5 Mano della Pioggia
Fredas,
5 Mano della Pioggia
Non
ricordo notte più lunga.
Forse
perché non sapevamo se fosse ancora notte o meno.
Ho
dormito malissimo, e penso che lo stesso valga per la mia compagna di
cattività.
Almeno
ora so che non vuole più ammazzarmi, perché avrebbe potuto farlo
tranquillamente durante il suo turno di guardia. E la stessa cosa deve pensare
anche lei di me, anche se credo che non abbia dormito affatto per tenermi
sempre d'occhio.
Alla
fine del mio turno abbiamo decretato che fosse giorno, anche perché le nostre
torce iniziavano ad ansimare e la loro luce si affievoliva sempre di più,
riducendosi a propagare nell'aria buia e pesante, pregna di terra, della caverna, soltanto una
lugubre aura blu.
Sebbene
abbia superato mentalmente indenne quelle ore di silenzio con lo sguardo perso
nel buio oltre la cortina luminosa delle torce, è stato sicuramente più
frustrante, straniante e solitario il silenzio che è calato quando abbiamo
ripreso la nostra cieca spedizione.
Già,
non voleva ancora parlarmi dopo il "malinteso" dello suo pugnale
contro la mia gola... Ma c'era qualcosa di più: quella notte, mentre temevamo
per le nostre vite, circondati dalla morsa dell'oscurità, costretti a dover
scegliere di chi avere paura di più, se dell'altro o delle bestie che si
nascondevano dietro l'oscuro mantello di tenebra, ci siamo forse entrambi
sorpresi a riconoscere la presenza dell'altro, oltre che come ostile, anche
come essere a se stante, che non conoscevamo per niente, e che quindi non
potevamo nemmeno concederci di odiare. E tutto questo abbiamo potuto farlo nel
silenzio di uno, mentre l'altra vigilava su di lui, o viceversa, contando su
questo tacito patto di riflessione.
Ora
però, quando il patto è giunto al suo legittimo termine, nel "giorno"
di quella buia marcia, al sole delle nostre coscienze, risorgevano come dettagli
in lontananza di un paesaggio notturno all'alba (dal luccichio di una sorgente
a intere foreste, l'uno spentosi con Magnus, l'altre ch'erano andate perdendo forma e definizione
man mano ch'entravano nel reame di Azura fino a diventare solo scuri spettri
fruscianti) tutte le idee preconcette, le immagini che l'uno aveva dell'altra e
l'altra dell'uno prima di questo sfortunato accidente, basate solo ed
esclusivamente su pregiudizi ereditati da tradizioni morte e stupidi orgogli.
A
questa nuova luce, lì, nell'oscurità sempre più buia man mano che le torce
morivano, un passo dietro l'altro mentre seguivo la sua coda danzante nella
penombra davanti a me, questi pregiudizi si fecero cocenti imbarazzi, ironica
controparte del freddo glaciale tra di noi.
Ad
un tratto volevo informarmi di più sull'essere, non sulla sua immagine, volevo
veramente sapere perché rischiava la vita, da chi scappava.
Così
ho rotto il silenzio, e quasi sono riuscito a udire i suoi cocci di cristallo
cadere e infrangersi tutt'intorno.
Ma
lei niente, non mi degnava di nuovo di risposta.
Intanto,
mentre procedevamo, ancora non si vedevano ragni, nè altra anima viva, così
abbiamo iniziato a pensare entrambi (senza dirlo ad alta voce) che non fosse il
crollo, che c'era un'altra motivazione se nemmeno i ragni del gelo si spingono
così in profondità.
Poi,
hanno iniziato ad affiorare, lungo le pareti, tra la terra sotto i nostri
piedi: rune, monoliti, vasi e urne...
Ho
sentito parlare di spaventose rovine Nord, infestate dai peggiori scarti
dell'Oblivion, sigillate da secoli per custodire antichi e pericolosi
misteri... quindi si può capire con che prepotenza il cuore mi è schizzato in
gola non appena ho realizzato cosa stava per pararcisi davanti.
Il
corridoio della grotta finisce, si apre nel vuoto, buio.
Kintra
trova qualcosa sulla parete adiacente, vi avvicina la torcia e una lingua di
fuoco si sveglia, come avesse dormito in quel luogo da tempo immemore, e inizia
a correre lungo la nuova parete (nuova perché prima che si materializzasse ai
nostri occhi, al suo posto ci sembrava fosse il vuoto).
E
poi compare, all'improvviso, beffarda, fregandosene della sua immobilità
piantata nelle radici della terra, come mai invece cosa mobile è potuta comparire
alla mia vista: un'enorme sala, in tipico e riconoscibilissimo stile Nord,
schietto, massiccio, con mura enormi fatte di monoliti di cui non si vede la
fine e grosse travi di legno sull'alto soffitto.
Ma
quello che più ha attirato la mia attenzione, sono stati i cadaveri, lungo
tutte le pareti.
La
luce balugina un attimo sui loro volti pallidi di morte, prima che questi
vengano strappati bruscamente al loro riposo.
Quasi
all'unisono, decine di draugr si levano dai loro loculi verticali, come se per
tutto questo tempo non stessero aspettando che noi.
Le
gambe mi hanno abbandonato, per un istante, poi l'istinto di sopravvivenza mi
ha suggerito che, se un comune giovane, con una lama mediocre, con una capacità
d'usarla ancora più mediocre, davanti ad un esercito di non morti assetati di
sangue è spacciato, lo è di più lo stesso ragazzo che combatte per difendersi
strisciando per terra senza l'uso delle gambe.
Questo
non significa che, come speravo, sono diventato l'eroe delle leggende,
Ysgramor, Talos o chi altri, risvegliando le mie "abilità sopite" nel
momento del bisogno, sono rimasto sempre il solito bardo incapace scappato
dall'accademia per capriccio, ma in più molto più sudato e tremante.
Forse
era solo una mia impressione, ma lì per lì mi sembrava di riuscire a sentire,
tra la grancassa del mio cuore e il tamburello dei non-morti che facevano
tintinnare le armature, sempre più vicini, il tamburo del cuore dell'Argoniana,
battere ferocemente alle mie spalle, sebbene quella non tradisse alcun
sentimento.
Quello
mi ha dato il coraggio che mi serviva; non quello che volevo, quello che mi
avrebbe alleggerito lo stomaco, ma il necessario, quello che mi diede la forza
di sconfiggere i miei nemici: fendenti incauti, schivate improvvisate, calci e
pugni seminati alla rinfusa.
Grazie
a Talos quei vecchi cadaveri ammuffiti erano lenti come le lune nel cielo,
altrimenti non me la sarei cavata solo con qualche ferita di poco conto alle
braccia.
Quando
avevo finito con il mio da fare mi sono voltato e l'Argoniana aveva appena
concluso il suo. Per la prima volta, forse, credo di aver visto abbozzato un
sorriso tra le squame che formano la sua faccia, se possibile, ma non mi è
stato dato il tempo di accertarmene: prima uno strano suono, otturato, quasi un
sibilo, poi un boato, un esplosione.
Alle
spalle dell'Argoniana spunta un'enorme lastra di pietra, come dal nulla. Io
urlo, quella si gira, la vede, fa per spostarsi, ma è troppo tardi, magari a
Black Marsh, nelle sue terre d'origine, il calore nel suo corpo l'avrebbe fatta
muovere più velocemente, ma qui, in questa terra gelida e impetuosa, nelle
profondità della roccia, non era abbastanza, quel calore.
Il
lastrone di pietra le atterra addosso, fortunatamente prendendole solo la gamba
destra.
Urla
di dolore, è bloccata sotto quel peso, la gamba in frantumi.
Io
alzo lo sguardo verso il punto da cui doveva esser venuto quell'inusuale proiettile:
un po' più lontano, da un sarcofago di roccia che spunta dal pavimento, sta
uscendo un altro draugr, più grosso, armato e spaventoso degli altri, lentamente,
come non avesse bisogno di curarsi dei suoi nemici.
Non
so cosa mi è preso, so solo che un impeto mi ha mosso l'animo a scagliarmi
contro quella figura che, mentre mi fissava lo sguardo ceruleo e vacuo negli
occhi, continuava lentamente il suo
risveglio millenario. Urlando come un pazzo correvo come mai prima, contro
quello, impugnando la spada con entrambe le mani quasi a suggellare quello che
stavo per fare: un unico affondo, alla fine di quella corsa; la lama trapassata
nella carne putrida, insensibile; l'inquietante luce nei suoi bulbi scompare...
Tutto
trafelato torno da Kintra, con sforzo immane alzo il masso il tanto che basta
per farle togliere l'arto ferito.
L'ho
aiutata a rimettersi in piedi, mettendomi un suo braccio intorno al collo.
Dietro
a quel sarcofago e allo strano muro inciso alle sue spalle si celava l'uscita.
Per
crudele ironia o per grazia divina non so, ma la risalita verso la luce fu
molto più breve della discesa nelle tenebre.
Giunti
di nuovo all'aria aperta entrambi gettammo un sospiro di sollievo, insieme ad
uno sguardo grato verso le lune, alte e luminose, chiare, nel cielo di Nirn.
Abbiamo
dovuto accamparci, non poteva viaggiare in quelle condizioni, di notte. Così
l'ho stesa per terra e ho fatto per dirigermi al mio posto di guardia quando
«Aspetta - mi ha fermato - Aspetta... voglio dirti la verità... la
verità su chi sono» annaspava.
«Il mio vero nome non è Kintra, e non è nemmeno il mio primo falso
nome... sono nata a Black Marsh, è vero, ma ho sempre odiato le paludi, sono
posti tristi e puzzolenti... così lasciai ben presto Black Marsh e iniziai la
mia vita per mare... come una piratessa. E' questo quello che facevo prima di
Windhelm, navigavo completamente libera per gli oceani di Tamriel. La ciurma di
cui facevo parte, però, era mal vista dagli Argoniani della palude, come tutti
i pirati, ma come dar loro torto? In fondo non abbiamo sempre fatto cose molto
virtuose, ci siamo macchiati di qualche crimine... ma mai niente di grave! Non
ho mai ucciso nessuno, per esempio!
Ma comunque la nostra ciurma venne sconfitta da una flotta di navi
dell'Impero Argoniano e chi non venne ucciso o catturato si disperse... come
me.
Fuggì verso est, nord-est. Avevo sentito di una comunità di Saxhleel a
Windhelm, Skyrim. Lì diedi il nome di Seela e diventai una dei tanti schiavi
Argoniani senza nome che lavoravano al porto, dove realmente io mi ero recata
con la speranza di potermi imbracare e salpare nuovamente... speranza che
rimase appunto tale, solo un sogno, mentre ero costretta giorno dopo giorno
agli stessi lavori, che mi sembravano sempre più inutili e noiosi. Così, per
evitare la depressione o la follia ricorsi all'espediente più usato in quella
comunità: la skooma. Venex, un Saxhleel anche lui, era il mio spacciatore. La
skooma cancellava via le preoccupazioni e per qualche minuto ti faceva provare
una felicità assoluta. Ma poi tutto tornava peggio di prima, e ne rivolevi
altra, più spesso, più forte.
Alla fine mi indebitai fino al collo con Venex, ma sottostetti alle
sue prepotenze, alle violenze, finché un giorno se ne venne dicendo che se non
l'avessi pagato avrebbe rivelato alle autorità la mia vera identità di
piratessa fuorilegge... Così fui costretta alla fuga, verso Morthal, una
palude, io che le odio tanto... Il mio vero nome, comunque, quello con cui ero
conosciuta a bordo della mia nave, è Accarezza-le-Onde»
Ora sono io che bado a lei, solo io, che scruto fra gli alberi, la
nebbia e i timidi lumini delle lucciole; nel frattempo scrivo, non solo questo
diario, scrivo una canzone, la prima vera canzone da quando sono scappato... ma
che dico? La prima vera canzone che io abbia mai scritto! E parla di un Argoniana...
strano eh? Chissà come la prenderebbero i miei maestri all'Accademia: non è la
solita canzone che parla del solito eroe senza paura, nessuno la reciterebbe a
gran voce durante pompose cerimonie o balli popolari... ma per me è bellissima.
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