.
E rivisse il suo risveglio in quel luogo roccioso senza uscite.
«Addio, Uchiha Sasuke».
Il vuoto e l’oscurità ancora.
Poi un temporale.
Realtà o finzione?
Un tempo sapevo qual era il mio
vero io, ma ora non ne sono più tanto sicuro. Adesso mi
sembra quasi che non ci sia nessun vero io.
**
Grondante di pioggia, un giovane uomo camminava per le strade deserte
di Konoha
durante una notte invernale. Lasciava che quelle gocce
d’acqua delineassero con
esaustiva tranquillità il suo volto d’alabastro,
gli occhi color nero pece
vuoti e persi, fissi sull’asfalto lucido su cui strusciava
stancamente i piedi.
I capelli corvini bagnati erano attaccati al volto e alla nuca, due
solchi
profondi e oscuri erano posti sotto i suoi occhi; le labbra violacee a
causa di
quel freddo ed impregnate d’acqua erano socchiuse, lasciando
che nuvolette di
fumo candido fuoriuscissero attraverso esse.
I tuoni ovattavano il suono delle scarpe strusciate
sull’asfalto, delle
pietricciole calciate via dalle suole gommose, quasi anche dello
scroscio
impetuoso dell’acqua piovana. Eppure il giovane sembrava
estraniato da quella
realtà così concreta che gli si manifestava in
tutta la sua maestosità e
potenza. La luce di un lampione in lontananza illuminava vagamente ad
intermittenza, fino a spegnersi ed oscurare maggiormente
l’isolata via.
«Naruto, dove sei?»
Un fulmine.
«Itachi, sei tu?»
Un tuono.
«Dove siete finiti, voi tutti?»
L’intensità dell’acquazzone
aumentò di gran lunga, il corpo inzuppato tremava,
la vista del ragazzo si offuscava passo dopo passo, i sussurri
fuoriuscivano
appena, la voce strascicata gli moriva in gola, il vuoto si faceva
spazio
dentro sé.
Sasuke Uchiha aveva la netta sensazione che un uragano gli fosse
piombato
dentro, trascinando via con esso ogni speranza, desiderio, emozione.
Tutto ciò
che era rimasto di quell’uomo era un corpo che fungeva da
guscio della propria
solitudine e al tempo stesso gli impediva di crogiolarsi.
Perché, per quanto
ormai contasse, lui era ancora quel Sasuke Uchiha forte, vendicativo ed
orgoglioso, pieno di sé, con delle ambizioni alquanto
raccapriccianti e una
scarseggiante personalità. Anche se quest’ultima
era venuta fuori, col tempo,
grazie all’unica persona che avesse contato qualcosa per lui;
non quanto
l’amato fratello, ma un individuo che era stato importante.
Un’importanza
vitale dato che, senza di esso, il giovane Uchiha non si sarebbe
ridestato da
quello stato di noncuranza nel quale si era amabilmente abbandonato
tempo
addietro.
«Mi sentite?», aveva proferito, «Io sono
qui, non me ne sono mai andato».
Una mano diafana si protese dinanzi al proprio busto, nel vano
tentativo di
afferrare qualcosa di solido e non di certo l’aria; non aveva
la più pallida
idea di quanto tempo fosse passato da quando aveva iniziato a
camminare, né gli
interessava davvero. La pesantezza dell’atmosfera
circostante, però, iniziava
ad essere asfissiante e quasi insopportabile.
«Questo scherzo è di pessimo gusto»,
disse, «e il gioco è bello quando dura
poco!»
Stava iniziando a perdere la pazienza, Sasuke. Nonostante la sua stima
nei
confronti della solitudine superasse ogni tipo di confine, in quel
momento
l’essere isolato dalle persone che l’avevano fatto
sentire vivo lo distruggeva.
Quella consapevolezza di non avere al suo fianco Naruto e Itachi gli
corrodeva
l’animo e gli organi, gli trascinava via le funzioni vitali,
gli perforava i
polmoni e ostruiva le vene, così che il sangue si coagulasse
e smettesse di
circolare. Il cuore avrebbe smesso di pompare, la scarsità
d’ossigeno si
sarebbe fatta sentire a breve e il peso che opprimeva il petto del moro
si
sarebbe dileguato nel nulla. Sarebbe stato libero.
In lontananza scorse l’appartamento di Naruto Uzumaki. Il
pensiero che la
distanza tra loro era ormai minima lo rincuorò, anche se
poco; le labbra si
curvarono in un sorriso appena accennato, ma le iridi
d’ossidiana rimasero vuote
ed imperscrutabili.
Le gambe slanciate salirono le scale meccanicamente, le braccia
pendevano lungo
i propri fianchi, gli occhi si strabuzzarono quando Sasuke, di
malavoglia, notò
che la porta dell’appartamento di Naruto era leggermente
aperta.
Le pallide dita lunghe e affusolate si posarono con grazia e
delicatezza sul
legno scuro della porta, spingendola e aprendola; il cigolio diede
un’insolita
aria spettrale e cupa a quella casa solitamente colma della
solarità
caratterizzante il compagno.
Poco gli importò di essere intriso d’acqua,
semplicemente si fece strada
all’interno dell’appartamento, constatando che
nessuna luce era accesa; l’unico
spiraglio luminoso che lo irraggiava s’intravedeva attraverso
i vetri delle
finestre e la porta.
«Naruto?», ritentò l’Uchiha,
insicuro come non era mai stato prima. Non udendo
alcuna risposta, si avviò verso la cucina: non lo
trovò; optò così per il
bagno: non era nemmeno lì; nel salone: non c’era.
L’ultima stanza che gli restava da perlustrare era la camera
da letto.
Deglutì a fatica, prima di varcare la soglia e fissare il
letto pregno di…
«Sangue…», sibilò incredulo.
Le ginocchia presero a tremare incessantemente e l’aria
gelida gli assiderò i
muscoli, impedendogli la fluidità nei movimenti;
ciononostante riuscì a
giungere a fianco al corpo privo di qualsivoglia essenza vitale,
ricoperto
rigorosamente di liquido rosso intenso, il cui acre odore inebriava con
prepotenza le narici di Sasuke.
Con estrema lentezza, ignorando la fastidiosa sensazione donatagli dai
pantaloni zuppi che indossava, si sedette sul letto, poggiando le mani
gelide e
diafane su quelle abbronzate di Naruto. L’indice e il medio
si posarono sul
polso molle, cercando un qualunque segno che lo inducesse a pensare
alla
possibilità che l’altro fosse ancora vivo. Non
trovandovene, insisté
toccandogli la vena carotidea e sussultando a causa di un tuono che
parve quasi
voler spaccare in due il cielo notturno.
Nemmeno in quell’occasione un battito casuale gli
rischiarò quella speranza
offuscata, così come inspiegabilmente le gocce che dal volto
gli giunsero sulle
labbra avevano un sapore dannatamente salato e familiare.
I suoi occhi neri si posarono sulla chioma dorata chiazzata di rosso
del
giovane disteso e istintivamente l’Uchiha strinse la presa
della sua mano.
Digrignando i denti e fremendo, il moro avvicinò il suo
volto a quello di
Naruto, socchiudendo le labbra e sfiorando quelle morbide e rosse
dell’altro;
non curandosi affatto del sangue rinsecchito, posò un casto
bacio con
l’intenzione di infondergli un po’ di calore, di
trasportare ossigeno al suo
interno e rianimarlo. Gli fosse costato sanguinare incessantemente pur
di
rimettere in moto l’apparato circolatorio
dell’altro, lui l’avrebbe fatto senza
alcuna esitazione; così come l’avrebbe fatto per
il suo nii-san.
Un’altra perdita di quel calibro non l’avrebbe
accettata mai e poi mai.
Non poteva capacitarsene.
«Preferisco morire, a questo punto…»,
zufolò caustico, spalancando le palpebre
e sperando che gli occhi cerulei del compagno presto si aprissero e
incrociassero i suoi.
«Naruto, svegliati!», gridò, per quanto
la voce glielo consentisse. «Non anche
te… Non posso perdere anche te! Apri i tuoi fottutissimi
occhi!»
Il silenzio fu l’unica disarmante risposta che ricevette.
I ricordi, constatò, erano tutto ciò che gli
restava.
«È un vero peccato, era davvero un bel
ragazzo».
A scatti, Sasuke si alzò dal volto del biondo e
tentò con le poche forze che
gli erano rimaste di voltarsi verso la persona che aveva pronunciato
quelle
parole, gli occhi ridotti a due fessure colme d’odio, le mani
tremavano dalla
rabbia, ormai impossibile da reprimere.
Solo quel verme poteva aver fatto una cosa simile; soltanto quel
bastardo
avrebbe goduto nel guardare il giovane Uchiha avvilirsi per
l’ennesima perdita
da accettare. Aveva perso il conto di quante persone care lui gli
avesse
portato via ed era riuscito a privarlo anche delle ultime due persone
che
contassero qualcosa per lui.
«Cosa farai ora, Uchiha Sasuke?»
«Sparisci, Madara».
{**}
L’ennesima
notte di pioggia.
Forse era una coincidenza, forse semplicemente era tutto
premeditato e posto secondo la volontà di
un’entità superiore; all’incirca
poteva essere una strana concordanza tra le sensazioni
dell’Uchiha e il clima.
Ogni volta pareva che quest’ultimo lo comprendesse a pieno e
manifestasse ogni
sentimento che irradiava il corpo di Sasuke.
Il giovane nemmeno ricordava l’ultima volta che si era goduto
una splendida
giornata di sole, guardandolo sorgere al mattino, donando
così sfumature di
colori caldi. Era da tanto tempo che non fissava il sorgere del sole,
ammirando
estasiato il cielo azzurrino privo di nuvole e doveva ammettere che gli
mancava
più di ogni altra cosa al mondo.
Era una delle abitudini che accomunavano lui ed Itachi: diventando
più grandi,
non sempre avevano l’occasione di svegliarsi molto presto per
lodare il giorno
che stava per cominciare, abbracciati, mano nella mano, un bacio appena
accennato e poi la colazione che li aspettava. Certo, dopo essersi
dichiarati
l’uno all’altro, bearsi di quella visione
paradisiaca era diventata una cosa
piuttosto romantica, che rispecchiava in parte la loro percezione del
proprio
rapporto. Quella calma e quel silenzio che potevano esser compresi da
loro, e
da loro soltanto; quella purezza caratterizzante i sentimenti che
l’uno provava
per l’altro; i colori più vivaci mano a mano che
il sole si ergeva più in alto
in cielo, che palesavano la vita intesa dal punto di vista del minore
dopo che
si era concesso a Itachi, senza indugi, né rimpianti
riguardanti la propria
scelta; e d’altra parte anche la visione di Itachi stesso:
Sasuke colorava le
giornate e la propria vita, con dei sorrisi o una semplice carezza, uno
sguardo
o un bacio.
Le loro vite si erano intrecciate sin da quando il minore era venuto
alla luce,
sotto lo sguardo vigile di Fugaku e quello premuroso di Mikoto; il
maggiore era
rimasto a casa con gli zii, perché un bambino di appena
cinque anni non avrebbe
potuto assistere ad un parto. Ma non appena i genitori tornarono a casa
e poté
tenerlo in braccio, il legame tra loro venne classificato come
inscindibile.
Gli mancava. Gli mancava efferatamente.
Avrebbe dato qualunque cosa pur di avercelo di nuovo accanto. Anche
solo un
istante gli sarebbe bastato, pur di non provare ancora quel dolore che
lo
logorava fino a spazzare via ogni essenza che lo caratterizzasse.
Avrebbe
sacrificato qualunque cosa pur di accarezzare quel giovane viso da
uomo,
fissare i suoi lineamenti a tratti femminei e perdersi negli occhi neri
come i
suoi, ma decisamente più intensi e intrisi di sentimenti
ineffabili, scombinare
i capelli lisci e lunghi, ingarbugliarglieli, sentire la sua voce
chiamarlo
“otouto” o semplicemente per nome; udire un silente
sussurro, essere richiamato
all’ordine e riposto sulla retta via al momento giusto.
Aveva nostalgia anche di ogni discussione per ragioni banali, quelle
più
corpose e importanti; voleva litigare ancora, per poi trovarsi steso
supino
sotto il corpo imponente e virtuoso di Itachi, la sua pelle morbida e
bollente
a contatto con la propria, candore su candore, neve su neve sciolta al
sole
tramite un atto impregnato d’affetto, fare ancora
l’amore per ore ed ore, non
stancarsi mai di sentire la presenza del fratello dentro sé.
«Ridatemi Itachi… Vi prego…»,
sul volto era tinteggiato il riflesso della
disperazione, l’odio puro smarrito nel momento in cui aveva
compreso di non
aver più ragioni per vivere e la solitudine tanto agognata
sparire nel proprio
desiderio di ricongiungersi in tutto e per tutto a Itachi Uchiha, suo
fratello,
suo punto di riferimento, il suo amore, il suo tutto.
Sasuke sbottonò la zip della propria felpa, quel poco che
bastava per scoprire
mento e gola, per poi lasciare che l’acquerugiola lo
bagnasse, curandosi poco
della sensazione di disturbo causatagli. La sua mano finì
nella tasca destra
della tuta, rigorosamente blu, uguale a quella che indossava il suo
primo
giorno di Accademia; solo adattata all’attuale statura e
lunghezza delle gambe.
Lo sguardo era perso nel nulla, mentre con lentezza esacerbante tirava
fuori
dal pantalone un coltello in metallo: un kunai, per la precisione, uno
di
quegli aggeggi delle leggende metropolitane riguardanti il mito dei
ninja. Un’altra
delle tante scelte fatte adeguatamente a ciò che ricordava
di Itachi: tante volte,
quando era bambino, il maggiore gli aveva raccontato di questi esperti
delle
tattiche militari, i ninjutsu; erano vestiti con abiti neri di notte e
marroni
di giorno, combattenti di alto rango ferrati nelle arti marziali,
spionaggio,
omicidio mirato, sabotaggio e tortura. Non era stato di certo a
quell’età che
Itachi gli aveva spiegato tutto nel dettaglio, bensì si
limitava a parlare di
questi coraggiosi personaggi che si occupavano del mantenimento
dell’ordine
pubblico per conto della polizia giapponese, e della protezione dei
daimyo, i
signori feudali locali.
I kunai erano utilizzati come dardi da lancio o per scavare fosse nei
momenti
di necessità, ed erano parte fondamentale
dell’attrezzatura ninja. Itachi era
particolarmente affascinato da tale arma, tanto da averne una
collezione
propria stipata su uno scaffale nella propria camera, assieme alla
naginata,
alla kusarigama, agli shuriken e alla kusanagi.
Impugnato il kunai, Sasuke lo portò all’altezza
della clavicola, poi più in
alto, all’altezza del collo. Strinse la presa attorno
all’impugnatura in
metallo, scivolosa a causa del piovasco, mentre lo sguardo giaceva
morente
nell’immensità del mare che si estendeva di fronte
a sé.
«Otouto».
Un lampo.
«Otouto», ritentò Itachi, «se
continui a stare sotto la pioggia, ti verrà un
accidente».
Un tuono.
«Sasuke», Itachi si avvicinò con
accortezza al fratello minore, posandogli con
delicatezza una mano tra i capelli corvini, «non voglio che
ti ammali. Torniamo
a casa».
«Io non ho più una casa, Itachi», gli
rammentò amaro Sasuke, «la mia dimora è
dove sei tu».
Itachi tacque, continuando ad accarezzarlo.
«Me lo avevi promesso!», era il dolore a parlare,
il lato infantile sopito in
lui che non aveva mai accennato ad abbandonarlo; si era limitato a
tacere. «Avevi
detto che non mi avresti mai lasciato…»
«Lo so, Sasuke», il tono dispiaciuto sciolse il
cuore del minore, «non ti
lascerò più».
«Sei già andato via», affermò
solerte, «mi hai abbandonato un anno fa».
«Ne sono consapevole, otouto; ma ho dovuto»,
tentò di spiegare.
«Perché?»
«Non posso chiarirti questo dubbio, mi dispiace. Dovevo
farlo, era
semplicemente arrivato il mio momento».
«Ma io avevo bisogno di te! Avevi ancora una vita intera
davanti, avevi ancora…
me… E quello che ho fatto, io…», il
più piccolo digrignò i denti e soffocò
a
stento un pianto isterico, anche se le lacrime scendevano lo stesso in
abbondanza sulle gote pallide e fredde.
«Non ti lascerò più, otouto»,
promise solennemente Itachi.
«Mai più?», mormorò il
diciannovenne.
«Mai più».
«È una promessa?»
«È una promessa», rinfrancò
il ventiquattrenne, «ma adesso andiamo via».
Sasuke annuì, in silenzio.
«Chiudi gli occhi, otouto».
Il minore ubbidì.
Il tepore che contraddistingueva Itachi da tutti gli altri: lo sentiva;
erano
proprio le sue mani, quelle che si erano poggiate sui suoi occhi e
sulla sua
mano destra. La pioggia era sparita di colpo, il buio si era dissipato,
il
minore degli Uchiha poteva percepire la luminosità candida
della luce rischiarare
il proprio corpo; e piume nere gli carezzavano il volto, mentre il
fratello
impugnava al posto suo il kunai. Il pugno del più giovane si
aprì, l’altra mano
si erse all’altezza del proprio sterno, la voglia matta di
toccare il suo
nii-san che s’impossessava di lui.
E le lacrime. Diverse da qualunque altre avesse versato da quattro anni
addietro sino a quel giorno. Lacrime di gioia, l’avvedutezza
di raggiungere
quella quiete tanto auspicata, la speranza di riavere Itachi tra le
proprie
braccia e potersi accoccolare tra le braccia
di Itachi; stava imprimendo dentro sé
ogni sensazione con somma cautela,
pur di non dimenticare il sentore di compiacenza di quegli attimi
eterei.
«Ti amo, otouto».
«Ti amo, nii-san».
The end
__________________________________________________________________________________________________________
Glossario:
Naginata: alabarda.
Kusarigama: falcetto con catena.
Kusanagi: la spada di Sasuke, dalla lama perfettamente dritta, una
chokuto per
la precisione; proprio per la lama si differenzia da una normale katana.
NB:
Oh, beh, non so mai cosa dire quando giungo alla fine di una
storia.
Posso iniziare dicendoti che la parte in cui Sasuke trova Naruto morto
doveva
essere il prologo, e quest’ultima di Sasuke sulla spiaggia
con Itachi
l’epilogo… Ma poi messa così era
più leggibile e comprensibile, anche
perché è
una cosa piuttosto contorta
questa che ho scritto, quindi…
Vi lascio i link delle immagini:
1) http://i50.tinypic.com/2iiy3wz.jpg
: è
questa che mi ha ispirata all’abbigliamento di Sasuke quando
va a casa di
Naruto ^^
2) http://i48.tinypic.com/23k3gas.jpg
: gli
abbracci coccolosi di Naruto quando l’Uchiha è
perso nel vuoto della
disperazione
3) http://i46.tinypic.com/116rsjl.jpg
:
l’immagine dalla quale mi sono ispirata per il finale
4) http://i46.tinypic.com/2hyiff4.jpg
: the
last, but not the least,
l’immagine che mi ha ispirata per tutta la storia.
Note dell'autrice:
Ehm, salve... Già, questo è il
finale. Non so se ve lo sareste mai aspettato, non so se ci avete
pensato per un solo secondo, non so praticamente niente. È
solo uscito così e non sono mai riuscita a pensare ad un
modo più adeguato di concluderla. Tutto a causa
dell'immagine che vi ho citato sopra per quest'ultimo capitolo. Cavolo,
non so mai cosa dire quando posto l'ultimo capitolo di una fanfiction,
e non sono stata in grado di dire chissà che nemmeno alla
giudiciA stessa xD Sicuramente molte cose che non ho potuto
approfondire in questa versione saranno ampiamente spiegate nella
prossima, e spero davvero che vi interesserà. Saranno 21
capitoli, compresi di questi 7 già scritti, tra cui alcuni
anche rielaborati ed ampliati u_u Insomma, un lavoro piuttosto corposo,
ma vi confesso che mi è piaciuto tanto scrivere questa
storia e soprattutto non ringrazierò mai abbastanza le
persone che mi hanno seguita in questo mese. Mi ha fatto un piacere
immenso e ne approfitto per ringraziarvi singolarmente!
Grazie a chi ha seguito, preferito, ricordato e recensito, ovvero
Aki_12, alicey_y, casapi74, cola23, darkellina, EchoRosenrot_, Gol D
Roger, GoodGoneGirl, Gun, Jooles, JunoEFP, Lady Minorin Lovelace,
Lidja, littlefairy92, maty93, Mente libera, Micchi_Chan,
MocciosaMalfoy, moment 4 life, Noiz, ohtomlinson, PunkDario,
Sakurachan2326, Shikalove, ShoKey89, SuperSakura22, Tomohachiable, u s
h i o, valepassion95.
Grazie davvero.
Prima di lasciarvi in santa pace, vi informo che ci sarà
l'inserimento di alcune colonne sonore per tutti i capitoli, dato che
ho deciso di partecipare anche al contest "Red carpet" indetto da
clalla97.
Ed ora posso anche sparire.
Bacioni, Giacos.
|