Fanfic su attori > Coppia Farrell/Leto
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Autore: kalina    17/05/2013    9 recensioni
"Smisi di dondolare la gamba nell’acqua e sistemai meglio le braccia conserte dietro la testa, chiudendo gli occhi. Dio, ancora non ci credevo. Avevamo deciso di prendere in mano le nostre vite, di finirla di nasconderci dietro a futili pretesti e cominciare a goderci ciò che indubbiamente, dopo tanti anni e tante sofferenze, meritavamo. "
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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jjj Buonasera!!!
Ho fatto del mio meglio per aggiornare con rapidità, come promesso!
Ringrazio tutte coloro che hanno lasciato un commento al capitolo precedente, tutte coloro che seguono o comunque leggono questa storia :)
Grazie davvero, di cuore.
Con questa 12ima parte ho interrotto un po' l'andamento classico mantenuto ultimamente, ma spero che si farà apprezzare lo stesso!
Attendo il vostro parere, come al solito, anche per essere brontolata, nel caso! ;)
Un bacio e buona lettura<3






Deve essere già mattina.

Percepisco fastidiosamente la luce del sole sul volto.
Non aprirò gli occhi per niente al mondo.
Cos’è questo rumore?
Ah, Colin. Russa.
Mi sa che si è rigirato a pancia in su.
Allungo il braccio e, a tastoni, lo cerco.
Eccolo. Non era poi tanto lontano.
La spalla, l’avambraccio, l’interno del gomito…
Lo scuoto appena. Smette.
Sai che? Mi voglio rannicchiare vicino a lui, così magari riprendo sonno.
Perfetto. Il suo profilo mi ripara anche dal sole.
Buono questo profumo.
Già, il nuovo shampoo che ha aperto ieri sera.
Mi devo ricordare dove l’ho comprato.
Che succede?
Lo sento che si muove. Cambia posizione.
Silenzio.
Si sposta, di nuovo.
Un bacio sul collo.
- Sei sveglio? –
Non rispondo.
Un altro, sotto l’orecchio.
Il respiro, caldo.
La voce roca, impastata. - Lo so che sei sveglio… -
Un morso, debole, sul lobo.
- Non è vero!  -
Apro gli occhi.
Sorrido. Sorride.
Reclama le mie labbra, subito, e lo assecondo.
Allaccio le braccia intorno al suo collo e mi stringo a lui.
- Mi sembri abbastanza sveglio… -
Rido, sulla sua bocca.
Torna a sdraiarsi in posizione supina, tirandomi su di sé.
Le mani. Lungo la mia schiena, sotto la maglietta.
Scendo sotto al suo mento.
Una scia bagnata, attraverso la giugulare, fremente. Fino alla clavicola.
Un sospiro. Due, tre gemiti.
Ma voglio le sue labbra, ancora.
- Jared? –
- Mmm? – gli morsico l’angolo della mandibola, piano.
- Jared? –
Sto arrivando.
- Jared..? Jared?! –
Un tocco sulla spalla.
Ma cos’è?
- Jared!
Mi tirai su all’improvviso, il fiato spezzato in gola. Un sacco di bianco, un sacco di luce. Claudine.
- Jared, ehi? Tutto a posto? – Claudine mi stava di fianco, l’espressione corrucciata.
Mi guardai rapidamente intorno. Le sedie, il tavolino, la poltrona, il letto… Claudine…
- Cazzo..! – mi presi il volto tra le mani.
Mi trovavo in ospedale. Colin aveva avuto l’incidente, aveva perso la memoria, io ero rimasto lì per la notte.
Cazzo, cazzo, cazzo.

- Ehi, sei sicuro di stare bene? – Claudine si avvicinò, poggiandomi una mano sulla schiena sudata.
Ero completamente sudato, mi resi conto.
- Sì, sì, sto bene, grazie. Solo...non… non ricordavo dove fossi, tutto qui – mi sforzai di sorriderle. Mi voltai subito verso il letto, alla mia sinistra, vuoto – Dov’è Colin? –
- L’hanno portato giù nella palestrina cinque minuti fa, per mostrargli alcuni esercizi che dovrà fare a casa nei prossimi giorni. –
- E perché nessuno mi ha svegliato? – mi accigliai
- Non ti sei accorto di nulla, parevi un ghiro..! – alzò le spalle lei – Colin stesso ha detto alle infermiere di fare piano, per non disturbarti. –
Ecco, bella immagine. Almeno fa che non mi sia esibito in qualche palese mugolio.
- Comunque ho pensato che avresti voluto che ti chiamassi… Così magari facciamo colazione insieme. Mia madre è qui fuori al telefono con Catherine, la vado a chiamare, ok? –
- Ottima idea. – annuii, strofinandomi gli occhi con il dorso delle mani – Mi do una sciacquata e sono pronto. –
Come districai le gambe dalla fine coperta bianca con cui avevo dormito e le appoggiai per terra, Claudine spalancò gli occhi, sbigottita, per poi voltarsi fulminea verso la finestra, le mani a coprirsi la bocca. Abbassai lo sguardo su me stesso, confuso, in cerca di qualcosa di sconvolgente che le avesse potuto provocare quella reazione.
Ed eccolo lì, un enorme, evidente gonfiore al cavallo dei pantaloni.

Che figura di merda.
- Forse è meglio se io e la mamma ti aspettiamo direttamente alle macchinette, in fondo al corridoio… - mormorò, ancora rivolta altrove, dopo aver leggermente tossito.
- Forse è meglio, sì… -
Claudine mi lanciò una rapida, imbarazzatissima occhiata e si diresse a passo svelto alla porta. Io scesi dal letto, sconsolato, ed entrai in bagno.
Se il buongiorno si vede dal mattino…


Il caffè era bollente. Mentre ascoltavo Rita e Claudine disquisire sugli ultimi dettagli prima della dimissione, ne buttai giù un sorso troppo velocemente e mi sentii bruciare la gola.
Mi chiesero come fosse trascorsa la notte ed io feci loro un breve riassunto, evitando di scendere nei particolari, evitando di specificare che mi ero comportato come un adolescente alla prima cotta.
Un bacio. Non potevo ancora credere di aver coscientemente fatto una cosa del genere. Se si fosse svegliato, il minimo che mi sarei beccato sarebbe stato un cazzotto.
Ma no, figurarsi se potevo resistere.
Poi ti lamenti se fai sogni di quel genere. Scellerato.
Le zona distributori automatici era davvero troppo affollata a quell’ora del mattino, così, finiti i nostri caffè, tornammo subito verso la stanza. Ad attenderci, scribacchiando su una cartella, trovammo il dottor Ross.

- Buongiorno! – ci accolse frizzante  – Oggi è il gran giorno, ve lo rimandiamo a casa! –
- Siamo molto contenti! – sorrise Rita.
Lanciai un’occhiata furtiva verso Claudine per capire dal suo atteggiamento se ci fossero stati dei risvolti con il suo affascinante chirurgo, ma pareva disinvolta.
- Quando, precisamente, ce lo restituite? – scherzò.
Il dottore sbirciò l’orologio alla parete e fece qualche rapido calcolo mentale.
- Subito dopo il pranzo, direi. Così riusciamo a fargli le ultime analisi del sangue, a mostrargli gli esercizi che dovrà replicare nei prossimi giorni ed anche a mandargli il dottor Kleeman  per la seduta quotidiana. –
- Mi scusi, ma da domani le interromperà, queste sedute? – domandai, preoccupandomi del fatto che nessuno accennasse al persistente e non esattamente trascurabile problema di Colin. Non potevano mollarlo proprio nel momento in cui qualcosa cominciava a smuoversi, almeno a livello irrazionale.
- No, certo che no! Infatti, proprio di questo vorrei parlarvi, di come dovranno essere affrontati i prossimi giorni. Se avete un istante… -
- Certamente. – rispose Rita.
Il dottor Ross ci sorrise cordialmente, diede un ultimo sguardo alla cartella che aveva in mano e la posò sul letto.
Intanto feci un passo verso Claudine, alla mia sinistra, e le sussurrai :- Forse dovrei lasciarvi so-
- Non fare l’idiota. – mi zittì, brusca.
Non fiatai nemmeno e me ne rimasi lì accanto a lei, buono e fermo, un lieve sorriso che mi trapelava sulle labbra. Poteva essere acida, Claudine, quando voleva. Ma significava che avevi saputo in qualche modo conquistare la sua stima e la sua confidenza.
- Colin si sta ristabilendo molto bene, ha un fisico robusto e  forte. – cominciò il dottore - L’emorragia si è completamente riassorbita e i parametri clinici sono tutti ottimali. Questo non vuol dire, però, che potrà riprendere immediatamente la sua vita di prima. Sarà opportuno che eviti particolari sforzi fisici, quindi niente sport, niente palestra, niente jogging, niente sollevamento di oggetti pesanti ecc. – continuò, tappando la penna che aveva in mano ed infilandola nel taschino del camice - Dovrà seguire un’alimentazione sana e leggera, che noi stessi abbiamo indicato in un programma che vi sarà consegnato insieme agli altri documenti. Gli farebbe bene invece stare un po’ all’aria aperta, possibilmente non nelle ore di punta, non in luoghi affollati e confusionari, dove potrebbe cadere, essere spinto, venire infastidito da luci e rumori troppo acuti. Ah, e niente sabbia, terreni granulosi, posti polverosi perché, per quanto fasciata, la ferita non è ancora perfettamente rimarginata ed è preferibile non incorrere in eventuali infezioni. Tutto questo per un paio di settimane, dopodiché lo richiameremo in ospedale per una tac e, se andrà come deve andare, potrà tornare pian piano alle sue abitudini. L’ultimo e definitivo controllo lo faremo tra un mese. –
- Non sembra troppo complicato… - rifletté Claudine, rivolta a me e sua madre – l’unica difficoltà sarà quella di tenerlo a stecchetto con il cibo, temo! –
- M’inventerò qualcosa di saporito con gli ingredienti a disposizione… - disse Rita, con la sua solita dolcezza.
- Non dubito che ci riuscirà, le mamme creano arte, in queste cose! – esclamò il dottor Ross, per poi assumere un’espressione più seria. – Per quanto riguarda l’amnesia, purtroppo, come avrete avuto modo di constatare anche da soli, non ci sono stati miglioramenti. Il fatto è che più passano i giorni più si assottigliano le speranze di un recupero completo. Ma c’è ancora tempo, ci sono numerosi casi in cui… -sìsì, certo, casi, statistiche, miracoli…Non voglio nemmeno ascoltarle queste puttanate. Mi fa imbestialire che ne parlino come se a Colin mancasse un dito. Gli mancano i suoi fottuti ricordi, i suoi figli…io, cazzo. - … quindi non è il momento di arrendersi. Il dottor Kleeman è uno dei migliori specialisti della città e si recherà personalmente a casa del signor Farrell ogni giorno, per i prossimi sette giorni. Poi le sedute continueranno a giorni alterni qui in ospedale per un’altra settimana e poi –
- E poi magari non serviranno più perché si sarà ricordato di tutto, no? – intervenne Claudine, speranzosa, voltandosi infine verso di me, cercando una conferma e allo stesso tempo offrendo una rassicurazione. – Altrimenti cercheremo lo psicologo più rinomato del mondo, adotteremo le tecniche più avanzate, – seguitò, concitata, passando un braccio intorno al mio e rivolgendosi al medico - ma ne verremo a capo. –
Il dottor Ross, rabbuiatosi, annuì gentilmente.
- Me lo auguro con tutto il cuore. – rimanemmo tutti in silenzio per qualche secondo, Claudine ancora appoggiata a me – Nel frattempo potete continuare a stimolarlo, al di là dell’ora canonica con il dottor Kleeman. Potete raccontargli episodi significativi, aneddoti divertenti, mostrargli fotografie, filmati, proporgli canzoni, melodie, riavvicinarlo alle persone per lui più importanti. Sempre cercando di non esagerare, però, valutando attentamente ogni mossa. Anche se a prima vista può non sembrare, si trova in una condizione stressante e delicata, ogni nuova informazione potrebbe essere acquisita come un trauma, un dettaglio per voi insignificante potrebbe rivelarsi uno shock. Se dovesse avere disturbi dell’umore, oscillare tra stati depressivi, euforici, rabbiosi, lasciatelo riposare, non aggiungete altro. – ci passò in rassegna tutti e tre, facendo scivolare le pupille da un estremo all’altro, poi sospirò.
- Tutto tornerà a posto da sé. –

Lo ringraziammo e lui si congedò, Claudine che lo seguiva con lo sguardo fin oltre la porta.
- Aspettiamo che Colin torni su? – propose
- Io raccoglierei un po’ di cose, sistemerei in giro, così dopo siamo pronti. – replicò Rita
- Datemi un secondo, faccio una telefonata e vi do una mano! – dissi loro, tirando fuori il blackberry dalla tasca dei jeans.
Uscii in corridoio e cercai nella rubrica il numero di Shannon. Sembra assurdo che non lo conosca a memoria, me ne rendo conto, ma il fatto è che devo sempre tenere a mente una quantità così sproporzionata di informazioni che, quando posso, non esito a delegarle. E il mio BB, del resto, non è che un prolungamento esterno della mia scatola cranica, mi fido di lui come di me stesso.
Non feci neanche in tempo a far partire la telefonata che

- Jared? – sentii chiamare piano.
Mi voltai ed incrociai gli occhi di Rita, che si chiudeva alle spalle la porta della stanza. Le andai incontro, la fronte corrugata in un’espressione di  incertezza.
- Scusami se ti disturbo, ma… Ecco, voi avete deciso di prendere questa strada… tu ed Eamon, insomma… io non so cosa sia giusto, certamente tu conosci il modo migliore per gestire questa situazione… - rimasi ad ascoltarla, confuso, non riuscendo a capire quale fosse il problema, mentre lei cercava di spiegarsi, esprimendo un palese disagio – Ma se ancora pensi di non dire niente, a Colin, di voi due… A casa ci sono molte cose tue, cose vostre, in giro… Sono entrata in camera sua, ieri sera, per aprire un po’, cambiare il letto, e ho notato che ci sono diverse… cose… sì, che gli farebbero intuire qualcosa, ecco. – sperai vivamente che la stanza non si presentasse come l’ultima volta che l’avevo lasciata io perché non avrei mai più avuto il coraggio di farmi guardare in faccia da sua madre – Non sto dicendo che tu, anzi io ti appoggerò qualsiasi decisione prenderai, ma se vuoi continuare a non dirgli la verità, credo sarebbe meglio che…non so…che non le vedesse… Però non penso sia affar mio o di nessun altro entrarci in mezzo, spostarle…Se vuoi, ecco, se è questo che vuoi veramente, Jared, magari puoi occupartene tu, di sicuro saprai molto meglio dove e cosa cercare… - concluse.
Rimasi in silenzio per alcuni istanti, non sapendo davvero cosa dire. Non ci avevo proprio pensato a quest’inconveniente. Mi dispiaceva per Rita, la vedevo sinceramente imbarazzata e mortificata, come se temesse di farmi in qualche modo un torto. Aveva ragione, soprattutto nell’ultimo annetto avevo lasciato da Colin tanta roba e poi c’erano le foto sparse un po’ ovunque, centinai di aggeggi che Colin conservava per ricordo, addirittura degli scritti, una sorta di diari che sapevo ogni tanto teneva. Ed ero io l’unico che effettivamente poteva scovare tutte queste cose.
Già sapevo che non avrei dovuto farlo, già sapevo che me ne sarei pentito, ma già sapevo che non avrei potuto dire di no.

- Ha fatto bene a dirmelo, - le sorrisi, seppur un po’ stentatamente – non può rimanere tutto così. Passo subito da lì, ci penso io. –
Rita mi guardò, afflitta, e mi strinse a sé, cogliendomi un po’ di sorpresa.
- D’accordo, però fai attenzione… -
- Sicuramente. – risposi, sebbene non fossi certo di aver capito a che cosa.


- Porca miseria, Jared! Ma che hai in testa?! – gridò Shannon all’ennesima inchiodata, attaccandosi con entrambe le mani alla maniglia del passeggero.
- Non è successo niente, mi sono fermato in tempo! –

- E’ la terza vecchietta che non metti sotto per una manciata di centimetri negli ultimi dieci minuti! - continuò lui con fare frenetico – Per non parlare del barboncino! I barboncini sono incredibilmente intelligenti, augurati che non si sia segnato il numero di targa… -

- Il barboncino?! – domandai perplesso, inserendo la prima per ripartire.
- Il barboncino, sì..! Non capisco perché non posso guidare io… -

- Te l’ho già spiegato, devo tenermi occupato.  Se rifletto troppo su quello che devo fare, finisce che cambio idea e mi do alla fuga… -
- Vedi di riflettere sul fatto che stai guidando, almeno. – brontolò, staccandosi finalmente dalla maniglia – Che poi non credo di aver ben chiaro cosa dobbiamo fare, esattamente, a casa di Machoman. –
Gli lanciai la mia occhiata “Fammi il piacere”: - Tu non devi fare niente, io me la sbrigherò in pochi minuti. Hai preso le chiavi che ti avevo chiesto? – Silenzio – Shannon? Hai preso le chiavi? –
- Dovrebbero essere in una delle 395 scatole che mi hai detto di portare. – rispose con nonchalance, lo sguardo sulla strada – Non sapevo nemmeno che avessi le sue chiavi di casa. –
- Ma se sono anni che me le ha date, ormai… - mi lamentai.  
- Non ti ricordi il drammatico falò di qualche anno fa..? Pensavo ci avessi buttato anche quelle. –
Lo guardai di sbieco. Era più attento di quel che credessi, il mio fratellone.
- Mmm, sì… Ma me ne ha data una nuova copia l’anno scorso. – tirai corto, svoltando a sinistra per imboccare la lunga via tortuosa che conduceva alla villa di Colin, quella dell’incidente, per intendersi.
- Oh, ma che ragazzo delizioso! Quasi quasi te lo rubo..! – disse, imitando la voce stucchevole delle teen-ager da telefilm medio.
- Cretino! – allungai il braccio destro per tirargli un pugno sulla spalla.
- Tieni le mani sul volante, cazzone! – imprecò, tenendosi ben stretto alla cintura di sicurezza. – Domenica torna la mamma. –
- Lo so. –
- Non le hai ancora detto la verità su Colin. –
- Non volevo allarmarla inutilmente. -  spiegai, cambiando la marcia per l’ultimo tratto di strada rimasto.
- Paura, eh? – sghignazzò divertito.
Mi girai verso di lui, le sopracciglia aggrottate: - Paura di che?! –
- Vedrai, Jay, non si arrabbierà. - stabilì serafico – Non si è arrabbiata la prima volta che ti ha spezzato il cuore, non si è arrabbiata quando è venuto fuori che era un cocainomane alcolizzato, non si è arrabbiata quando ti ha spezzato il cuore la seconda volta, né la terza e neppure quando ha fatto un figlio e messo su famiglia con un’altra! Perché dovrebbe arrabbiarsi ora che, per aver battuto la testa, ti ha direttamente cancellato dalla sua vita?! -
Lo guardai allibito, senza rispondergli niente. Poi superai il cancello d’ingresso all’abitazione, con il telecomando automatico che ormai tenevo sempre in macchina.
- Per me dovresti fare come me e la mamma, prenderla con filosofia, invece di continuare a mettere il muso… - pontificò Shannon, togliendosi la cintura mentre io facevo manovra per parcheggiare.
- Ma se tu ti arrabbi come un matto ogni singola volta che mi lascio sfuggire che ho qualche problema con Colin? –
- Arrabbiarsi è sempre meglio che piagnucolare in buddista, come fai tu… - decretò, sollevando limpidamente le sopracciglia ed aprendo lo sportello.
- Io non piagnucolo in buddista! – ribattei ad alta voce, oramai rimasto solo nell’abitacolo - E poi il buddismo è una religione, anzi, - scesi di macchina e lo raggiunsi al portabagagli – uno stile di vita! Nessuno può piangere in uno stile di vita… - Shannon scaricava e ammucchiava da un lato le varie scatole di cartone in cui intendevo riporre i miei effetti personali – Al massimo potrei piagnucolare in hindi, in mandarino, persino in tibetano! Ma in buddista non ha senso… -
Mio fratello chiuse con un sospiro il portellone e si chinò per sollevare una pila di scatoloni.
- Dio, Jared, a volte mi piacerebbe poterti spegnere, come si fa con quelle fastidiose radioline portatili che ronzano in continuazione… - mi passò le scatole rimanenti e mi precedette verso l’ingresso.
- Shan, le chiavi? – gli urlai dietro
Me le lanciò senza nemmeno voltarsi e, nell’afferrarle, mi caddero di mano tutti gli scatoloni. Sbuffai e mi piegai per raccoglierli.
- Ma non c’è nessuno in casa? – lo sentii domandare
- No, sono tutti in ospedale. – gli risposi, raggiungendolo.
Quand’ero venuto via, poco dopo aver parlato con Rita, Eamon aveva già chiamato per avvisare che lui e il padre sarebbero arrivati a breve. Non avevo nemmeno aspettato Colin per salutarlo, volevo togliermi il pensiero immediatamente.
Diedi un’occhiata veloce a mio fratello, che allungava il collo ai lati delle scatole per sbirciare l’ambiente circostante. Mi chiedevo come facesse a procedere senza inciampare, dato che la pila lo superava di parecchi centimetri. Ma si sa, lui può fare qualunque cosa.

- Eccoci qua! – dissi, una volta al portone, tentando di aprire senza far di nuovo cadere tutto.
Ci riuscii. Lasciai passare Shannon, che appoggiò subito gli scatoloni sul pavimento, ed entrai dietro di lui.
- Ehi, guarda che c’è un allarme qui. – mi indicò il piccolo schermo dai tasti illuminati, sulla parete vicina all’entrata.
- Sì, lo so, lo so…ora lo spengo prima che parta. –
- Wow, ti ha dato anche il suo codice per l’allarme? – mi chiese stupito, mentre digitavo i numeri giusti.
- Si supponeva che io venissi a vivere qui, ti ricordi? –
- Ah. Già. – rimase a fissarmi imbambolato.
- Comunque, - afferrai due grandi scatole e mi avviai oltre il salone – io comincio a fare il giro dal piano di sopra…Tu… Beh, tu… - mio fratello si guardava intorno, incuriosito – Puoi stenderti qua sul divano e dormire un po’ se vuoi, è ancora presto per i tuoi standard. Oppure posso accompagnarti  in una delle camere degli ospiti… -
- No, mi sono svegliato ormai. –
- Allora puoi, che so, farti un panino… La cucina è di là. – gli feci un gesto con la mano, che lui seguì con lo sguardo – Poi magari ti metti qui a vedere la tv. –
Attesi che decidesse, mentre continuava ad osservare tutto.
All’improvviso mi resi conto di star vivendo un momento alquanto surreale. Shannon a casa di Colin. Shannon che studiava ogni particolare, i suoi grandi occhi ridotti a fessure, attente, indagatrici, le orecchie tese, le narici attive, ogni senso allertato nel captare le tracce della sua preda.
In circostanze come questa riuscivo a comprendere perché Colin provasse un sano terrore nei confronti di mio fratello.

- Non è che ha la Play Station, l’XBox, qualcosa? – se ne venne fuori, finalmente.
- Oh, ma certo! Bella idea, vieni! – gli accennai di seguirmi, ma poi mi bloccai subito – Ah, ma aspetta… ha solo giochi per bambini. E l’unico per adulti è sul calcio. –
Shannon alzò gli occhi al cielo: - Mai che ne facesse una buona! Sai che? mi cerco davvero qualcosa nel frigo e me la mangio qui, facendo un po’ di zapping… – si voltò verso il televisore, di fronte al divano in pelle grigia – Lo schermo almeno sembra decente. – ammiccò.
Sorrisi, soddisfatto di averlo sistemato.
- Perfetto! Tanto io ci metterò molto poco, non preoccuparti. – strinsi la presa sugli scatoloni e mi diressi verso le scale – Ah, se ti stendi sul divano, magari togliti le scarpe! – gridai
- Non ci penso nemmeno! – replicò, già diretto verso la cucina.
Risi fra me, scuotendo il capo. Figurarsi.

Il piano superiore era costituito quasi interamente da camere. La camera da letto di Colin, che avevo deciso di lasciarmi per ultima, le camere dei bambini, numerose camere degli ospiti, un paio delle quali assolvevano anche alla funzione di studio e libreria. Diverse, al momento, erano occupate dai familiari di Colin e non mi sembrò opportuno entrare e rovistarvi in giro. Ma sapevo anche che erano ambienti sgombri da ogni mia presenza, arredati in maniera piuttosto neutrale, al massimo qualche vecchia foto di famiglia in bianco e nero.
Mi affacciai alle due camerette, dando un rapido sguardo d’insieme, ma anche in quelle mi parve irrilevante approfondire la ricerca. C’era certamente, fra i vari giochi, qualcuno regalato da me, riposto nelle ceste, negli armadi o sparso qua e là, ma non c’era mica inciso sopra il mio nome. Dal soffitto della stanza di Henry, che alla fine dell’estate precedente io e Colin, personalmente, avevamo ritinteggiato in tonalità gialle e arancioni, pendeva un grande aeroplanino in legno che gli avevo portato dalla Francia e, dall’angolo vicino alla finestra, spuntava il collo lungo del dinosauro che gli avevo comprato per Natale.
Stavo chiudendo la porta della camera di James, quando mi cadde l’occhio sulla parete piena di foto, di fronte al letto. Colin l’aveva realizzata per ricordare al bambino i volti delle persone più importanti. Con Jim, infatti, la memoria visiva era molto più efficace di ogni racconto, lettera, telefonata. E così, ogni sera, quando passava la notte lì, Colin, prima di dormire, gli mostrava le foto di tutti gli zii, i nonni, i parenti più stretti che non poteva vedere spesso, così che non li dimenticasse mai. Una delle cornici centrali racchiudeva un’immagine di me col bambino, scattata verso la fine del 2007. Lasciai le scatole nel corridoio e mi avvicinai alla parete. Eravamo sul bordo della piscina, nel giardino al piano di sotto, io lo tenevo in braccio e ridevamo, tutti e due, l’acqua e ed una ciambella a forma di paperotto sullo sfondo. Adoravo quella foto, ed anche Colin. La teneva appesa lì da anni, aveva resistito persino al malefico passaggio di Alicja. Mi chiesi se fosse davvero necessario rimuoverla, in fondo non vi era niente di esplicitamente compromettente. Però, passando velocemente in rassegna le altre foto, dovetti ammettere che ritraevano solo e unicamente membri stretti della famiglia, così, mio malgrado, sfilai la cornice dal chiodo e la poggiai nella scatola. Avrei fatto dire a Colin che il buco sulla parete era riempito da una foto che s’era rotta. Mi richiusi la porta alle spalle e mi avviai verso la parte opposta del piano, il primo trofeo già riscosso.
Da quel lato erano rimaste solo due stanze. La prima in cui entrai era un ambiente enorme, con un’immensa libreria sul fondo, stracolma di libri, vecchi dischi, album di foto, copioni di film ormai girati. Un impianto tv, un ottimo impianto stereo, due divani e un tavolo da biliardo. Non era una stanza che frequentassi molto, ma un giretto di controllo lo feci. Aprii qualche anta, qualche cassetto, passai fra i libri abbandonati in un angolo, ma in effetti era come cercare un ago in un pagliaio. Colin poteva aver annotato qualcosa, scordato qualcosa riguardante me ovunque. Potevo rintracciare solo ciò che io avevo lasciato per caso o di proposito. Uscii con un blocchetto di appunti di mia calligrafia, un romanzo di Wells con su scritto tre volte Jared, abitudine che avevo dovuto prendere per evitare che Colin si appropriasse indebitamente dei miei libri, “incidente” ripetutosi di frequente, e un paio di pantaloni neri rimasti sul divano da più di dieci giorni, evidentemente troppo stretti per passare per suoi.
L’ultima stanza rimasi a guardarla un attimo da fuori. Era un vano di dimensioni non eccessive, completamente spoglio, se non per un tavolino rotondo con una lampadina e una poltrona reclinabile. Colin ci si rifugiava unicamente per studiare i copioni, ripetere le parti, prepararsi, insomma, per il lavoro. Ci ero entrato giusto poche volte per risentirgli qualche battuta e non vi era assolutamente nulla di mio. Anzi, non vi era nulla e basta, nemmeno un foglio appoggiato da qualche parte.
Prima di scendere le scale riflettei se controllare anche i bagni, ma decisi di lasciar correre; tenevo le mie cose solo in quello della camera padronale e ci sarei passato dopo.
Al piano terra cominciai dalla stanza che sapevo avrebbe riempito le mie scatole. Era un ambiente piuttosto spazioso e luminosissimo, con le porte finestre che davano sulla parte di giardino in cui non andava quasi mai nessuno. In un arredamento moderno e semplicistico, che Colin mi aveva lasciato scegliere a mio piacimento, tenevo un pianoforte bianco a muro, quello a coda si trovava in sala, due chitarre, quaderni con testi e note buttati là, scarabocchi, tomi sulla storia della musica, dvd e cd musicali, cuffie, cavi, una quantità sconfinata di accessori con lo stemma della band, un computer fisso, un giradischi con megafono e uno stereo di ultima generazione con casse potentissime. Tutto organizzato nel mio caotico ordine. Portai via tutto quello che potevo, allacciandomi la chitarra elettrica al collo e trascinando gli scatoloni fino al salotto. Cercai di attutire al meglio il rumore quando, quasi arrivato alla meta, trovai mio fratello addormentato davanti al televisore, abbracciato ad un cartone di succo di frutta, qualche fazzoletto scivolato sul pavimento e la maglia ricoperta di briciole.
Poveretto, erano giorni che per star dietro a me si alzava all’alba e aveva scombussolato tutti i suoi ritmi biologici. Abbassai il volume della tv, sistemai all’uscita le scatole stracolme e tornai indietro con altre due vuote.
Dal lato opposto del corridoio rispetto alla mia sala-musica c’era la stanza-giochi dei bimbi. Realizzai solo in quel momento che ero stato relegato nella zona “passatempo per piccini”. Quante volte te l’ho detto, Colin, che quando suono non sto giocando?!
Mi affacciai, ma tra tricicli, pattini, skateboards, pupazzi, puzzle lasciati sul pavimento, palloni e altre migliaia di aggeggi, non mi parve di dover togliere niente.
Subito accanto si trovava una sorta di salottino che veniva utilizzato esclusivamente per la proiezione di film. La parete di fondo era completamente riempita con uno schermo gigante ad altissima risoluzione e non v’era altro arredamento che un’elegante scaffalatura contenente moltissimi dvd e qualche vecchia videocassetta di cui Colin non voleva sbarazzarsi, un divano a sei posti, comodissimo, e una lampada in stile moderno. L’impianto audio collegato al televisore era una bomba. L’avevo preso pochi mesi prima nello stesso posto in cui avevo acquistato alcune casse di nuova generazione per il Lab e ne ero profondamente orgoglioso. Certo, quando riproduceva i suoni de “I Puffi” non era sfruttato al massimo, ma con qualche film ci aveva dato grandi soddisfazioni. Come con la versione rimasterizzata di Star Wars che avevamo visto il week end precedente. Quello mi fece considerare che forse era il caso di frugare un po’ tra i cuscini del divano e, difatti, incastrato tra un bracciolo e l’imbottitura laterale, scovai uno dei miei inconfondibili calzini a righe. Ecco, menomale. Non presi nient’altro se non il cofanetto de “Il Padrino” che Colin aveva caparbiamente preteso di avermi restituito.
Di fronte, anch’essa provvista di grandi portefinestre sul giardino, era stata arrangiata una sorta di palestra, con qualche macchinario per gli esercizi fisici, alcune corde appese a delle spalliere,  dei tappetini per lo yoga, un calcetto balilla e l’immancabile stereo, su cui notai essere appoggiata la custodia vuota dell’ultimo cd di Barbra Streisand; mi augurai che fosse stata Claudine l’ultima ad allenarsi là dentro. Ogni tanto ci facevo un salto anch’io, ma non mi sembrava di vedere niente di strano. Controllai velocemente anche il bagnetto comunicante e portai via solo il mio bagnoschiuma personale, dato che mi rifiutavo di lavarmi col muschio d’Irlanda che usava Colin, che ti faceva puzzare più di quando eri sudato.
Saltai direttamente il ripostiglio e tutti i bagni, controllai nella stanza del bucato che non ci fosse, tra i panni da lavare o da stirare, alcuno dei miei ed entrai nell’ultimo locale prima della cucina, la sala da pranzo.
Era molto, molto ampia, con due grandi vetrine in mogano piene di piatti e argenterie sulle due pareti corte. Al centro un lungo tavolo in cristallo che poteva essere ulteriormente esteso se il numero dei commensali lo richiedeva. Non veniva utilizzata di frequente, se non quando Colin riceveva ospiti importanti o troppi amici e parenti per stare comodi in cucina. Pensavo che non avrei trovato niente di mio, lì, ma poi mi accorsi della macchina fotografica dimenticata sul mobiletto vicino alla porta. La tiravo fuori, a volte, quando c’erano i bambini o qualche occasione particolare per fare delle foto. L’accesi e passai in rassegna le ultime che avevo fatto e decisi che era meglio toglierla di mezzo. Di nuovo, niente di esplicito, ma tutto troppo intimo e familiare.
Dalla vetrata della sala da pranzo uscii direttamente nel giardino e feci due passi verso la piscina. Il sole picchiava già forte e l’aria era incredibilmente afosa. Controllai l’ora sul BB: 10.25. Avevo ancora un po’ di tempo. La superficie dell’acqua era piattissima; mi chinai per bagnarmi una mano e sfregarla con l’altra. Lanciai un’occhiata generale in giro, curiosai persino dentro la casetta in legno dove erano conservati i gonfiabili dei bambini, alcuni cambi di costume e ciabatte antiscivolo e me ne tornai dentro.
La cucina era piuttosto essenziale e funzionale. Moderna, con una penisola al centro ed un enorme frigo metallizzato a due ante. Mai sia che Colin Farrell resti senza cibo. Lo aprii e rimasi a godere per qualche secondo della beata ondata di fresco. Si vedeva che da una settimana la casa era stata invasa dalla sua famiglia, tutti gli alimenti sani e naturali che mi sforzavo di fargli mangiare erano stati sostituiti da quelle che la gente comune definirebbe appetitose leccornie. In pratica letali schifezze, veleni per lo stomaco. C’era ancora, nel ripiano laterale, una bottiglia di vetro con l’infuso di erbe che aveva finalmente preso l’abitudine di bere dopo cena. Sorrisi, come un ebete. Si era preso gioco di me per anni, delle mie abitudini salutiste, della mia alimentazione restrittiva. Mi perdevo il meglio della vita, diceva. Ma da quando eravamo tornati insieme aveva filato dritto come un fuso. Sceglieva prodotti biologici, buttava giù qualsiasi tipo di tè, tisane, miscugli vegetali che gli compravo, praticava lo yoga… Che cavolo, me l’ero meritato, almeno questo.
E ora, Jared? Che hai,
ora?
Mi scrollai velocemente, rimettendomi in moto. Lasciai tutto com’era, anche i pochi resti dei miei piatti, tranne due yogurt di soia con una J blu sul tappo che Colin contrassegnava per non confonderli coi suoi. Cercai di fare mente locale su possibili punti da controllare, appoggiato con la schiena all’acquaio. La penisola. Un paio di mesi prima avevo comprato delle fragole, un sacco di fragole. Le avevamo messe in due coppe giganti, riempite di panna. Poi la panna era scivolata e io l’avevo raccolta con un dito, portandomelo alla bocca per pulirlo. Allora Colin… la penisola… le fragole e la panna, sulla penisola.
Mi scossi, di nuovo. Così non poteva andare. Concentrati, Jared, concentrati… Ah, ecco, la tazza! Il dicembre passato, per il mio quarantesimo compleanno, James, più che altro Kim, mi aveva regalato una tazzona da colazione rossa che tenevo lì, così poteva vedermi sempre quando la usavo. Aprii uno sportello, niente, ne aprii un altro. Eccola là! La presi, girandomela tra le mani. “Forty Years to Jared”, era proprio lei, deliziosa. La riposi in una scatola e, alzandomi, sbattei contro un angolo della penisola.
La panna. Colin, le fragole.
Basta, non potevo continuare in quel modo. Uscii di corsa e posizionai anche quei due scatoloni alla porta. Il sogno della notte precedente mi stava iniziando a disturbare più di quanto intendessi permettergli. Non potevo concedermi cedimenti o distrazioni. Finora aveva funzionato tutto perché mi ero mantenuto distaccato e laborioso. Se mi fossi permesso il lusso di riflettere su quel che stavo facendo, sarei crollato, ne ero certo.
Mi passai una mano fra i capelli e inspirai profondamente, per ricaricarmi. Mi sporsi oltre il divano per controllare Shannon, che vidi ancora immerso in un sonno indisturbato. In prospettiva, al di là della sua spalla, mi cadde l’occhio su una cornice dal sottile bordo nero, riposta sulla mensola accanto alla tv. Che stupido, non avevo considerato per niente il salone d’ingresso, dove invece finiva per essere accumulata ogni minima cosa al momento di entrare o uscire di casa. Trovai infatti un plettro con la triad, una ricevuta a mio nome e l’abbozzo di un Creep su cui Colin aveva scarabocchiato un insulto. La foto, scattata e sistemata in quel punto da poco, ritraeva noi due nel giardino di casa mia, il pomeriggio della grigliata vegana per il compleanno di Emma. Io non ero venuto neanche troppo bene, ma a Colin era piaciuta tanto. Era vero che c’era molto di me in quella casa, ultimamente. La tolsi di lì e misi tutto negli scatoloni. Ne presi altri due e mi riavviai su per le scale, finalmente pronto ad affrontare la sfida più impegnativa.
La camera da letto era situata sul lato più silenzioso del giardino. In realtà non era sempre stata là; o meglio, non era sempre stata quella. Per i primi anni Colin aveva dormito nella stanza padronale, vicina a quella di James, ma, in seguito all’infausta presenza di Alicja, avevo trovato insopportabile l’idea di dover tornare in quella che per me era diventata una camera fatalmente contaminata. Così lui l’aveva semplicemente relegata agli ospiti e se n’era scelta un’altra, sempre molto ampia e anche più luminosa, dall’altro lato del corridoio. Conoscendomi bene, aveva anche sostituito tutto l’arredamento: letto nuovo, armadio nuovo, comodini nuovi.
A dir la verità, avevo proprio avuto dei seri problemi anche solo a rimetterci piede in quella casa, a riambientarmi. Mi mandava fuori di testa che, ovunque mi muovessi, continuassi a provare la sensazione che lì c’era stata anche lei, quella sedia l’aveva toccata lei, da quella porta ci era passata lei, nel bagno si era lavata lei… Colin ad un certo punto, spaventato dal fatto che non riuscissi a superare la questione e lo mollassi di nuovo, aveva candidamente proposto di vendere tutto e ricomprarsi una casa nuova. La qual cosa mi allettava particolarmente, ma il problema era che per James, nella sua delicata sensibilità, gli ambienti  familiari sono molto importanti. Non si trova a suo agio nei luoghi che non conosce, fa tanta fatica ad abituarsi.
E quindi, solo per lui, avevo lasciato perdere. Lo sapevo, nel momento esatto in cui mi aveva stretto il dito con la sua manina cicciottella, tanti anni prima, che mi avrebbe sicuramente fregato.
Così, tutti gli spostamenti, i ripetuti acquisti, le assidue modifiche in cui mi ero speso, non avevano tanto a che fare con il mio futuro trasferimento in quella casa, quanto con l’ossessiva intenzione di cancellare fisicamente e psicologicamente il passaggio di Alicja dal mio territorio. Colin non si era mai lamentato, salvo brontolare di volta in volta perché non riusciva più a trovare le cose nelle loro nuove collocazioni.
Aprii piano la porta ed entrai in camera, scostando subito le tende per avere una visuale più nitida dell’insieme. Scelsi di cominciare dal mio comodino e lo svuotai praticamente tutto.  Poi passai al cassettone, sormontato dalla grande specchiera intarsiata in oro che aveva folgorato Colin durante un soggiorno nel nord Italia. Liberai il secondo cassetto da ogni mio capo di biancheria. Controllai pure gli altri, per sicurezza, e scoprii che anche il terzo era stato già preparato per accogliere il malloppo di roba mia che sarebbe dovuto arrivare di lì a breve. Mi concentrai allora sull’armadio, partendo dalla cabina in angolo. Trovai tre camice, due jeans, un paio di pantaloni blu in cotone e una dozzina di t-shirt, molte delle quali con stampe disegnate personalmente da me. Piegai e riposi tutto nel primo scatolone e lo accantonai, ormai colmo, tirando verso di me l’altro. Rovistando fra gli abiti di Colin scovai un mio maglione grigio, ma era sufficientemente largo da poter essere scambiato per suo, così lo lasciai stare dov’era. Nelle due ante laterali c’erano soltanto abiti eleganti, cappotti e giacche, per non parlare del portagioie – lui non voleva che lo chiamassi così, ma era senza ombra di dubbio il classico portagioie da femmine – con decine e decine di collane, bracciali e orecchini. Tamarro, sempre detto io.
Recuperai, infine, una sciarpa nera, uno spolverino colorato e un paio di pantofole imbottite che adoro indossare anche quando fuori è caldo. Aprii poi la parte centrale dell’armadio e mi concentrai, ben cosciente che lì, fra lenzuola, coperte varie e cambi di stagione, Colin conservava molti dei suoi oggetti più personali. Per primo trovai l’iPad, su cui aveva l’abitudine di custodire tutte le foto, i messaggi e i pensieri di natura privata. Non teneva niente sul cellulare o sul pc che si portava sempre dietro, perché poteva benissimo capitare di dimenticarli da qualche parte, così trasferiva direttamente sul tablet tutte le informazioni che riceveva e desiderava conservare. Lo accesi e scorsi rapidamente le varie cartelle. A parte qualche foto dei bambini e alcune email di Eamon e dei suoi amici più stretti, erano quasi tutti video, immagini, messaggi mandategli da me o annotazioni e che mi riguardavano direttamente. La tecnologia, soprattutto quando si è costretti a passare diversi giorni separati da migliaia di chilometri, è una risorsa insostituibile. Permette di scambiarsi informazioni preziosissime.  Alcune, però, decisamente poco presentabili. Decisi di toglierlo direttamente di torno. Mi imbattei poi in delle scatoline con centinaia di aggeggi che metteva via via da parte, ricordi di viaggi, posti, momenti, ma ad occhio niente di compromettente. Una invece conteneva alcune foto mie o nostre, scattate nel corso degli anni, in luoghi diversi, insieme a dépliant, ricevute di prenotazione, biglietti da visita di ristoranti o alberghi. Era un maniaco per queste cose, dio santo.
Non mi soffermai troppo tra tutti quei ricordi, perché già cominciavo a rendermi conto di non esser più tanto in grado di gestire il senso di nausea che mi infastidiva già da un po’. Come se l’amnesia non fosse abbastanza, stavo contribuendo a togliere ogni minimo indizio della mia presenza nella vita di Colin. Mi stavo letteralmente cancellando. Sapevo che dovevo farlo, ormai non avevo scelta, ma ce la mettevo tutta per evitare di chiedermi se quel che stavo facendo fosse giusto o perlomeno avesse un senso. Tolsi di mezzo quella scatolina e ripresi dov’ero rimasto. Altri contenitori con cose dei bimbi, un album di scatti vecchissimi di quando era piccolo, e, in fondo in fondo, vari blocchi di carta e quaderni in cui era solito annotare di tutto, dai pensieri più significativi che gli passavano per la mente, a delle storie particolari che aveva sentito e non voleva dimenticare, a dei veri e propri racconti brevi o poesie che ogni tanto scriveva di suo pugno. A me per primo aveva mandato, nel tempo,  numerose e mail o lettere per esprimere concetti che a voce non riusciva ad esternare. Su una di queste, una volta, ci avevo anche scritto una canzone che poi non avevo pubblicato in nessun album.
Ero in dubbio su cosa fare. Non potevo né volevo mettermi a leggere ogni singola pagina, si trattava di cose sue, intime, non mi sembrava opportuno; da un lato pensavo che confrontarsi con così tanti dettagli personali avrebbe potuto fornirgli un ottimo input per ritrovare sé stesso, dall’altra ero quasi certo che da qualche parte ci avrebbe trovato riferimenti a me o alla nostra storia. Ci rimuginai sopra un po’ e, alla fine, seppur poco convinto, aggiunsi tutto al mio scatolone. I primi due cassetti della cassettiera interna erano vuoti, il terzo…beh, al terzo ero preparato. Era da qualche tempo che non frugavo là dentro, ma ritrovai tutti i più bizzarri giocattolini sessuali che a volte utilizzavamo per creare piacevoli diversivi. Li tirai fuori uno per uno, nascondendoli con attenzione sotto ai vestiti, per evitare che mio fratello li vedesse e cominciasse a sbuffare come suo solito. Li avrei riposti insieme a quei pochi che erano rimasti a casa mia. Presi tutto, anche le manette col pelo rosa che avevo vinto ad una fiera inglese un paio d’anni prima. Mi dispiace, Colin, niente Jared, niente sesso.
Risistemai per bene ogni cosa dentro l’armadio e lo richiusi. Passai allora al bagno e mi ritrovai sorprendentemente a sorridere, percependo all’istante la fragranza di lillà che pervadeva l’ambiente. Colin si era lamentato già due volte con la signora delle pulizie e lei gli aveva assicurato che avrebbe cambiato il profumatore non appena fosse finito. Ma era passato almeno un mese e il profumatore funzionava ancora a meraviglia. “Dimmi te se è possibile!”, aveva sbottato Colin una sera, “Mi sembra di entrare nel boschetto nelle fate invece che in un cesso.”. Controllai il mobiletto a specchio sopra il lavandino: due rasoi, due lamette, due schiume da barba, due dopobarba – ho una pelle troppo delicata per usare prodotti normali come i suoi, necessito di una scelta molto accurata, io.
Portai via tutte le mie cose e anche la boccetta quasi vuota delle sua acqua di colonia, la confezione nuova già pronta lì accanto. Non so perché, la volli prendere con me e basta. La vasca era a posto, nella doccia invece trovai il mio balsamo e soprattutto tre braccialettini colorati  con i vari simboli dei Mars che non mi ero neanche accorto di aver perso. Li infilai al polso, mentre scorrevo velocemente i ripiani dello scaffale in angolo, dove individuai alcuni miei vasetti di creme che però, per quel che ne sapeva, potevano benissimo essere suoi. Gli lasciai persino il mio costosissimo gel per capelli. Tanto quella storia sarebbe presto finita, la sua chioma non prometteva d’essere folta ancora per molto.
Tornai in camera e misi tutto negli scatoloni, dandomi un’ultima, rapida occhiata intorno. Ero soddisfatto, un lavoro piuttosto veloce, preciso ed efficace. Guardai per sicurezza anche sotto al mio cuscino. Lui è rozzo, dorme in mutande, quando va bene, ma io non resto di certo a prendere freddo come uno scemo.
Non trovai nulla, ma, allontanandomi, intravidi un fogliettino accartocciato al lato del letto. Lo raccolsi per buttarlo e lo riconobbi come lo scontrino della cena che avevamo ordinato la domenica precedente. I suoi sarebbero arrivati il giorno successivo, così Colin aveva insistito per trascorrere una serata in tranquillità a casa, il mondo chiuso a chiave fuori. L’avevo quasi scordata la fase del “godiamoci la pace ora che presto scoppierà la bomba”. Era stata l’ultima notte che avevamo passato insieme; l’avevo salutato al mattino, per poi ritrovarlo la sera dopo in quella stanza d’ospedale. Sospirai, sedendomi mollemente sul materasso e spiegando attentamente quel pezzettino di carta, fissandolo come se in qualche distorta maniera potesse restituirmi la serenità di un ricordo tanto ordinario quanto straordinario. Avevamo così poco da fare che eravamo presto finiti a letto, i contenitori del cinese sparpagliati sulla coperta e un interessantissimo documentario sulla caccia alle balene in tv. Mentre tiravo su con le bacchette gli spaghetti alle verdure, mi ero sentito ripetutamente osservato.

- Jay? – aveva infine mormorato Colin
- Uhm..? –
Avevo continuato a masticare, del tutto assorto nelle immagini sullo schermo. Poi, non sentendolo più aprir bocca, mi ero voltato verso di lui e l’avevo trovato a sfregarsi la nuca, perso nella sua classica espressione “devo dirti una cosa ma non so se ti arrabbierai”.
- Temevo la noia, sai? Dopo anni a girare per il mondo, stratagemmi per incastrare tutto, salti mortali per incontrarci… Insomma, il fascino del proibito, la seduzione del mistero, semplicemente l’abitudine ai ritmi incalzanti che abbiamo sempre avuto… Ho temuto che avremmo potuto annoiarci, sì. Ho temuto che questa normalità avrebbe potuto mettermi a disagio, avrebbe potuto lasciarti insoddisfatto. Ho avuto paura che non facesse per noi. –
Avevo ingoiato il boccone che mi era rimasto sospeso in gola, facendo rapidamente mente locale sulle nostre attività degli ultimi mesi. Senza muovermi di un millimetro, avevo immaginato vista da fuori la scena di noi due, comodamente sistemati tra le lenzuola, accerchiati da vaschette di cibo, un programma per anziani alla tv ed io, a completare il quadretto, in una canottiera sgualcita e stinta, con la barba fino ai piedi.
- E-e? – avevo deglutito ancora, a vuoto.
- Questa mi sembra di gran lunga la cosa più eccitante che abbiamo mai fatto. – aveva sorriso, con le labbra, con gli occhi, il sorriso più genuino del mondo – E tu – si era sporto su di me, sussurrando – non sei mai stato così sexy... – mi aveva baciato, la cena e tutto il resto presto dimenticati.
Mi trovavo lì, su quello stesso letto, da quello stesso lato. Un milione di anni prima.
Strinsi lo scontrino in un pungo e portai l’altra mano a coprirmi il volto, arrendendomi a quella nausea che mi assaliva da dentro. Ecco di cosa parlava Rita, a cosa dovevo prestare attenzione. Mi sentii improvvisamente cogliere da una scossa di panico e cominciai a piangere, prima cercando di contenermi, poi sempre più apertamente. Scivolai sul pavimento, abbracciandomi stretto alle ginocchia rannicchiate sul petto, nel tentativo di calmare il tremore che aveva preso a percorrermi ovunque. Il panico si trasformò in rabbia e le lacrime in singhiozzi inarrestabili che ben presto lasciarono il posto a vere e proprie urla. Urla di collera. Non ero più spaventato, confuso, triste, non ero più nemmeno disperato in quel momento. Ero furioso, perché non era giusto. Non dopo tutta la fatica, la violenza, il dolore, l’umiliazione, non dopo quel bacio al sapore di soia e di futuro. E più continuavo ad arrabbiarmi, a battere i palmi sulle mattonelle fredde, più continuavo a piangere e a gridare, più mi sembrava che non sarebbe mai finita, che avrei potuto andare avanti così per sempre. Non so davvero quanto a lungo e con quanta forza rimasi sul pavimento in quelle condizioni, ma abbastanza da farmi sentire da mio fratello, che non vidi neppure entrare dalla porta, ma che si inginocchiò vicino a me, tentando di tenermi fermo e di calmarmi.

- Doveva succedere a un certo punto…Sfogati…Sfogati e lascia andare tutto. -  disse piano, passandomi una mano sulla schiena, per poi rimanere con me, in silenzio, finché non fui pronto a rialzarmi.


Il sol era scordato, non c’era niente da fare. Era inutile che cercassi di ignorarlo, con il sol scordato non andavo da nessuna parte.
Appoggiai la chitarra al muro e mi lasciai cadere contro lo schienale dello sgabello, chiudendo gli occhi. Sospirai. Ero stanco morto, nonostante mi fossi svegliato da poco.
Io e Shannon avevamo caricato tutti gli scatoloni in macchina e ce n’eravamo andati. Avevo lasciato guidare lui, non riuscivo neanche a stare dritto a sedere sul seggiolino, dopo il crollo che avevo avuto in camera. Shannon non aveva detto niente, neppure una parola, per tutto il tempo, benché sospettassi che fosse un po’ scosso. Non mi aveva mai visto così, nemmeno nei momenti peggiori. Per quel che può valere, neanche io mi ero mai visto così.
Una volta a casa ero filato dritto nella mia stanza, esausto. Mi ci erano voluti forse due minuti per addormentarmi; niente sogni, niente agitazioni, avevo dormito profondamente per quasi tre ore. Al risveglio ero sceso in cucina a bere del tè, notando che mio fratello aveva scaricato e sistemato tutto in un angolo del salone. Per nulla intenzionato ad occuparmene in quel frangente, ero passato oltre, controllando il telefono e scrivendo un messaggio a mia madre e uno a Rosario, della quale erano indicate nel registro già tre chiamate. Non ero proprio in vena di parlare con nessuno.
Alla fine, incapace di starmene con le mani in mano e provando l’irrefrenabile bisogno di applicare la mente in qualcosa di produttivo, avevo convinto Shannon ad andare al Lab. Aveva cercato di protestare un paio di volte, sostenendo che non gli sembravo in grado di concentrarmi su alcunché, ma poi, scuotendo il capo e borbottando fra sé, aveva desistito. C’è da dire che la vita non mi ha mai regalato niente, tutto quel che ho ottenuto me lo sono guadagnato lavorando duramente, col sudore e col sangue. Mio fratello è l’unica eccezione. E Dio solo sa se non le sia riconoscente ogni santo giorno.
Insomma era andata a finire che avevo passato un’enormità di tempo davanti al computer, scorrendo Artifact in lungo e in largo, apportando qualche modifica, poi cancellandola, scegliendo di lavorare su un punto, poi scegliendone uno diverso, in pratica non concludendo niente di buono. Infine mi ero dato per vinto ed ero sceso al piano di sotto, chiudendomi da solo nello studio di registrazione e prendendo in mano la chitarra, nella vana speranza di provare una delle nuove canzoni. Ma poi mi ero incastrato col sol, era il sol che mi fregava.
Aprii gli occhi ed inclinai leggermente la testa verso la chitarra. Ero io che mi fregavo, niente scuse, niente sol da accordare.
Controllai il BB, era quasi l’ora di cena. Tre sms e due telefonate di Eamon, non potevo più fare finta di nulla. Raccolsi il fiato, raccolsi il coraggio e mi alzai, anche se tornare in quella casa era in quel momento l’ultimo dei miei desideri.


Quando parcheggiai nel vialetto principale, notai che nello spiazzo davanti all’entrata, tra le altre macchine che riconoscevo, ce n’era una a cui non sapevo associare alcun proprietario. Passandole accanto, lanciai un’occhiata all’interno e, credendo d’aver visto male, mi avvicinai. E invece nessun errore, nel suo seggiolino apposito riconobbi la sagoma di Henry che dormiva tranquillo. Aggrottai le sopracciglia, confuso, e proprio in quell’istante sentii il rumore della porta d’ingresso che si chiudeva. Mi voltai e la vidi scendere i gradini, stringendo sotto al braccio sinistro un grande pupazzo beige che somigliava a un orso.
- Che ci fai tu qui? –
Alicja, nei suoi soliti shorts e camicia larga, si fermò sul penultimo scalino, alzando lo sguardo, evidentemente presa alla sprovvista.
- Oh, Jared… - sibilò, spostandosi un ciuffo biondo dagli occhi.
- Perché sei qui? – continuai imperterrito mentre la raggiungevo e salivo alla sua altezza – Non era previsto nessun incontro oggi. –
- Che vuoi saperne tu di cosa è previsto? – proferì bruscamente
Mantieni la calma. Pensa a Henry. Pensa a Henry. Pensa al bene di Henry e stai zitto.
- Beh, è stato un piacere vederti. – mi squadrò velocemente dall’alto in basso – Ti trovo in forma, come sempre. –
Fece qualche passo verso la propria auto, poi rallentò e si fermò di nuovo. Ebbi l’impressione di sentirla ridere. Si girò verso di me, l’espressione effettivamente divertita.
- Sai qual è la cosa più esilarante in tutto questo? – un filo di sarcasmo nel suo accento ancora marcatamente dell’est – Che lui non era in grado di stare con me, non avrebbe potuto stare con nessuno, perché non era capace di dimenticarsi di te. “Non riesco a togliermelo dalla testa” ha avuto il coraggio di dirmi! – scrollò le spalle, come incredula – E guardalo adesso… è già tanto se si ricorda il tuo nome. – ad un tratto si fece seria, assottigliò gli occhi e riprese col suo tipico tono freddo – Tu lo chiamerai karma, io provvidenza. Sta di fatto che gira. –
Aumentò la stretta intorno al peluche, mi diede le spalle e raggiunse lo sportello dell’auto. Prima di entrare tornò brevemente a guardarmi e concluse, criptica:
- Sembra proprio che stia girando. –
Nell’arco di un secondo se n’era andata, la polvere della ghiaia sollevata dalle ruote ballava lentamente nell’aria.
Ed io me n’ero rimasto lì, in silenzio, a subire le cattiverie di quella megera, talmente stremato da non trovare nemmeno le parole per ribattere. Cosa avrei potuto ribattere, comunque? Fissai a lungo il portone, mordicchiando nervosamente l’unghia del dito indice. Non ce la facevo, quel giorno era stato veramente troppo. Me ne tornai sconsolato alla macchina e misi in moto per andarmene.
È proprio vero, se il buongiorno si vede dal mattino e il mattino comincia di merda, ti aspetta una giornata di merda.
Partii, realizzando che in tutto quel casino non ero riuscito a vedere Colin nemmeno una volta. Ma del resto, dubitavo che avrebbe sentito la mia mancanza.

  
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