jjj
Buonasera!!!
Ho
fatto del mio meglio per aggiornare con rapidità, come
promesso!
Ringrazio
tutte coloro che hanno lasciato un commento al capitolo precedente,
tutte coloro che seguono o comunque leggono questa storia :)
Grazie
davvero, di cuore.
Con
questa 12ima parte ho interrotto un po' l'andamento classico mantenuto
ultimamente, ma spero che si farà apprezzare lo stesso!
Attendo
il vostro parere, come al solito, anche per essere brontolata, nel
caso! ;)
Un
bacio e buona lettura<3
Deve essere già mattina.
Percepisco
fastidiosamente la luce del sole sul volto.
Non aprirò
gli occhi per niente al mondo.
Cos’è
questo rumore?
Ah, Colin. Russa.
Mi sa che si
è rigirato a pancia in su.
Allungo il braccio e,
a tastoni, lo cerco.
Eccolo. Non era poi
tanto lontano.
La spalla,
l’avambraccio, l’interno del gomito…
Lo scuoto appena.
Smette.
Sai che? Mi voglio
rannicchiare vicino a lui, così magari riprendo sonno.
Perfetto. Il suo
profilo mi ripara anche dal sole.
Buono questo profumo.
Già, il
nuovo shampoo che ha aperto ieri sera.
Mi devo ricordare dove
l’ho comprato.
Che succede?
Lo sento che si muove.
Cambia posizione.
Silenzio.
Si sposta, di nuovo.
Un bacio sul collo.
- Sei sveglio?
–
Non rispondo.
Un altro, sotto
l’orecchio.
Il respiro, caldo.
La voce roca,
impastata. - Lo so che sei sveglio… -
Un morso, debole, sul
lobo.
- Non è
vero! -
Apro gli occhi.
Sorrido. Sorride.
Reclama le mie labbra,
subito, e lo assecondo.
Allaccio le braccia
intorno al suo collo e mi stringo a lui.
- Mi sembri abbastanza
sveglio… -
Rido, sulla sua bocca.
Torna a sdraiarsi in
posizione supina, tirandomi su di sé.
Le mani. Lungo la mia
schiena, sotto la maglietta.
Scendo sotto al suo
mento.
Una scia bagnata,
attraverso la giugulare, fremente. Fino alla clavicola.
Un sospiro. Due, tre
gemiti.
Ma voglio le sue
labbra, ancora.
- Jared? –
- Mmm? – gli
morsico l’angolo della mandibola, piano.
- Jared? –
Sto arrivando.
- Jared..? Jared?!
–
Un tocco sulla spalla.
Ma
cos’è?
- Jared! –
Mi tirai su
all’improvviso, il fiato spezzato in gola. Un sacco
di bianco, un sacco di luce. Claudine.
- Jared, ehi?
Tutto a posto? – Claudine mi stava di fianco,
l’espressione corrucciata.
Mi guardai rapidamente
intorno. Le sedie, il tavolino, la poltrona, il letto…
Claudine…
- Cazzo..!
– mi presi il volto tra le mani.
Mi trovavo in
ospedale. Colin aveva avuto l’incidente, aveva perso la
memoria, io ero rimasto lì per la notte.
Cazzo, cazzo, cazzo.
- Ehi, sei
sicuro di stare bene? – Claudine si avvicinò,
poggiandomi una mano sulla schiena sudata.
Ero completamente
sudato, mi resi conto.
- Sì,
sì, sto bene, grazie. Solo...non… non ricordavo
dove fossi, tutto qui – mi sforzai di sorriderle. Mi voltai
subito verso il letto, alla mia sinistra, vuoto –
Dov’è Colin? –
- L’hanno
portato giù nella palestrina cinque minuti fa, per
mostrargli alcuni esercizi che dovrà fare a casa nei
prossimi giorni. –
- E
perché nessuno mi ha svegliato? – mi accigliai
- Non ti sei
accorto di nulla, parevi un ghiro..! – alzò le
spalle lei – Colin stesso ha detto alle infermiere di fare
piano, per non disturbarti. –
Ecco,
bella immagine. Almeno fa che non mi sia esibito in qualche palese
mugolio.
- Comunque ho
pensato che avresti voluto che ti chiamassi… Così
magari facciamo colazione insieme. Mia madre è qui fuori al
telefono con Catherine, la vado a chiamare, ok? –
- Ottima
idea. – annuii, strofinandomi gli occhi con il dorso delle
mani – Mi do una sciacquata e sono pronto. –
Come districai le
gambe dalla fine coperta bianca con cui avevo dormito e le appoggiai
per terra, Claudine spalancò gli occhi, sbigottita, per poi
voltarsi fulminea verso la finestra, le mani a coprirsi la bocca.
Abbassai lo sguardo su me stesso, confuso, in cerca
di qualcosa di sconvolgente che le avesse potuto provocare
quella reazione.
Ed eccolo lì, un enorme, evidente gonfiore al cavallo dei
pantaloni.
Che
figura di merda.
- Forse
è meglio se io e la mamma ti aspettiamo direttamente alle
macchinette, in fondo al corridoio… - mormorò,
ancora rivolta altrove, dopo aver leggermente tossito.
- Forse
è meglio, sì… -
Claudine mi
lanciò una rapida, imbarazzatissima occhiata e si diresse a
passo svelto alla porta. Io scesi dal letto, sconsolato, ed entrai in
bagno.
Se
il buongiorno si vede dal mattino…
Il caffè
era bollente. Mentre ascoltavo Rita e Claudine disquisire sugli ultimi
dettagli prima della dimissione, ne buttai giù un sorso
troppo velocemente e mi sentii bruciare la gola.
Mi chiesero come fosse trascorsa la notte ed io feci loro un breve
riassunto, evitando di scendere nei particolari, evitando di
specificare che mi ero comportato come un adolescente alla prima cotta.
Un bacio. Non potevo ancora credere di aver coscientemente fatto una
cosa del genere. Se si fosse svegliato, il minimo che mi sarei beccato
sarebbe stato un cazzotto.
Ma no, figurarsi se potevo resistere.
Poi ti lamenti se fai
sogni di quel genere. Scellerato.
Le zona distributori automatici era davvero troppo affollata a
quell’ora del mattino, così, finiti i nostri
caffè, tornammo subito verso la stanza. Ad attenderci,
scribacchiando su una cartella, trovammo il dottor Ross.
- Buongiorno!
– ci accolse frizzante – Oggi
è il gran giorno, ve lo rimandiamo a casa! –
- Siamo molto
contenti! – sorrise Rita.
Lanciai
un’occhiata furtiva verso Claudine per capire dal suo
atteggiamento se ci fossero stati dei risvolti con il suo affascinante
chirurgo, ma pareva disinvolta.
- Quando,
precisamente, ce lo restituite? – scherzò.
Il dottore
sbirciò l’orologio alla parete e fece qualche
rapido calcolo mentale.
- Subito dopo
il pranzo, direi. Così riusciamo a fargli le ultime analisi
del sangue, a mostrargli gli esercizi che dovrà replicare
nei prossimi giorni ed anche a mandargli il dottor Kleeman
per la seduta quotidiana. –
- Mi scusi,
ma da domani le interromperà, queste sedute? –
domandai, preoccupandomi del fatto che nessuno accennasse al
persistente e non esattamente trascurabile problema di Colin. Non
potevano mollarlo proprio nel momento in cui qualcosa cominciava a
smuoversi, almeno a livello irrazionale.
- No, certo
che no! Infatti, proprio di questo vorrei parlarvi, di come dovranno
essere affrontati i prossimi giorni. Se avete un istante… -
- Certamente.
– rispose Rita.
Il dottor Ross ci
sorrise cordialmente, diede un ultimo sguardo alla cartella che aveva
in mano e la posò sul letto.
Intanto feci un passo
verso Claudine, alla mia sinistra, e le sussurrai :- Forse dovrei
lasciarvi so-
- Non fare
l’idiota. – mi zittì, brusca.
Non fiatai nemmeno e
me ne rimasi lì accanto a lei, buono e fermo, un lieve
sorriso che mi trapelava sulle labbra. Poteva essere acida, Claudine,
quando voleva. Ma significava che avevi saputo in qualche modo
conquistare la sua stima e la sua confidenza.
- Colin si
sta ristabilendo molto bene, ha un fisico robusto e forte.
– cominciò il dottore - L’emorragia si
è completamente riassorbita e i parametri clinici sono tutti
ottimali. Questo non vuol dire, però, che potrà
riprendere immediatamente la sua vita di prima. Sarà
opportuno che eviti particolari sforzi fisici, quindi niente sport,
niente palestra, niente jogging, niente sollevamento di oggetti pesanti
ecc. – continuò, tappando la penna che aveva in
mano ed infilandola nel taschino del camice - Dovrà seguire
un’alimentazione sana e leggera, che noi stessi abbiamo
indicato in un programma che vi sarà consegnato insieme agli
altri documenti. Gli farebbe bene invece stare un po’
all’aria aperta, possibilmente non nelle ore di punta, non in
luoghi affollati e confusionari, dove potrebbe cadere, essere spinto,
venire infastidito da luci e rumori troppo acuti. Ah, e niente sabbia,
terreni granulosi, posti polverosi perché, per quanto
fasciata, la ferita non è ancora perfettamente rimarginata
ed è preferibile non incorrere in eventuali infezioni. Tutto
questo per un paio di settimane, dopodiché lo richiameremo
in ospedale per una tac e, se andrà come deve andare,
potrà tornare pian piano alle sue abitudini.
L’ultimo e definitivo controllo lo faremo tra un mese.
–
- Non sembra
troppo complicato… - rifletté Claudine, rivolta a
me e sua madre – l’unica difficoltà
sarà quella di tenerlo a stecchetto con il cibo, temo!
–
- M’inventerò
qualcosa di saporito con gli ingredienti a disposizione… -
disse Rita, con la sua solita dolcezza.
- Non dubito
che ci riuscirà, le mamme creano arte, in queste cose!
– esclamò il dottor Ross, per poi assumere
un’espressione più seria. – Per quanto
riguarda l’amnesia, purtroppo, come avrete avuto modo di
constatare anche da soli, non ci sono stati miglioramenti. Il fatto
è che più passano i giorni più si
assottigliano le speranze di un recupero completo. Ma
c’è ancora tempo, ci sono numerosi casi in
cui… -sìsì,
certo, casi, statistiche, miracoli…Non voglio nemmeno
ascoltarle queste puttanate. Mi fa imbestialire che ne parlino come se
a Colin mancasse un dito. Gli mancano i suoi fottuti ricordi, i suoi
figli…io, cazzo. - … quindi non
è il momento di arrendersi. Il dottor Kleeman è
uno dei migliori specialisti della città e si
recherà personalmente a casa del signor Farrell ogni giorno,
per i prossimi sette giorni. Poi le sedute continueranno a giorni
alterni qui in ospedale per un’altra settimana e poi
–
- E poi
magari non serviranno più perché si
sarà ricordato di tutto, no? – intervenne
Claudine, speranzosa, voltandosi infine verso di me, cercando una
conferma e allo stesso tempo offrendo una rassicurazione. –
Altrimenti cercheremo lo psicologo più rinomato del mondo,
adotteremo le tecniche più avanzate, –
seguitò, concitata, passando un braccio intorno al mio e
rivolgendosi al medico - ma ne verremo a capo. –
Il dottor Ross,
rabbuiatosi, annuì gentilmente.
- Me lo
auguro con tutto il cuore. – rimanemmo tutti in silenzio per
qualche secondo, Claudine ancora appoggiata a me – Nel
frattempo potete continuare a stimolarlo, al di là
dell’ora canonica con il dottor Kleeman. Potete raccontargli
episodi significativi, aneddoti divertenti, mostrargli fotografie,
filmati, proporgli canzoni, melodie, riavvicinarlo alle persone per lui
più importanti. Sempre cercando di non esagerare,
però, valutando attentamente ogni mossa. Anche se a prima
vista può non sembrare, si trova in una condizione
stressante e delicata, ogni nuova informazione potrebbe essere
acquisita come un trauma, un dettaglio per voi insignificante potrebbe
rivelarsi uno shock. Se dovesse avere disturbi dell’umore,
oscillare tra stati depressivi, euforici, rabbiosi, lasciatelo
riposare, non aggiungete altro. – ci passò in
rassegna tutti e tre, facendo scivolare le pupille da un estremo
all’altro, poi sospirò.
- Tutto tornerà a posto da sé. –
Lo ringraziammo e lui
si congedò, Claudine che lo seguiva con lo sguardo fin oltre
la porta.
- Aspettiamo
che Colin torni su? – propose
- Io
raccoglierei un po’ di cose, sistemerei in giro,
così dopo siamo pronti. – replicò Rita
- Datemi un secondo,
faccio una telefonata e vi do una mano! – dissi loro, tirando
fuori il blackberry dalla tasca dei jeans.
Uscii in corridoio e
cercai nella rubrica il numero di Shannon. Sembra assurdo che non lo
conosca a memoria, me ne rendo conto, ma il fatto è che devo
sempre tenere a mente una quantità così
sproporzionata di informazioni che, quando posso, non esito a
delegarle. E il mio BB, del resto, non è che un
prolungamento esterno della mia scatola cranica, mi fido di lui come di
me stesso.
Non feci neanche in tempo a far partire la telefonata che
- Jared?
– sentii chiamare piano.
Mi voltai ed incrociai
gli occhi di Rita, che si chiudeva alle spalle la porta della stanza.
Le andai incontro, la fronte corrugata in un’espressione
di incertezza.
- Scusami se
ti disturbo, ma… Ecco, voi avete deciso di prendere questa
strada… tu ed Eamon, insomma… io non so cosa sia
giusto, certamente tu conosci il modo migliore per gestire questa
situazione… - rimasi ad ascoltarla, confuso, non riuscendo a
capire quale fosse il problema, mentre lei cercava di spiegarsi,
esprimendo un palese disagio – Ma se ancora pensi di non dire
niente, a Colin, di voi due… A casa ci sono molte cose tue,
cose vostre, in giro… Sono entrata in camera sua, ieri sera,
per aprire un po’, cambiare il letto, e ho notato che ci sono
diverse… cose…
sì, che gli farebbero intuire qualcosa, ecco. –
sperai vivamente che la stanza non si presentasse come
l’ultima volta che l’avevo lasciata io
perché non avrei mai più avuto il coraggio di
farmi guardare in faccia da sua madre – Non sto dicendo che
tu, anzi io ti appoggerò qualsiasi decisione prenderai, ma
se vuoi continuare a non dirgli la verità, credo sarebbe
meglio che…non so…che non le vedesse…
Però non penso sia affar mio o di nessun altro entrarci in
mezzo, spostarle…Se vuoi, ecco, se è questo che
vuoi veramente, Jared, magari puoi occupartene tu, di sicuro saprai
molto meglio dove e cosa cercare… - concluse.
Rimasi in silenzio per
alcuni istanti, non sapendo davvero cosa dire. Non ci avevo proprio
pensato a quest’inconveniente. Mi dispiaceva per Rita, la
vedevo sinceramente imbarazzata e mortificata, come se temesse di farmi
in qualche modo un torto. Aveva ragione, soprattutto
nell’ultimo annetto avevo lasciato da Colin tanta roba e poi
c’erano le foto sparse un po’ ovunque, centinai di
aggeggi che Colin conservava per ricordo, addirittura degli scritti,
una sorta di diari che sapevo ogni tanto teneva. Ed ero io
l’unico che effettivamente poteva scovare tutte queste cose.
Già sapevo che non avrei dovuto farlo, già sapevo
che me ne sarei pentito, ma già sapevo che non avrei potuto
dire di no.
- Ha fatto
bene a dirmelo, - le sorrisi, seppur un po’ stentatamente
– non può rimanere tutto così. Passo
subito da lì, ci penso io. –
Rita mi
guardò, afflitta, e mi strinse a sé, cogliendomi
un po’ di sorpresa.
- D’accordo,
però fai attenzione… -
- Sicuramente.
– risposi, sebbene non fossi certo di aver capito a che cosa.
- Porca
miseria, Jared! Ma che hai in testa?! – gridò
Shannon all’ennesima inchiodata, attaccandosi con entrambe le
mani alla maniglia del passeggero.
- Non è successo niente, mi sono fermato in tempo!
–
- E’ la terza vecchietta che non metti sotto per una
manciata di centimetri negli ultimi dieci minuti!
- continuò lui con fare frenetico – Per
non parlare del barboncino! I barboncini sono incredibilmente
intelligenti, augurati che non si sia segnato il numero di
targa… -
- Il
barboncino?! – domandai perplesso, inserendo la prima per
ripartire.
- Il barboncino, sì..! Non capisco
perché non posso guidare io… -
- Te
l’ho già spiegato, devo tenermi
occupato. Se rifletto troppo su quello che devo fare, finisce
che cambio idea e mi do alla fuga… -
- Vedi di
riflettere sul fatto che stai guidando, almeno. –
brontolò, staccandosi finalmente dalla maniglia –
Che poi non credo di aver ben chiaro cosa dobbiamo fare, esattamente, a
casa di Machoman. –
Gli lanciai la mia
occhiata “Fammi il piacere”: - Tu non devi fare
niente, io me la sbrigherò in pochi minuti. Hai preso le
chiavi che ti avevo chiesto? – Silenzio – Shannon?
Hai preso le chiavi? –
- Dovrebbero essere in
una delle 395 scatole che mi hai detto di portare. – rispose
con nonchalance, lo sguardo sulla strada – Non sapevo nemmeno
che avessi le sue chiavi di casa. –
- Ma se sono
anni che me le ha date, ormai… - mi lamentai.
- Non ti
ricordi il drammatico
falò di qualche anno fa..? Pensavo ci avessi buttato anche
quelle. –
Lo guardai di sbieco.
Era più attento di quel che credessi, il mio fratellone.
- Mmm,
sì… Ma me ne ha data una nuova copia
l’anno scorso. – tirai corto, svoltando a sinistra
per imboccare la lunga via tortuosa che conduceva alla villa di Colin,
quella dell’incidente, per intendersi.
- Oh, ma che
ragazzo delizioso! Quasi quasi te lo rubo..! – disse,
imitando la voce stucchevole delle teen-ager da telefilm medio.
- Cretino!
– allungai il braccio destro per tirargli un pugno sulla
spalla.
- Tieni le
mani sul volante, cazzone! – imprecò, tenendosi
ben stretto alla cintura di sicurezza. – Domenica torna la
mamma. –
- Lo so.
–
- Non le hai
ancora detto la verità su Colin. –
- Non volevo
allarmarla inutilmente. - spiegai, cambiando la marcia per
l’ultimo tratto di strada rimasto.
- Paura, eh? –
sghignazzò divertito.
Mi girai verso di lui,
le sopracciglia aggrottate: - Paura di che?! –
- Vedrai,
Jay, non si arrabbierà. - stabilì
serafico – Non si è arrabbiata la prima volta che
ti ha spezzato il cuore, non si è arrabbiata quando
è venuto fuori che era un cocainomane alcolizzato, non si
è arrabbiata quando ti ha spezzato il cuore la seconda
volta, né la terza e neppure quando ha fatto un figlio e
messo su famiglia con un’altra! Perché dovrebbe
arrabbiarsi ora che, per aver battuto la testa, ti ha direttamente
cancellato dalla sua vita?! -
Lo guardai allibito,
senza rispondergli niente. Poi superai il cancello d’ingresso
all’abitazione, con il telecomando automatico che ormai
tenevo sempre in macchina.
- Per me
dovresti fare come me e la mamma, prenderla con filosofia, invece di
continuare a mettere il muso… - pontificò
Shannon, togliendosi la cintura mentre io facevo manovra per
parcheggiare.
- Ma se tu ti
arrabbi come un matto ogni singola volta che mi lascio sfuggire che ho
qualche problema con Colin? –
- Arrabbiarsi
è sempre meglio che piagnucolare in buddista, come fai
tu… - decretò, sollevando limpidamente le
sopracciglia ed aprendo lo sportello.
- Io non
piagnucolo in buddista! – ribattei ad alta voce, oramai
rimasto solo nell’abitacolo - E poi il buddismo è
una religione, anzi, - scesi di macchina e lo raggiunsi al portabagagli
– uno stile di vita! Nessuno può piangere in uno stile di vita…
- Shannon scaricava e ammucchiava da un lato le varie scatole di
cartone in cui intendevo riporre i miei effetti personali –
Al massimo potrei piagnucolare in hindi, in mandarino, persino in
tibetano! Ma in buddista non ha senso… -
Mio fratello chiuse
con un sospiro il portellone e si chinò per sollevare una
pila di scatoloni.
- Dio, Jared,
a volte mi piacerebbe poterti spegnere, come si fa con quelle
fastidiose radioline portatili che ronzano in continuazione…
- mi passò le scatole rimanenti e mi precedette verso
l’ingresso.
- Shan, le chiavi?
– gli urlai dietro
Me le
lanciò senza nemmeno voltarsi e, nell’afferrarle,
mi caddero di mano tutti gli scatoloni. Sbuffai e mi piegai per
raccoglierli.
- Ma non
c’è nessuno in casa? – lo sentii
domandare
- No, sono
tutti in ospedale. – gli risposi, raggiungendolo.
Quand’ero
venuto via, poco dopo aver parlato con Rita, Eamon aveva già
chiamato per avvisare che lui e il padre sarebbero arrivati a breve.
Non avevo nemmeno aspettato Colin per salutarlo, volevo togliermi il
pensiero immediatamente.
Diedi un’occhiata veloce a mio fratello, che allungava il
collo ai lati delle scatole per sbirciare l’ambiente
circostante. Mi chiedevo come facesse a procedere senza inciampare,
dato che la pila lo superava di parecchi centimetri. Ma si sa, lui
può fare qualunque cosa.
- Eccoci qua!
– dissi, una volta al portone, tentando di aprire senza far
di nuovo cadere tutto.
Ci riuscii. Lasciai
passare Shannon, che appoggiò subito gli scatoloni sul
pavimento, ed entrai dietro di lui.
- Ehi, guarda
che c’è un allarme qui. – mi
indicò il piccolo schermo dai tasti illuminati, sulla parete
vicina all’entrata.
- Sì,
lo so, lo so…ora lo spengo prima che parta. –
- Wow, ti ha
dato anche il suo codice per l’allarme? – mi chiese
stupito, mentre digitavo i numeri giusti.
- Si
supponeva che io venissi a vivere qui, ti ricordi? –
- Ah.
Già. – rimase a fissarmi imbambolato.
- Comunque, -
afferrai due grandi scatole e mi avviai oltre il salone – io
comincio a fare il giro dal piano di sopra…Tu…
Beh, tu… - mio fratello si guardava intorno, incuriosito
– Puoi stenderti qua sul divano e dormire un po’ se
vuoi, è ancora presto per i tuoi standard. Oppure posso
accompagnarti in una delle camere degli ospiti… -
- No, mi sono
svegliato ormai. –
- Allora
puoi, che so, farti un panino… La cucina è di
là. – gli feci un gesto con la mano, che lui
seguì con lo sguardo – Poi magari ti metti qui a
vedere la tv. –
Attesi che decidesse,
mentre continuava ad osservare tutto.
All’improvviso mi resi conto di star vivendo un momento
alquanto surreale. Shannon a casa di Colin. Shannon che studiava ogni
particolare, i suoi grandi occhi ridotti a fessure, attente,
indagatrici, le orecchie tese, le narici attive, ogni senso allertato
nel captare le tracce della sua preda.
In circostanze come questa riuscivo a comprendere perché
Colin provasse un sano terrore nei confronti di mio fratello.
- Non
è che ha la Play Station, l’XBox, qualcosa?
– se ne venne fuori, finalmente.
- Oh, ma
certo! Bella idea, vieni! – gli accennai di seguirmi, ma poi
mi bloccai subito – Ah, ma aspetta… ha solo giochi
per bambini. E l’unico per adulti è sul calcio.
–
Shannon
alzò gli occhi al cielo: - Mai che ne facesse una buona! Sai
che? mi cerco davvero qualcosa nel frigo e me la mangio qui, facendo un
po’ di zapping… – si voltò
verso il televisore, di fronte al divano in pelle grigia – Lo
schermo almeno sembra decente. – ammiccò.
Sorrisi, soddisfatto
di averlo sistemato.
- Perfetto!
Tanto io ci metterò molto poco, non preoccuparti.
– strinsi la presa sugli scatoloni e mi diressi verso le
scale – Ah, se ti stendi sul divano, magari togliti le
scarpe! – gridai
- Non ci
penso nemmeno! – replicò, già diretto
verso la cucina.
Risi fra me, scuotendo
il capo. Figurarsi.
Il
piano superiore era costituito quasi interamente da camere. La camera
da letto di Colin, che avevo deciso di lasciarmi per ultima, le camere
dei bambini, numerose camere degli ospiti, un paio delle quali
assolvevano anche alla funzione di studio e libreria. Diverse, al
momento, erano occupate dai familiari di Colin e non mi
sembrò opportuno entrare e rovistarvi in giro. Ma sapevo
anche che erano ambienti sgombri da ogni mia presenza, arredati in
maniera piuttosto neutrale, al massimo qualche vecchia foto di famiglia
in bianco e nero.
Mi affacciai alle due camerette, dando un rapido sguardo
d’insieme, ma anche in quelle mi parve irrilevante
approfondire la ricerca. C’era certamente, fra i vari giochi,
qualcuno regalato da me, riposto nelle ceste, negli armadi o sparso qua
e là, ma non c’era mica inciso sopra il mio nome.
Dal soffitto della stanza di Henry, che alla fine dell’estate
precedente io e Colin, personalmente, avevamo ritinteggiato in
tonalità gialle e arancioni, pendeva un grande aeroplanino
in legno che gli avevo portato dalla Francia e, dall’angolo
vicino alla finestra, spuntava il collo lungo del dinosauro che gli
avevo comprato per Natale.
Stavo chiudendo la porta della camera di James, quando mi cadde
l’occhio sulla parete piena di foto, di fronte al letto.
Colin l’aveva realizzata per ricordare al bambino i volti
delle persone più importanti. Con Jim, infatti, la memoria
visiva era molto più efficace di ogni racconto, lettera,
telefonata. E così, ogni sera, quando passava la notte
lì, Colin, prima di dormire, gli mostrava le foto di tutti
gli zii, i nonni, i parenti più stretti che non poteva
vedere spesso, così che non li dimenticasse mai. Una delle
cornici centrali racchiudeva un’immagine di me col bambino,
scattata verso la fine del 2007. Lasciai le scatole nel corridoio e mi
avvicinai alla parete. Eravamo sul bordo della piscina, nel giardino al
piano di sotto, io lo tenevo in braccio e ridevamo, tutti e due,
l’acqua e ed una ciambella a forma di paperotto sullo sfondo.
Adoravo quella foto, ed anche Colin. La teneva appesa lì da
anni, aveva resistito persino al malefico passaggio di Alicja. Mi
chiesi se fosse davvero necessario rimuoverla, in fondo non vi era
niente di esplicitamente compromettente. Però, passando
velocemente in rassegna le altre foto, dovetti ammettere che ritraevano
solo e unicamente membri stretti della famiglia, così, mio
malgrado, sfilai la cornice dal chiodo e la poggiai nella scatola.
Avrei fatto dire a Colin che il buco sulla parete era riempito da una
foto che s’era rotta. Mi richiusi la porta alle spalle e mi
avviai verso la parte opposta del piano, il primo trofeo già
riscosso.
Da quel lato erano rimaste solo due stanze. La prima in cui entrai era
un ambiente enorme, con un’immensa libreria sul fondo,
stracolma di libri, vecchi dischi, album di foto, copioni di film ormai
girati. Un impianto tv, un ottimo impianto stereo, due divani e un
tavolo da biliardo. Non era una stanza che frequentassi molto, ma un
giretto di controllo lo feci. Aprii qualche anta, qualche cassetto,
passai fra i libri abbandonati in un angolo, ma in effetti era come
cercare un ago in un pagliaio. Colin poteva aver annotato qualcosa,
scordato qualcosa riguardante me ovunque. Potevo rintracciare solo
ciò che io avevo lasciato per caso o di proposito. Uscii con
un blocchetto di appunti di mia calligrafia, un romanzo di Wells con su
scritto tre volte Jared, abitudine che avevo dovuto prendere per
evitare che Colin si appropriasse indebitamente dei miei libri,
“incidente” ripetutosi di frequente, e un paio di
pantaloni neri rimasti sul divano da più di dieci giorni,
evidentemente troppo stretti per passare per suoi.
L’ultima stanza rimasi a guardarla un attimo da fuori. Era un
vano di dimensioni non eccessive, completamente spoglio, se non per un
tavolino rotondo con una lampadina e una poltrona reclinabile. Colin ci
si rifugiava unicamente per studiare i copioni, ripetere le parti,
prepararsi, insomma, per il lavoro. Ci ero entrato giusto poche volte
per risentirgli qualche battuta e non vi era assolutamente nulla di
mio. Anzi, non vi era nulla e basta, nemmeno un foglio appoggiato da
qualche parte.
Prima di scendere le scale riflettei se controllare anche i bagni, ma
decisi di lasciar correre; tenevo le mie cose solo in quello della
camera padronale e ci sarei passato dopo.
Al piano terra cominciai dalla stanza che sapevo avrebbe riempito le
mie scatole. Era un ambiente piuttosto spazioso e luminosissimo, con le
porte finestre che davano sulla parte di giardino in cui non andava
quasi mai nessuno. In un arredamento moderno e semplicistico, che Colin
mi aveva lasciato scegliere a mio piacimento, tenevo un pianoforte
bianco a muro, quello a coda si trovava in sala, due chitarre, quaderni
con testi e note buttati là, scarabocchi, tomi sulla storia
della musica, dvd e cd musicali, cuffie, cavi, una quantità
sconfinata di accessori con lo stemma della band, un computer fisso, un
giradischi con megafono e uno stereo di ultima generazione con casse
potentissime. Tutto organizzato nel mio caotico ordine. Portai via
tutto quello che potevo, allacciandomi la chitarra elettrica al collo e
trascinando gli scatoloni fino al salotto. Cercai di attutire al meglio
il rumore quando, quasi arrivato alla meta, trovai mio fratello
addormentato davanti al televisore, abbracciato ad un cartone di succo
di frutta, qualche fazzoletto scivolato sul pavimento e la maglia
ricoperta di briciole.
Poveretto, erano giorni che per star dietro a me si alzava
all’alba e aveva scombussolato tutti i suoi ritmi biologici.
Abbassai il volume della tv, sistemai all’uscita le scatole
stracolme e tornai indietro con altre due vuote.
Dal lato opposto del corridoio rispetto alla mia sala-musica
c’era la stanza-giochi dei bimbi. Realizzai solo in quel
momento che ero stato relegato nella zona “passatempo per
piccini”. Quante
volte te l’ho detto, Colin, che quando suono non sto
giocando?!
Mi affacciai, ma tra tricicli, pattini, skateboards, pupazzi, puzzle
lasciati sul pavimento, palloni e altre migliaia di aggeggi, non mi
parve di dover togliere niente.
Subito accanto si trovava una sorta di salottino che veniva utilizzato
esclusivamente per la proiezione di film. La parete di fondo era
completamente riempita con uno schermo gigante ad altissima risoluzione
e non v’era altro arredamento che un’elegante
scaffalatura contenente moltissimi dvd e qualche vecchia videocassetta
di cui Colin non voleva sbarazzarsi, un divano a sei posti,
comodissimo, e una lampada in stile moderno. L’impianto audio
collegato al televisore era una bomba. L’avevo preso pochi
mesi prima nello stesso posto in cui avevo acquistato alcune casse di
nuova generazione per il Lab e ne ero profondamente orgoglioso. Certo,
quando riproduceva i suoni de “I Puffi” non era
sfruttato al massimo, ma con qualche film ci aveva dato grandi
soddisfazioni. Come con la versione rimasterizzata di Star Wars che
avevamo visto il week end precedente. Quello mi fece considerare che
forse era il caso di frugare un po’ tra i cuscini del divano
e, difatti, incastrato tra un bracciolo e l’imbottitura
laterale, scovai uno dei miei inconfondibili calzini a righe. Ecco, menomale. Non
presi nient’altro se non il cofanetto de “Il
Padrino” che Colin aveva caparbiamente preteso di avermi
restituito.
Di fronte, anch’essa provvista di grandi portefinestre sul
giardino, era stata arrangiata una sorta di palestra, con qualche
macchinario per gli esercizi fisici, alcune corde appese a delle
spalliere, dei tappetini per lo yoga, un calcetto balilla e
l’immancabile stereo, su cui notai essere appoggiata la
custodia vuota dell’ultimo cd di Barbra Streisand; mi augurai
che fosse stata Claudine l’ultima ad allenarsi là
dentro. Ogni tanto ci facevo un salto anch’io, ma non mi
sembrava di vedere niente di strano. Controllai velocemente anche il
bagnetto comunicante e portai via solo il mio bagnoschiuma personale,
dato che mi rifiutavo di lavarmi col
muschio d’Irlanda che usava Colin, che ti
faceva puzzare più di quando eri sudato.
Saltai direttamente il ripostiglio e tutti i bagni, controllai nella
stanza del bucato che non ci fosse, tra i panni da lavare o da stirare,
alcuno dei miei ed entrai nell’ultimo locale prima della
cucina, la sala da pranzo.
Era molto, molto ampia, con due grandi vetrine in mogano piene di
piatti e argenterie sulle due pareti corte. Al centro un lungo tavolo
in cristallo che poteva essere ulteriormente esteso se il numero dei
commensali lo richiedeva. Non veniva utilizzata di frequente, se non
quando Colin riceveva ospiti importanti o troppi amici e parenti per
stare comodi in cucina. Pensavo che non avrei trovato niente di mio,
lì, ma poi mi accorsi della macchina fotografica dimenticata
sul mobiletto vicino alla porta. La tiravo fuori, a volte, quando
c’erano i bambini o qualche occasione particolare per fare
delle foto. L’accesi e passai in rassegna le ultime che avevo
fatto e decisi che era meglio toglierla di mezzo. Di nuovo, niente di
esplicito, ma tutto troppo intimo e familiare.
Dalla vetrata della sala da pranzo uscii direttamente nel giardino e
feci due passi verso la piscina. Il sole picchiava già forte
e l’aria era incredibilmente afosa. Controllai
l’ora sul BB: 10.25. Avevo ancora un po’ di tempo.
La superficie dell’acqua era piattissima; mi chinai per
bagnarmi una mano e sfregarla con l’altra. Lanciai
un’occhiata generale in giro, curiosai persino dentro la
casetta in legno dove erano conservati i gonfiabili dei bambini, alcuni
cambi di costume e ciabatte antiscivolo e me ne tornai dentro.
La cucina era piuttosto essenziale e funzionale. Moderna, con una
penisola al centro ed un enorme frigo metallizzato a due ante. Mai sia che Colin Farrell resti
senza cibo. Lo aprii e rimasi a godere per qualche secondo
della beata ondata di fresco. Si vedeva che da una settimana la casa
era stata invasa dalla sua famiglia, tutti gli alimenti sani e naturali
che mi sforzavo di fargli mangiare erano stati sostituiti da quelle che
la gente comune definirebbe appetitose leccornie. In pratica letali
schifezze, veleni per lo stomaco. C’era ancora, nel ripiano
laterale, una bottiglia di vetro con l’infuso di erbe che
aveva finalmente preso l’abitudine di bere dopo cena.
Sorrisi, come un ebete. Si era preso gioco di me per anni, delle mie
abitudini salutiste, della mia alimentazione restrittiva. Mi perdevo il
meglio della vita, diceva. Ma da quando eravamo tornati insieme aveva
filato dritto come un fuso. Sceglieva prodotti biologici, buttava
giù qualsiasi tipo di tè, tisane, miscugli
vegetali che gli compravo, praticava lo yoga… Che cavolo, me
l’ero meritato, almeno questo.
E ora, Jared? Che hai, ora?
Mi scrollai velocemente, rimettendomi in moto. Lasciai tutto
com’era, anche i pochi resti dei miei piatti, tranne due
yogurt di soia con una J blu sul tappo che Colin contrassegnava per non
confonderli coi suoi. Cercai di fare mente locale su possibili punti da
controllare, appoggiato con la schiena all’acquaio. La
penisola. Un paio di mesi prima avevo comprato delle fragole, un sacco
di fragole. Le avevamo messe in due coppe giganti, riempite di panna.
Poi la panna era scivolata e io l’avevo raccolta con un dito,
portandomelo alla bocca per pulirlo. Allora Colin… la
penisola… le fragole e la panna, sulla penisola.
Mi scossi, di nuovo. Così non poteva andare. Concentrati, Jared,
concentrati… Ah, ecco, la tazza! Il dicembre
passato, per il mio quarantesimo compleanno, James, più che
altro Kim, mi aveva regalato una tazzona da colazione rossa che tenevo
lì, così poteva vedermi sempre quando la usavo.
Aprii uno sportello, niente, ne aprii un altro. Eccola là!
La presi, girandomela tra le mani. “Forty Years to
Jared”, era proprio lei, deliziosa. La riposi in una scatola
e, alzandomi, sbattei contro un angolo della penisola.
La panna. Colin, le fragole.
Basta, non potevo continuare in quel modo. Uscii di corsa e posizionai
anche quei due scatoloni alla porta. Il sogno della notte precedente mi
stava iniziando a disturbare più di quanto intendessi
permettergli. Non potevo concedermi cedimenti o distrazioni. Finora
aveva funzionato tutto perché mi ero mantenuto distaccato e
laborioso. Se mi fossi permesso il lusso di riflettere su quel che
stavo facendo, sarei crollato, ne ero certo.
Mi passai una mano fra i capelli e inspirai profondamente, per
ricaricarmi. Mi sporsi oltre il divano per controllare Shannon, che
vidi ancora immerso in un sonno indisturbato. In prospettiva, al di
là della sua spalla, mi cadde l’occhio su una
cornice dal sottile bordo nero, riposta sulla mensola accanto alla tv.
Che stupido, non avevo considerato per niente il salone
d’ingresso, dove invece finiva per essere accumulata ogni
minima cosa al momento di entrare o uscire di casa. Trovai infatti un
plettro con la triad, una ricevuta a mio nome e l’abbozzo di
un Creep su cui Colin aveva scarabocchiato un insulto. La foto,
scattata e sistemata in quel punto da poco, ritraeva noi due nel
giardino di casa mia, il pomeriggio della grigliata vegana per il
compleanno di Emma. Io non ero venuto neanche troppo bene, ma a Colin
era piaciuta tanto. Era vero che c’era molto di me in quella
casa, ultimamente. La tolsi di lì e misi tutto negli
scatoloni. Ne presi altri due e mi riavviai su per le scale, finalmente
pronto ad affrontare la sfida più impegnativa.
La camera da letto era situata sul lato più silenzioso del
giardino. In realtà non era sempre stata là; o
meglio, non era sempre stata quella. Per i primi anni Colin aveva
dormito nella stanza padronale, vicina a quella di James, ma, in
seguito all’infausta presenza di Alicja, avevo trovato
insopportabile l’idea di dover tornare in quella che per me
era diventata una camera fatalmente contaminata. Così lui
l’aveva semplicemente relegata agli ospiti e se
n’era scelta un’altra, sempre molto ampia e anche
più luminosa, dall’altro lato del corridoio.
Conoscendomi bene, aveva anche sostituito tutto
l’arredamento: letto nuovo, armadio nuovo, comodini nuovi.
A dir la verità, avevo proprio avuto dei seri problemi anche
solo a rimetterci piede in quella casa, a riambientarmi. Mi mandava
fuori di testa che, ovunque mi muovessi, continuassi a provare la
sensazione che lì c’era stata anche lei, quella sedia
l’aveva toccata lei,
da quella porta ci era passata lei,
nel bagno si era lavata lei…
Colin ad un certo punto, spaventato dal fatto che non riuscissi a
superare la questione e lo mollassi di nuovo, aveva candidamente
proposto di vendere tutto e ricomprarsi una casa nuova. La qual cosa mi
allettava particolarmente, ma il problema era che per James, nella sua
delicata sensibilità, gli ambienti familiari sono
molto importanti. Non si trova a suo agio nei luoghi che non conosce,
fa tanta fatica ad abituarsi.
E quindi, solo per lui, avevo lasciato perdere. Lo sapevo, nel momento
esatto in cui mi aveva stretto il dito con la sua manina cicciottella,
tanti anni prima, che mi avrebbe sicuramente fregato.
Così, tutti gli spostamenti, i ripetuti acquisti, le assidue
modifiche in cui mi ero speso, non avevano tanto a che fare con il mio
futuro trasferimento in quella casa, quanto con l’ossessiva
intenzione di cancellare fisicamente e psicologicamente il passaggio di
Alicja dal mio territorio. Colin non si era mai lamentato, salvo
brontolare di volta in volta perché non riusciva
più a trovare le cose nelle loro nuove collocazioni.
Aprii piano la porta ed entrai in camera, scostando subito le tende per
avere una visuale più nitida dell’insieme. Scelsi
di cominciare dal mio comodino e lo svuotai praticamente
tutto. Poi passai al cassettone, sormontato dalla grande
specchiera intarsiata in oro che aveva folgorato Colin durante un
soggiorno nel nord Italia. Liberai il secondo cassetto da ogni mio capo
di biancheria. Controllai pure gli altri, per sicurezza, e scoprii che
anche il terzo era stato già preparato per accogliere il
malloppo di roba mia che sarebbe dovuto arrivare di lì a
breve. Mi concentrai allora sull’armadio, partendo dalla
cabina in angolo. Trovai tre camice, due jeans, un paio di pantaloni
blu in cotone e una dozzina di t-shirt, molte delle quali con stampe
disegnate personalmente da me. Piegai e riposi tutto nel primo
scatolone e lo accantonai, ormai colmo, tirando verso di me
l’altro. Rovistando fra gli abiti di Colin scovai un mio
maglione grigio, ma era sufficientemente largo da poter essere
scambiato per suo, così lo lasciai stare dov’era.
Nelle due ante laterali c’erano soltanto abiti eleganti,
cappotti e giacche, per non parlare del portagioie
– lui non voleva che lo chiamassi così,
ma era senza ombra di dubbio il classico portagioie da femmine
– con decine e decine di collane, bracciali e orecchini.
Tamarro, sempre detto io.
Recuperai, infine, una sciarpa nera, uno spolverino colorato e un paio
di pantofole imbottite che adoro indossare anche quando fuori
è caldo. Aprii poi la parte centrale dell’armadio
e mi concentrai, ben cosciente che lì, fra lenzuola, coperte
varie e cambi di stagione, Colin conservava molti dei suoi oggetti
più personali. Per primo trovai l’iPad, su cui
aveva l’abitudine di custodire tutte le foto, i messaggi e i
pensieri di natura privata. Non teneva niente sul cellulare o sul pc
che si portava sempre dietro, perché poteva benissimo
capitare di dimenticarli da qualche parte, così trasferiva
direttamente sul tablet tutte le informazioni che riceveva e desiderava
conservare. Lo accesi e scorsi rapidamente le varie cartelle. A parte
qualche foto dei bambini e alcune email di Eamon e dei suoi amici
più stretti, erano quasi tutti video, immagini, messaggi
mandategli da me o annotazioni e che mi riguardavano direttamente. La
tecnologia, soprattutto quando si è costretti a passare
diversi giorni separati da migliaia di chilometri, è una
risorsa insostituibile. Permette di scambiarsi informazioni
preziosissime. Alcune, però, decisamente poco
presentabili. Decisi di toglierlo direttamente di torno. Mi imbattei
poi in delle scatoline con centinaia di aggeggi che metteva via via da
parte, ricordi di viaggi, posti, momenti, ma ad occhio niente di
compromettente. Una invece conteneva alcune foto mie o nostre, scattate
nel corso degli anni, in luoghi diversi, insieme a dépliant,
ricevute di prenotazione, biglietti da visita di ristoranti o alberghi.
Era un maniaco per queste cose, dio santo.
Non mi soffermai troppo tra tutti quei ricordi, perché
già cominciavo a rendermi conto di non esser più
tanto in grado di gestire il senso di nausea che mi infastidiva
già da un po’. Come se l’amnesia non
fosse abbastanza, stavo contribuendo a togliere ogni minimo indizio
della mia presenza nella vita di Colin. Mi stavo letteralmente cancellando. Sapevo
che dovevo farlo, ormai non avevo scelta, ma ce la mettevo tutta per
evitare di chiedermi se quel che stavo facendo fosse giusto o perlomeno
avesse un senso. Tolsi di mezzo quella scatolina e ripresi
dov’ero rimasto. Altri contenitori con cose dei bimbi, un
album di scatti vecchissimi di quando era piccolo, e, in fondo in
fondo, vari blocchi di carta e quaderni in cui era solito annotare di
tutto, dai pensieri più significativi che gli passavano per
la mente, a delle storie particolari che aveva sentito e non voleva
dimenticare, a dei veri e propri racconti brevi o poesie che ogni tanto
scriveva di suo pugno. A me per primo aveva mandato, nel
tempo, numerose e mail o lettere per esprimere concetti che a
voce non riusciva ad esternare. Su una di queste, una volta, ci avevo
anche scritto una canzone che poi non avevo pubblicato in nessun album.
Ero in dubbio su cosa fare. Non potevo né volevo mettermi a
leggere ogni singola pagina, si trattava di cose sue, intime, non mi
sembrava opportuno; da un lato pensavo che confrontarsi con
così tanti dettagli personali avrebbe potuto fornirgli un
ottimo input per ritrovare sé stesso, dall’altra
ero quasi certo che da qualche parte ci avrebbe trovato riferimenti a
me o alla nostra storia. Ci rimuginai sopra un po’ e, alla
fine, seppur poco convinto, aggiunsi tutto al mio scatolone. I primi
due cassetti della cassettiera interna erano vuoti, il
terzo…beh, al terzo ero preparato. Era da qualche tempo che
non frugavo là dentro, ma ritrovai tutti i più
bizzarri giocattolini sessuali che a volte utilizzavamo per creare
piacevoli diversivi. Li tirai fuori uno per uno, nascondendoli con
attenzione sotto ai vestiti, per evitare che mio fratello li vedesse e
cominciasse a sbuffare come suo solito. Li avrei riposti insieme a quei
pochi che erano rimasti a casa mia. Presi tutto, anche le manette col
pelo rosa che avevo vinto ad una fiera inglese un paio d’anni
prima. Mi dispiace,
Colin, niente Jared, niente sesso.
Risistemai per bene ogni cosa dentro l’armadio e lo richiusi.
Passai allora al bagno e mi ritrovai sorprendentemente a sorridere,
percependo all’istante la fragranza di lillà che
pervadeva l’ambiente. Colin si era lamentato già
due volte con la signora delle pulizie e lei gli aveva assicurato che
avrebbe cambiato il profumatore non appena fosse finito. Ma era passato
almeno un mese e il profumatore funzionava ancora a meraviglia.
“Dimmi te se è possibile!”, aveva
sbottato Colin una sera, “Mi sembra di entrare nel boschetto
nelle fate invece che in un cesso.”. Controllai il mobiletto
a specchio sopra il lavandino: due rasoi, due lamette, due schiume da
barba, due dopobarba – ho una pelle troppo delicata per usare
prodotti normali come i suoi, necessito di una scelta molto accurata,
io.
Portai via tutte le mie cose e anche la boccetta quasi vuota delle sua
acqua di colonia, la confezione nuova già pronta
lì accanto. Non so perché, la volli prendere con
me e basta. La vasca era a posto, nella doccia invece trovai il mio
balsamo e soprattutto tre braccialettini colorati con i vari
simboli dei Mars che non mi ero neanche accorto di aver perso. Li
infilai al polso, mentre scorrevo velocemente i ripiani dello scaffale
in angolo, dove individuai alcuni miei vasetti di creme che
però, per quel che ne sapeva, potevano benissimo essere
suoi. Gli lasciai persino il mio costosissimo gel per capelli. Tanto
quella storia sarebbe presto finita, la sua chioma non prometteva
d’essere folta ancora per molto.
Tornai in camera e misi tutto negli scatoloni, dandomi
un’ultima, rapida occhiata intorno. Ero soddisfatto, un
lavoro piuttosto veloce, preciso ed efficace. Guardai per sicurezza
anche sotto al mio cuscino. Lui è rozzo, dorme in mutande,
quando va bene, ma io non resto di certo a prendere freddo come uno
scemo.
Non trovai nulla, ma, allontanandomi, intravidi un fogliettino
accartocciato al lato del letto. Lo raccolsi per buttarlo e lo
riconobbi come lo scontrino della cena che avevamo ordinato la domenica
precedente. I suoi sarebbero arrivati il giorno successivo,
così Colin aveva insistito per trascorrere una serata in
tranquillità a casa, il mondo chiuso a chiave fuori.
L’avevo quasi scordata la fase del “godiamoci la
pace ora che presto scoppierà la bomba”. Era stata
l’ultima notte che avevamo passato insieme; l’avevo
salutato al mattino, per poi ritrovarlo la sera dopo in quella stanza
d’ospedale. Sospirai, sedendomi mollemente sul materasso e
spiegando attentamente quel pezzettino di carta, fissandolo come se in
qualche distorta maniera potesse restituirmi la serenità di
un ricordo tanto ordinario quanto straordinario. Avevamo
così poco da fare che eravamo presto finiti a letto, i
contenitori del cinese sparpagliati sulla coperta e un
interessantissimo documentario sulla caccia alle balene in tv. Mentre
tiravo su con le bacchette gli spaghetti alle verdure, mi ero sentito
ripetutamente osservato.
- Jay?
– aveva infine mormorato Colin
- Uhm..?
–
Avevo continuato a
masticare, del tutto assorto nelle immagini sullo schermo. Poi, non
sentendolo più aprir bocca, mi ero voltato verso di lui e
l’avevo trovato a sfregarsi la nuca, perso nella sua classica
espressione “devo dirti una cosa ma non so se ti
arrabbierai”.
- Temevo la
noia, sai? Dopo anni a girare per il mondo, stratagemmi per incastrare
tutto, salti mortali per incontrarci… Insomma, il fascino
del proibito, la seduzione del mistero, semplicemente
l’abitudine ai ritmi incalzanti che abbiamo sempre
avuto… Ho temuto che avremmo potuto annoiarci,
sì. Ho temuto che questa normalità avrebbe potuto
mettermi a disagio, avrebbe potuto lasciarti insoddisfatto. Ho avuto
paura che non facesse per noi. –
Avevo ingoiato il
boccone che mi era rimasto sospeso in gola, facendo rapidamente mente
locale sulle nostre attività degli ultimi mesi. Senza
muovermi di un millimetro, avevo immaginato vista da fuori la scena di
noi due, comodamente sistemati tra le lenzuola, accerchiati da
vaschette di cibo, un programma per anziani alla tv ed io, a completare
il quadretto, in una canottiera sgualcita e stinta, con la barba fino
ai piedi.
- E-e?
– avevo deglutito ancora, a vuoto.
- Questa mi
sembra di gran lunga la cosa più eccitante che abbiamo mai
fatto. – aveva sorriso, con le labbra, con gli occhi, il
sorriso più genuino del mondo – E tu –
si era sporto su di me, sussurrando – non sei mai stato
così sexy... – mi aveva baciato, la cena e tutto
il resto presto dimenticati.
Mi trovavo
lì, su quello stesso letto, da quello stesso lato. Un
milione di anni prima.
Strinsi lo scontrino in un pungo e portai l’altra mano a
coprirmi il volto, arrendendomi a quella nausea che mi assaliva da
dentro. Ecco di cosa parlava Rita, a cosa dovevo prestare attenzione.
Mi sentii improvvisamente cogliere da una scossa di panico e cominciai
a piangere, prima cercando di contenermi, poi sempre più
apertamente. Scivolai sul pavimento, abbracciandomi stretto alle
ginocchia rannicchiate sul petto, nel tentativo di calmare il tremore
che aveva preso a percorrermi ovunque. Il panico si
trasformò in rabbia e le lacrime in singhiozzi inarrestabili
che ben presto lasciarono il posto a vere e proprie urla. Urla di
collera. Non ero più spaventato, confuso, triste, non ero
più nemmeno disperato in quel momento. Ero furioso,
perché non era giusto. Non dopo tutta la fatica, la
violenza, il dolore, l’umiliazione, non dopo quel bacio al
sapore di soia e di futuro. E più continuavo ad arrabbiarmi,
a battere i palmi sulle mattonelle fredde, più continuavo a
piangere e a gridare, più mi sembrava che non sarebbe mai
finita, che avrei potuto andare avanti così per sempre. Non
so davvero quanto a lungo e con quanta forza rimasi sul pavimento in
quelle condizioni, ma abbastanza da farmi sentire da mio fratello, che
non vidi neppure entrare dalla porta, ma che si inginocchiò
vicino a me, tentando di tenermi fermo e di calmarmi.
- Doveva
succedere a un certo punto…Sfogati…Sfogati e
lascia andare tutto. - disse piano, passandomi una mano sulla
schiena, per poi rimanere con me, in silenzio, finché non
fui pronto a rialzarmi.
Il sol era scordato,
non c’era niente da fare. Era inutile che cercassi di
ignorarlo, con il sol scordato non andavo da nessuna parte.
Appoggiai la chitarra al muro e mi lasciai cadere contro lo schienale
dello sgabello, chiudendo gli occhi. Sospirai. Ero stanco morto,
nonostante mi fossi svegliato da poco.
Io e Shannon avevamo caricato tutti gli scatoloni in macchina e ce
n’eravamo andati. Avevo lasciato guidare lui, non riuscivo
neanche a stare dritto a sedere sul seggiolino, dopo il crollo che
avevo avuto in camera. Shannon non aveva detto niente, neppure una
parola, per tutto il tempo, benché sospettassi che fosse un
po’ scosso. Non mi aveva mai visto così, nemmeno
nei momenti peggiori. Per quel che può valere, neanche io mi
ero mai visto così.
Una volta a casa ero filato dritto nella mia stanza, esausto. Mi ci
erano voluti forse due minuti per addormentarmi; niente sogni, niente
agitazioni, avevo dormito profondamente per quasi tre ore. Al risveglio
ero sceso in cucina a bere del tè, notando che mio fratello
aveva scaricato e sistemato tutto in un angolo del salone. Per nulla
intenzionato ad occuparmene in quel frangente, ero passato oltre,
controllando il telefono e scrivendo un messaggio a mia madre e uno a
Rosario, della quale erano indicate nel registro già tre
chiamate. Non ero proprio in vena di parlare con nessuno.
Alla fine, incapace di starmene con le mani in mano e provando
l’irrefrenabile bisogno di applicare la mente in qualcosa di
produttivo, avevo convinto Shannon ad andare al Lab. Aveva cercato di
protestare un paio di volte, sostenendo che non gli sembravo in grado
di concentrarmi su alcunché, ma poi, scuotendo il capo e
borbottando fra sé, aveva desistito.
C’è da dire che la vita non mi ha mai regalato
niente, tutto quel che ho ottenuto me lo sono guadagnato lavorando
duramente, col sudore e col sangue. Mio fratello è
l’unica eccezione. E Dio solo sa se non le sia riconoscente
ogni santo giorno.
Insomma era andata a finire che avevo passato
un’enormità di tempo davanti al computer,
scorrendo Artifact in lungo e in largo, apportando qualche modifica,
poi cancellandola, scegliendo di lavorare su un punto, poi scegliendone
uno diverso, in pratica non concludendo niente di buono. Infine mi ero
dato per vinto ed ero sceso al piano di sotto, chiudendomi da solo
nello studio di registrazione e prendendo in mano la chitarra, nella
vana speranza di provare una delle nuove canzoni. Ma poi mi ero
incastrato col sol, era il sol che mi fregava.
Aprii gli occhi ed inclinai leggermente la testa verso la chitarra. Ero
io che mi fregavo, niente scuse, niente sol da accordare.
Controllai il BB, era quasi l’ora di cena. Tre sms e due
telefonate di Eamon, non potevo più fare finta di nulla.
Raccolsi il fiato, raccolsi il coraggio e mi alzai, anche se tornare in
quella casa era in quel momento l’ultimo dei miei desideri.
Quando parcheggiai nel
vialetto principale, notai che nello spiazzo davanti
all’entrata, tra le altre macchine che riconoscevo, ce
n’era una a cui non sapevo associare alcun proprietario.
Passandole accanto, lanciai un’occhiata all’interno
e, credendo d’aver visto male, mi avvicinai. E invece nessun
errore, nel suo seggiolino apposito riconobbi la sagoma di Henry che
dormiva tranquillo. Aggrottai le sopracciglia, confuso, e proprio in
quell’istante sentii il rumore della porta
d’ingresso che si chiudeva. Mi voltai e la vidi scendere i
gradini, stringendo sotto al braccio sinistro un grande pupazzo beige
che somigliava a un orso.
- Che ci fai
tu qui? –
Alicja, nei suoi
soliti shorts e camicia larga, si fermò sul penultimo
scalino, alzando lo sguardo, evidentemente presa alla sprovvista.
- Oh,
Jared… - sibilò, spostandosi un ciuffo biondo
dagli occhi.
- Perché
sei qui? – continuai imperterrito mentre la raggiungevo e
salivo alla sua altezza – Non era previsto nessun incontro
oggi. –
- Che vuoi
saperne tu di cosa è previsto? –
proferì bruscamente
Mantieni la calma. Pensa a
Henry. Pensa a Henry. Pensa al bene di Henry e stai zitto.
- Beh,
è stato un piacere vederti. – mi
squadrò velocemente dall’alto in basso –
Ti trovo in forma, come sempre. –
Fece qualche passo
verso la propria auto, poi rallentò e si fermò di
nuovo. Ebbi l’impressione di sentirla ridere. Si
girò verso di me, l’espressione effettivamente
divertita.
- Sai qual
è la cosa più esilarante in tutto questo?
– un filo di sarcasmo nel suo accento ancora marcatamente
dell’est – Che lui non era in grado di stare con
me, non avrebbe potuto stare con nessuno, perché non era
capace di dimenticarsi di
te. “Non riesco a togliermelo dalla
testa” ha avuto il coraggio di dirmi! –
scrollò le spalle, come incredula – E guardalo
adesso… è già tanto se si ricorda il
tuo nome. – ad un tratto si fece seria,
assottigliò gli occhi e riprese col suo tipico tono freddo
– Tu lo chiamerai karma, io provvidenza. Sta di fatto che
gira. –
Aumentò la
stretta intorno al peluche, mi diede le spalle e raggiunse lo sportello
dell’auto. Prima di entrare tornò brevemente a
guardarmi e concluse, criptica:
- Sembra
proprio che stia girando. –
Nell’arco di
un secondo se n’era andata, la polvere della ghiaia sollevata
dalle ruote ballava lentamente nell’aria.
Ed io me n’ero rimasto lì, in silenzio, a subire
le cattiverie di quella megera, talmente stremato da non trovare
nemmeno le parole per ribattere. Cosa avrei potuto ribattere, comunque?
Fissai a lungo il portone, mordicchiando nervosamente
l’unghia del dito indice. Non ce la facevo, quel giorno era
stato veramente troppo. Me ne tornai sconsolato alla macchina e misi in
moto per andarmene.
È proprio vero, se il buongiorno si vede dal mattino e il
mattino comincia di merda, ti aspetta una giornata di merda.
Partii, realizzando che in tutto quel casino non ero riuscito a vedere
Colin nemmeno una volta. Ma del resto, dubitavo che avrebbe sentito la
mia mancanza.
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