capitolo 10
RIASSUNTO:
Dopo la fine della battaglia di New York contro alieni di vario tipo,
ogni vendicatore è tornato alle sue usuali attività. Eccezion fatta che
ogni giovedì sera il gruppo si ritrovi alla Stark Tower a vedersi in
tutta pace un bel film. Al termine di una serata nella quale è stata
proposta la visione di "Ritorno al Futuro", uno Steve ancora incerto
del suo posto nel mondo viene colpito da un qualcosa che ne provoca lo
svenimento. Al suo risveglio si ritroverà nuovamente spaesato
nell'anno... 1991. Tra vecchi amici, nuove conoscenze, molti problemi,
riuscirà il nostro Capitan America (alias Jarvis) a cavarsela e a tornare a
casa?
I'm paralyzed I'm paralyzed
Sono paralizzato dall'emozione
I'm lost in time I'm paralyzed
Sono perso nel tempo, sono paralizzato.
Paralyzed ~ The Fire
Capitolo Dieci
Martedì, 21 Dicembre 1991.
Sera.
«Sapevo che affidare un incarico di così importante ad una recluta non
sarebbe stato esente da rischi...»
L'interno della stanza nella quale era stato "invitato" ad entrare
pareva
decisamente più buio del locale nel quale aveva precedentemente
sostato. L'oscurità gli aveva reso difficile persino trovare la sedia
sulla quale ora sedeva composto. Dinanzi a sè un freddo tavolo
metallico,
al lato opposto del quale sedeva colui che gli stava parlando. Non
poteva vederlo; tuttavia percepiva lo sguardo penetrante
dell'altro, desideroso di
informazioni.
«ma non credevo avremmo mai assistito ad una tale esagerazione di
azioni sconsiderate.» Terminò, dopo una breve pausa.
La mente di Philip Coluson si era rassegnata ad aspettare.
Attendeva,
conserto ed immobile, che quelle parole giungessero. Ne era sicuro; la
prossima frase avrebbe contenuto le due paroline magiche: "sei
licenziato". Ma non erano quelle a fargli paura. In tutto lo
S.H.I.E.L.D., benché nessuno volesse ammetterlo, aleggiavano strane
storie di agenti scomparsi da un giorno con l'altro.
Avrebbe preferito rescindere subito il contratto che lo legava a
quell'uomo, ma sapeva bene che all'interno delle scartoffie firmate il
giorno della sua assunzione nemmeno una alludeva
a situazioni di quel tipo.
Il che non era per nulla confortante.
«Seminare la squadra che avevo affidato a questa recluta non
dev'esserti stato semplice; agenti altamente addestrati, pronti a
pedinamenti lunghi interi giorni e intere notti.»
Aspettava il vuoto d'aria di una botola che si apriva sotto il
pavimento, quanto meno una raffica di mitra. D'altronde per il suo
interlocutore non sarebbe
stato difficile ucciderlo a sangue freddo. Tutti conoscevano le cose di
cui era capace il direttore, benché in pochissimi avessero avuto
l'occasione di parlargli.
«Diversi fattori che compongono un'equazione, complessa ed
affascinante, alla quale manca l'incognita; chi sta proteggendo, agente
Coulson?»
Una domanda del genere obbligava il pivello Philip Coulson ad una
immediata risposta.
Avrebbe tanto voluto darla.
Voleva ardentemente spiegare gli avvenimenti degli ultimi giorni a
qualcuno; il suo superiore sarebbe stata la persona migliore.
Probabilmente avrebbe risolto il problema che si era creato, trovando
dove diamine fosse finito... Capitan
America, alias Steve Rogers.
Ma, mentre non riusciva a decidersi ad aprir bocca sull'argomento,
provò uno strano brivido nel pronunciare mentalmente il nome di
quell'uomo. Creduto morto da tutto il mondo,
aveva deciso di confidarsi solamente con... lui.
Ricordava bene le parole che gli aveva rivolto al termine di una lunga
chiaccherata, quando lo aveva definito uno dei suoi amici "più leali e
fidati". O almeno, lo sarebbe stato nel futuro.
«Il gatto ti ha morso la lingua?» Riprese a parlare l'altro, dalla
penombra. Phil avvertiva i suoi passi nervosi sul pavimento, nonostante
il tono di voce si manteneva particolarmente beffardo.
«Ho scommesso molto su di te, affidandoti la delicata missione di
scoprire chi ha ucciso Howard Stark e sua moglie.»
Poi ancora silenzio.
Phil decise; non avrebbe aperto bocca.
Sia perché quello che gli aveva detto il Capitano Rogers gli sembrava
simile alla confessione di un fedele con il prete. Informazioni
strettamente personali da non cedere facilmente a terzi.
Inoltre anche se non conosceva perfettamente le leggi del continuo
spazio-temporale, quel poco che aveva studiato di fisica unito ad
alcune
passioni adolescenziali - fumetti e film di fantascienza - lo
mettevano in guardia; sapeva che qualsiasi informazione proveniente dal
passato poteva avere conseguenze disastrose nel futuro. Giusto sei anni
prima era uscito un film sull'argomento...
"Come si chiamava? Ah, già. Ritorno
al futuro".
Improvvisamente però si rese conto di come il futuro potesse far male.
Il direttore dello S.H.I.E.L.D. terminò la pazienza
quando, con un pugno ben assestato, balzò in avanti colpendo dritto in
faccia
Coulson. Il quale, spiazzato, cadde rovinosamente a terra, dopo aver
udito un sonoro "clack" all'altezza del setto nasale.
Percepì il sangue caldo che iniziava a colargli lungo il viso, mentre
la porta dalla quale era entratò si aprì nuovamente. Da essa fecero
irruzione un
paio di uomini enormi, armati, i quali con fare poco amichevole lo
strattonarono e lo costrinsero ad alzarsi, tenendolo saldamente ognuno
da una parte.
«Ora non ho più tempo da perdere.»
Coulson, per la prima volta in vita sua, vide il volto del direttore
dello Strategic Homeland
Intervention, Enforcement and Logistics
Division. Lo immaginava piuttosto vecchio, sulla sessantina, con
i
capelli imbiancati dal tempo e la pelle percorsa da rughe. Invece il
fascio di luce entrato dalla porta appena aperta, gli rivelò un
uomo apparentemente sulla quarantina, di carnagione scura,
completamente calvo. Una benda nera calata sull'occhio sinistro, quasi
fosse un moderno filibustiere, ed un'uniforme lunga nera
completavano il - poco rassicurante - quadro.
«Portatelo dove sapete. Forse più tardi avrà voglia di scambiare
quattro chiacchere.»
Mentre il sangue continuava copioso a riversarsi sul pavimento e i due
energumeni lo conducevano via, Coulson venne attanagliato da un
preoccupante dubbio, che non aveva minimamente a che fare con gli
avvenimenti di quello strano giorno.
Si chiese se Steve Rogers gli avesse raccontato tutto, ma proprio tutto
riguardo al futuro.
Giovedì, 23 Dicembre 1991.
Mattino.
Poteva vederlo.
Vedeva il volto disperato attraverso lo specchio di vetro che li
separava.
Una lastra che gli appariva quasi incantata; attraverso di
essa poteva percepire come proprie le emozioni provate dal dio
del tuono; impotenza; debolezza; inadeguatezza.
Il possente Thor rinchiuso in una trappola di vetro realizzata dalla
fragile mano dell'uomo. Un affronto; un'umilazione.
In un angolo della stanza buia una figura alta e slanciata, avvolta in
sontuose vesti verde smeraldo, minacciava di poggiare il palmo contro
una pulsantiera, dalla quale risaltava un vistoso pomello di colore
rosso.
Steve vide Thor allontanarsi preoccupato dal bordo del sottile guscio
di vetro dopo avere tentato, invano, di distruggerlo con un colpo ben
assestato del suo possente martello magico. Purtroppo Fury aveva fatto
un lavoro fin troppo accurato, con quella trappola.
«Gli umani ci ritengono immortali.»
Esordì infine Loki, con fare solenne. Un sorriso beffardo dipinto sulle
sottili labbra del dio.
«Vogliamo verificarlo?»
Thor indietreggiò ulteriormente, come fosse ormai pronto al destino di
morte che lo aspettava. Annientato per mano dal suo stesso fratello,
che tanto aveva amato e tanto aveva sperato di salvare.
Steve avrebbe voluto agire, avanzare, aggredire il dio delle malefatte
e punirlo per tutto il dolore che aveva causato alla città di New York.
Invece i suoi muscoli stranamente non risposero al suo comando,
rimanendo ben saldati sulle griglie metalliche che componevano il
precario pavimento dell'eliveivolo dello S.H.I.E.L.D. Non sembrava
nemmeno accorgersi della presenza del capitano, quello stolto alieno.
Ma ad un certo punto qualcosa accadde nell'angolo vicino a lui; a pochi
passi di distanza due agenti sotto il controllo di Loki caddero in
avanti, come tramortiti. Steve sussultò, sollevato; qualche collega
vendicatore era certamente venuto a conoscenza del pericolo ed era
coraggiosamente corso in aiuto del dio del tuono.
Aspettò di vedere il riflesso brillante dell'armatura rossa ed oro di
Stark, oppure l'arco teso con la freccia incoccata di Occhio di Falco.
Attese per quelli che parsero secoli; infine un uomo vestito con un
elegante completo scuro scavalcò lentamente i due uomini ancora a
terra.
Una voce gentile ma severa, come di un insegnante intento a recuperare
l'attenzione di uno scolaro particolarmente insolente, lo fece
trasalire.
«Per favore, indietro!»
L'agente Phil Coulson fece il suo ingresso, reggendo con entrambre le
braccia quello che sembrava un pericoloso e sofisticato cannone. Steve
era stranito; non riusciva a capire perché contro il pericoloso Loki lo
S.H.I.E.L.D. avesse scelto di mandare proprio Coulson per quella
missione disperata. Non che non nutrisse stima nei contronti
dell'agente, anzi. Da quel poco che sapeva era niente meno che il
braccio destro di Nick Fury, e non v'era persona all'interno
dell'organizzazione più preparata di lui.
Ma perché mandarlo da solo? Dritto-dritto nella gabbia del leone? Steve
non capiva. Inoltre desiderava ardentemente potersi muovere,
avvicinarsi ed aiutarlo. Nemmeno il suo amico evidentemente lo poteva
vedere; il capitano si crucciava, incapace di comprederne il perché.
«Ti piace? Abbiamo lavorato sul prototipo dopo che hai mandato il
Distruttore. Neanch'io so cosa faccia... vogliamo verificarlo?»
Fu questione di un secondo.
Dopo che si udì il rumore vibrante dell'avvio della pericolosa arma
impugnata da Coulson, Steve finalmente comprese.
Dove si trovava.
Che cosa stesse succedendo.
Perché non ci fosse nessun altro al fianco del suo amico.
La paura si impadronì della sua anima; quella che spesso aveva provato
durante le battaglie affrontate nel suo vagare avanti e indietro nel
tempo. Nessuno avrebbe mai creduto che il grande Capitan America
potesse cedere ad una tale emozione, considerata appropriata solo per i
deboli. Invece si trattava del motore che spesso lo spingeva ad agire
d'istinto, mettendolo in moto anche quando sapeva che le speranze di
sopravvivenza si rivelavano inesistenti.
Ma nonostante provasse a gridare con tutto il fiato che aveva in corpo,
mentre i suoi neuroni bombardavano inutilmente di ordini il suo corpo
di marmo, la tragica scena alla quale non aveva assistito in passato si
ripropose dinanzi a lui come in un un film.
Il dio degli inganni materializzò sé stesso alle spalle di Coulson.
Steve aprì disperatamente la bocca; i suoi polmoni di supersoldato non
riuscirono ad emette nemmeno un sibilo.
Lo scettro scintillante penetrò nella solida schiena dell'amico, che si
incurvò impercettibilmente in avanti. Poi la punta di quell'arnese
trapassò da parte a parte il ventre dell'amico.
Steve sentì come se avesse dilaniato la propria stessa carne.
Steve rivide Bucky.
Lo rivide cadere dal folle treno in corsa, precipitare nel vuoto, gli
occhi disperati rivolti come in una supplica verso di lui.
Steve rivide il gentile professor Abraham Erskine.
Lo rivide mentre, poco prima di morire, cercava di dirgli qualcosa
puntandogli un dito in direzione del suo cuore.
Steve rivide Tony.
Lo rivide fermo ed immobile dinanzi a sé dopo essere precipitato dal
cielo polveroso di New York, steso a terra, immobile nell'armatura che
avrebbe dovuto proteggere da ogni minaccia il figlio del suo vecchio
amico.
Troppe persone che non era stato in grado di aiutare. Nei confronti
delle quali si era sentito il gracile e piccolo ragazzino di Brooklin
di anni e anni addietro.
Troppe, troppe emozioni.
Che finalmente lo destarono.
«Whoa!»
Il suo corpo fu percorso da uno spasmo fortissimo, come se fosse stato
per qualche minuto di troppo in apnea sottacqua. I polmoni cercavano
disperatamente la materia prima della quale sembravano momentaneamente
privi, continuando ad espandere e comprimere freneticamente la gabbia
toracica di Steve. Il quale si rese lentamente conto che quello che
aveva appena vissuto era un incubo che lo riportava indietro nel
tempo... anzi, in avanti.
Cercò di allontanare le immagini così vivive che tanto avevano
impressionato la sua mente e cercò di concentrarsi sul presente,
qualche diavolo fosse il tempo nel quale si trovava.
Immediatamente si rese conto di due cose; la prima era che i suoi occhi
erano completamente accecati da una luce fortissima. La seconda che,
ancora provato dai profondi spasmi che lo scuotevano tutto, in più era
completamente bloccato supino mediante l'uso di parecchi sistemi
metallici. Manette grandi come per legare un orso e catene argentate
che non gli permettevano di muoversi, se non di pochi millimetri.
Non riusciva a capire dov'era. La luce bianca era troppo forte per
permettere ai suoi occhi celesti di abituarvisi.
Percepì che si trovava sdraiato su di qualcosa di vagamente soffice,
forse un letto. Ma le sue percezioni risultavano decisamente alterate;
il senso di nausea e gli spasmi del risveglio non lo allontanavano man
mano che scorreva il tempo. Steve si chiese se non fosse stato drogato.
Non ne era sicuro dal momento che non aveva mai assunto sostanze
stupefacenti in vita sua. Inoltre, per quanto ricordava gli fosse stato
detto, dopo aver assunto il siero del supersoldato nemmeno i prodotti
di sintesi più strani avrebbero fatto effetto sul suo corpo.Invece...
non era vero?
Mentre ancora rifletteva frastornato su cosa potesse essergli successo,
fu sicuro di aver avvertito un movimento impercettibile affianco a sé.
In quel posto doveva esserci qualcuno.
Chiunque fosse non avrebbe avuto certamente intenzioni amichevoli.
Il corpo di Steve cercò di rieagire ma, come se proseguisse anche nella
realtà il precedente incubo, il biondo si trovò nella spiacevole
situazione di non poter muovere un muscolo.
«Mhhhrggg...»
Riuscì a mugulare, frustrato e confuso, mentre percepiva il suo nemico
scivolare lentamente al suo fianco. Si sentiva inerme, impotente,
mentre lo percepiva appoggiarsi contro il giaciglio nel quale era
costretto.
"Sarai contento di uccidere un uomo disarmato e incatenato, razza di
codardo." Pensò furibondo, non smettendo si provare a riaquistare la
padronanza perduta sul proprio corpo.
«Non sono un codardo. L'ho dimostrato, ieri sera.»
Come se fosse stato colpito per la seconda volta da un potente uragano
che gli aveva squassato il cervello, Steve capì chi aveva di fronte e
gli tornarono in mente gli ultimi istanti alla cerimonia di passaggio
del testimone delle redini delle Stark Industries. Prima che cadesse a
terra, colpito da una qualche arma. La voce non lasciava trasparire
ironia, ma Rogers ne colse comunque parecchia.
Ma la cosa più strana, che probabilmente era da addebitare al suo
momentaneo stato confusionale era che... quell'uomo gli aveva risposto
prima che lui avesse potuto aprir bocca. Cosa che in effetti,
momentaneamente, non gli riusciva.
Steve decise che, dopo aver visto cose stranissime in vita sua, nemmeno
quello lo avrebbe scosso più di tanto. Complice la sostanza che aveva
in corpo.
«Lo so benissimo» Continuò lentamente la voce neutra che gli rimbombava
nel cervello. «per questo sono qui; per porre fine alle tue sofferenze».
Steve percepì l'uomo che si sporgeva sopra di lui, avvicinandosi al suo
viso.
Avrebbe voluto vederlo in faccia, a quel vigliacco che gli aveva
sparato. Che ora voleva metterlo a tacere per sempre. Quanto avrebbe
dato per poter imbracciare il suo scudo e poi spaccarglielo in testa,
assestargli un paio di colpi ben piazzati e poi lanciarlo in pasto ai
primi mostri alieni di passaggio... Uh? Mostri alieni? Steve aveva
davvero avuto a che fare con creature di un altro mondo?
Cercava di ricordare quando ciò fosse avvenuto, ma invano. Forse era
avvenuto nell'ambito di una battaglia. Ma... che battaglia? E quando?
«Bene.» Esordì soddisfatta la voce nella sua testa. «Sta finalmente
facendo effetto.»
L'altro evidentemente si riferiva alla sostanza che era in circolo nel
corpo del supersoldato.
Ma proprio mentre percepiva il passato scivolare in un panorama grigio
e piatto... Il volto sopra di sé, complice l'ombra che esso stesso
proiettava su Steve, gli fu visibile per qualche secondo. Nel quale il
biondo trasalì.
L'individuo in piedi smise di parlare in quel modo paranormale,
preferendo le sue stesse labbra.
«Addio, Capitano.»
Giovedì, 23 Dicembre 1991.
Sera.
La giovane e attraente chioma rossa di Virginia "Pepper" Potts
ondeggiava ritmicamente su e giù, mentre la sua proprietaria camminava
tranquilla per le chiassose strade della grande mela. Normalmente, dopo
aver finito di lavorare, avrebbe preferito correre a casa senza perdere
tempo ad osservare le vetrine che si frapponevano tra lei e il suo
piccolo rifugio. Eppure quella sera, nonostante il cielo fosse coperto
e le raffiche di gelo pungenti, dimenticandosi che con i soldi
guadagnati al locale riusciva a malapena a pagarsi l'affitto, era lì a
vagare.
Percorse tutta una lunga arteria viabilistica sul marciapiede, il naso
arrossato che metteva becco in ogni vetrina che le catturava
l'attenzione. Doveva ammettere che erano molte; d'altronde in periodo
natalizio i commercianti non badavano a spese pur di vendere qualche
articolo in più. Così ogni spazio antistante all'ingresso diventava un
tripudio di colori, di canzoni registrate o di piccoli cori
improvvisati, di luci pulsanti o di profumi gustosissimi di qualche
prelibato dolciume.
Pepper continuò a camminare, stringendosi più forte a sé il suo
giubbotto di pelle nera e chiedendosi perché aveva deciso di indossare
anche quel giorno la sua minigonna preferita, nonostante i quasi meno
dieci gradi sotto zero e la previsione di neve nelle successive
ventiquattrore.
«Babbo Natale arriverà con la neve; come in ogni film natalizio che si
rispetti.»
Sospirò, pensando che l'indomani non avrebbe dovuto recarsi al lavoro,
bensì preparare le valigie per prendere un'aereo che l'avrebbe
riportata dalla sua famiglia.
Mentre già pregustava le prelibatezze che sua madre stava già
certamente iniziando a cucinare, data la sua passione ai fornelli,
decise di attraversare la strada per passare d'inanzi ad alcuni negozi
di vestiti eleganti che la facevano letteralmente sognare.
Sull'altro lato del marciapiede si piantò davanti alla vetrina,
scandagliandola inutilmente in cerca di qualcosa che costasse meno di
50 dollari. Come immaginava, non poteva permettersi nemmeno una
striminzita cintura.
"Verrà il giorno in cui indosserò qualcosa di decente. Diverrò qualcuno
d'importante. Farò strada. Sarò finalmente rispettata e, perché no... amata."
Sospirò per una seconda volta, consapevole che probabilmente quando
sarebbe tornata a New York in tempo per il Capodanno l'avrebbe
festeggiato come al solito in compagnia dei suoi più stretti amici,
tutti in coppia da anni con altri ragazzi e ragazze. L'unica senza
nessuno sarebbe stata, come da copione, solamente lei.
«Ehi!»
Improvvisamente qualcuno, nella ressa in movimento su quel lato del
marciapiede, la colpì forte sulla schiena, facendole perdere
l'equilibrio. Se non fosse stato per i suoi riflessi pronti sarebbe
finita dritta dritta all'interno della tanto adorata vetrina del
negozio.
«Insomma, che modi sarebbero?» Esordì alterata, mentre si girò di
scatto pronta ad aggredire verbalmente quel maldestro passante.
Davanti a lei però non c'era esattamente quel maldestro passante che
aveva aspettato di trovarsi, bensì un giovane uomo alto e muscoloso,
vestito elegantemente e di tutto punto. Solo i capelli biondi erano più
spettinati dalla prima - e anche ultima - volta che l'aveva visto,
mentre gli occhi azzurri vagavano persi nel vuoto dinanzi a sé, come a
voler cercare qualcosa che aveva perso.
«Ma... io ti conosco! Ci siamo incrociati qualche giorno fa nel locale
dove lavoro!»
Lo sguardo del ragazzo finalmente si posò su di lei, anche se non
ricambiò il saluto, anzi. Sul suo volto si compose un'espressione di
smarrimento.
«Massì, ero la ragazza che ti ha servito al tavolo, mentre tu
disegnavi...»
Ma l'altro non diede segni di ricordare alcunchè.
«Mi scusi signorina, non credo proprio di conoscerla.» Disse in modo
gentile infine l'altro, dopo averla squadrata in modo approssimativo
per qualche secondo.
Poi il ragazzo, del quale Pepper ricordò non sapeva nemmeno il nome,
ebbe come un giramento di testa. Portò una mano sugli occhi,
socchiudendoli. Poi le gambe gli cedettero e scivolò lentamente a terra
poggiando la schiena contro il muro.
La rossa si avvicinò preoccupata al biondo con uno slancio.
«Non ti senti bene? Cos'hai?»
«Nulla, nulla...» Bofonchiò l'altro, cominciando a respirare in modo
affannoso e per nulla normale.
Pepper, allarmata, gli passò una mano sulla fronte.
«Tu... scotti!»
La febbre alta probabilmente spiegava anche il momentaneo stato
confusionale.
«Non stai per niente bene.» Disse preoccupata. «Se non vuoi che ti
accompagni in ospedale, lascia almeno che ti aiuti ad arrivare a casa».
L'altro però non rispose. Sembrava in stato di sonnolenza, con gli
occhi semi aperti che fissavano il nulla dinanzi a sé.
Pepper valutò l'ipotesi di portarlo in ospedale, dato che non sembrava
in grado di fornirle indicazioni circa la sua ubicazione. Anche in quel
caso comunque vedeva difficile poter aiutare quel ragazzo da sola; il
suo fisico asciutto avrebbe a fatica sostenuto quello muscoloso del
biondo. Di chiamare un taxi, non se ne parlava; i due dollari scarsi
che aveva in tasca parlavano chiaro.
"Che faccio?" Pensò, sconsolata.
Dall'altro lato della strada giunse la voce di qualcuno.
«Signorina, sì, dico a lei! Ha bisogno di aiuto?»
La ragazza si voltò; dietro di lei vide arrivare a passo svelto un uomo
anziano che era appena uscito da un albergo poco distante.
«Ho assistito a tutta la scena e...» rimase di stucco quando vide chi
era il giovane bisognoso «e conosco quest'uomo. So anche dove abita.»
"Grazie al cielo!" Esordì mentalmente Pepper, ringraziando il
vecchietto con un largo sorriso. Poi, con non poca fatica, aiutarono il
ragazzo a salire sull'auto del gentile signore.
«Oh, che scortese, non mi sono presentato.» Disse simpaticamente
questo, mentre metteva in moto l'auto. «Stanley Martin Lieber, ma puoi
chiamarmi semplicemente Stan; al tuo servizio!»
Giovedì, 23 Dicembre 1991.
Sera tardi.
Un bicchiere vuoto girava e rigirava tra le mani di Tony Stark.
Solo, nella sua villa di New York ad un giorno esatto dalla vigilia di
Natale, osservava dal terrazzo la città in preda al panico. Sembrava
che tutta la popolazione dovesse comprare necessariamenre all'ultimo
secondo i regali da mettere sotto l'albero.
Non capiva il perché di tanta inutile frenesia. Rincorrere un dono che
statisticamente quasi mai la persona alla quale era destinato avrebbe
realmente apprezzato.
Mentre il suo cervello vagava senza una precisa meta, e il suo corpo si
rilassava sdraiato sulla costosa poltrona chaise longue disegnata da un
architetto detesco, qualcosa di freddo cadde sul suo naso.
Tony esaminò il piccolo frammento cristallino, portandolo vicino agli
occhi.
Quella meraviglia della natura resistette solo pochi attimi sul palmo
del ragazzo; poi si sciolse, svanendo nel nulla.
Il moro si alzò in piedi lentamente, avvicinandosi alla balaustra della
balconata mentre i fiocchi di neve iniziavano a cadere uno dopo l'altro.
«Chissà dove sei sparito.» Si chiese ad alta voce, guardando ancora giù
verso le strade trafficate, oltre il giardino che lo separava dal mondo
esterno.
Non aveva denunciato la polizia locale, benché Jarvis ormai mancasse da
parecchi giorni. Parlandone con Rhodey si rese conto sarebbe stato
meglio evitarlo, dal momento che si erano resi conto che il suo
maggiordomo non aveva il benché minimo straccio di un documento, il che
avrebbe costituito un grosso problema.
Il fatto che fosse sparito però lo preoccupava, quasi quanto l'arnese
che aveva trovato in camera sua dopo averla perquisita a fondo cercando
qualcosa che potesse aiutarlo nella sua silenziosa ricerca. Così,
mentre Rhodey conduceva discretamente delle indagini sfruttando la sua
posizione all'interno delle istituzioni americane, Tony si arrovellava
su quell'oggetto strano che aveva in tasca.
Mentre aveva poggiato il bicchiere ormai vuoto sul vicino tavolino, e
si apprestava per l'ennesima volta a tirarlo fuori per poterlo
esaminare, uno stridio di gomme proveniente dalla strada davanti alla
sua villa gli fece alzare lo sguardo.
Dall'auto parcheggiata malamente in doppia fila scese un anziano
signore, seguito da una ragazza dai capelli rossi e da un giovane uomo
che veniva sorretto difficilmente da entrambi.
Tony riconobbe immediatamente quella figura.
Rientrò in casa, percorse il corridoio, scese le scale e attraversò
l'atrio a passo svelto, sperando di non aver avuto un'allucinazione.
Dlin-dlon.
Mentre il campanello iniziò a suonare, Tony raggiunse la porta e l'aprì
senza esitare.
Lo strano trio che aveva davanti gli avrebbe potuto facilmente
strappare una risata, se fosse stato in un altro momento.
«Tony Stark?»
Domandò senza mezzi giri di parole la giovane dai capelli rossi.
«Esattamente. E voi non credo siate i fantasmi del Natale passato,
presente e futuro di Dickens, vero?»
La ragazza parve sconcertata dal comportamento di chi gli aveva appena
aperto la porta. Un turbamento che durò qualche millesimo di secondo,
dopo il quale rispose.
«Perché, avresti forse paura di confrontarti con i tuoi peccati, signor
Stark?»
Tony percepì il tono di sfida con cui quella sconosciuta lo stava
sfidando. Se fosse stato un altro momento avrebbe approfondito la
conoscenza con quella giovane. Ma la sua attenzione al momento era
rivolta all'individuo che lei e l'anziano signore stavano ancora
sostendo.
«L'ho trovato in stato confusionale su un marciapiede, qualche
chilometro da qui.» Riprese la giovane quando vide che l'attenzione del
suo interlocutore si posò preoccupata sul biondo. «Non sta bene, scotta
parecchio. Fortunatamente ho incontrato questo signore, il quale sapeva
dove risiedesse...»
«...Jarvis.» Concluse Tony la frase, dato che la ragazza evidentemente
non ricordava il suo nome.
Tony lo squadrò, preoccupato. Non aveva una bella cera e non sembrava
capire cosa stesse accadendo attorno a lui. Si avvicinò a lui come a
voler aiutare i due che si erano presentati alla sua porta, facendo
poggiare il corpo del suo maggiordomo su di lui.
"Accidenti quanto pesa". Pensò.
«Bella stamberga.» Esordì improvvisamente l'anziano vecchietto,
osservando oltre l'uscio di casa Stark i lussuosi interni che
l'adornavano.
«Oh, in realtà non sono shifosamente ricco, è che mi disegnano così!»
Rispose ironico, mentre cercava di fare i pochi passi che li avrebbero
ricondotti al caldo.
Poi si rigirò, come se si fosse dimenticato qualcosa d'importante.
«Non serve ringraziare, giovanotto». Lo anticipò l'uomo, voltandosi e
salutandolo con un cenno gentile. Poco dopo anche la ragazza fece lo
stesso e si voltò, pronta a varcare il cancello.
«Aspetta» la chiamò Tony, mentre la neve continuava a cadere «dimmi
almeno come ti chiami».
Lei, prima di girare l'angolo e tornare sui suoi passi, si voltò
un'ultima volta indietro.
«Pepper. Pepper Potts.»
Sabato, 25 Dicembre 1991.
Mattino.
Dlin-dlon.
Il campanello risuonò tra le pareti di villa Stark. L'uomo che
aspettava alla porta aveva poco tempo, ma non avrebbe rinunciato a fare
gli auguri di persona all'amico che viveva all'interno. Anche perché
voleva sapere gli sviluppi della convalescenza di Jarvis,
miracolosamente ritrovato la sera prima da due persone per strada e
misteriosamente avvolto in uno stato confusionale.
«Ehilà Rhodes! Felice festa di Babbo... qualcosa!»
Un Tony in vestaglia rossa aprì la porta di casa all'amico.
«Ergh, sarebbe "Buon Natale" in teoria.»
«Già; ma a te anche babbo si
abbina benissimo.»
Scuotendo la testa rassegnato, Rhodey si fece strada ed entrò
all'interno della villa. Anche perché fuori, complice lo spesso strato
di neve accumulatosi durante il giorno precedente, si moriva di freddo.
«Comunque sia, buon Natale Tony.» L'ospite porse al padrone di casa un
piccolo pacchetto regalo verde che aveva nascosto nella giacca scura.
«Da parte mia e dei miei genitori. Come sai, sono di passaggio. Mi
aspettano fuori in auto, andiamo dai miei zii a festeggiare.»
«Oh. già.» Rispose semplicemente Tony, rabbuiandosi.
Rhodey trovò strano il fatto che non avesse aggiunto qualche altra
battutina sarcastica, ma lasciò perdere. D'altronde, era Natale per
tutti.
«Come sta Jarvis?» Domandò improvvisamente al giovane Stark, cambiando
bruscamente argomento.
«Nessun miglioramento. Non si è ancora svegliato.»
«Forse però... ora sì.» Riprese sgomento Rhodes, ountanto il dito oltre
le spalle di Tony.
Il quale si girò rapido; Jarvis stava discendendo a passo incerto le
scale che lo separavano dai due, ancora vicini all'ingresso.
Tony lo vide camminare e fermarsi davanti a loro.
Per un attimo rimasero tutti in uno strano silenzio. Rotto infine dalla
voce flebile di Jarvis, il quale squadrò entrambi con aria confusa.
«Dove mi trovo? Chi siete?
E chi... chi sono io?»
Sabato, 25 Dicembre 1991.
Pranzo.
Dopo aver salutato Rhodes, Tony
esaminò Jarvis. Gli fece alcune domande, ma nessuna ebbe risposta.
Era come se soffrisse di una grave forma di amnesia totale. La quale
difficilmente poteva essere stata causata dallo stato febbrile nel
quale era piombato in casa il giorno prima del precedente.
Non ricordava niente di niente. Tony non aveva mai visto niente di
simile.
Cercò di spiegargli quel che sapeva su di lui. "In realtà poco o nulla"
si trovò a rimuginare.
Così aveva deciso che non era il caso di stare a tormentarlo troppo e
si era diretto in cucina. Sapeva che era il minore dei mali, ma si
sentiva perseguitato dalla sfortuna. Ritrova il maggiordomo che aveva
perso e questi... perdeva la memoria. Quindi anche la -già- scarsa
capacità ai fornelli.
Tuttavia Tony non voleva che, proprio il giorno di Natale, la tavola
rimanesse vuota. Aveva tanto odiato i pranzi natalizi passati con gente
snob dell'alta società, invitata dai suoi genitori puntualmente ogni
anno solo per interessi reciproci. Ora che entrambi erano scomparsi,
Tony quasi quasi rimpiangeva quei detestati ricordi.
Mentre trafficava alla ricerca di una pentola per cuocere qualcosa si
accorse che... non sapeva cosa avrebbe dovuto cuocere e come.
Mentre mandava al diavolo tutto, il rumore di un braccio meccanico
arrivò alle sue orecchie.
Dritto dritto dalla dispensa fece il suo traballante ingresso
ferrovecchio; stretta dalla morsa del suo artiglio una scatoletta di
tonno appena aperta.
“Meglio di niente" pensò, aprendone un'altra e mettendo il contenuto in
due piatti.
Prima di tornare nel soggiorno, dove Jarvis sedeva ad un lato della
tavola già imbandita, gettò un'occhio all'oggetto che ancora teneva in
tasca della vestaglia.
Lo tirò fuori, girandoselo tra le mani. Un pezzo di vetro trasparente
che non aveva niente di speciale.
Eppure, dopo averlo trovato tra le cose del suo misterioso maggiordomo
ed averlo studiato sommariamente, aveva concluso che nessuno va in giro
con un pezzo di vetro dai bordi arrotondati.
Poi lasciò scivolare via quei pensieri, prendendo i piatti e sorridendo
al maggiordomo.
"Almeno oggi. In fondo, è Natale."
FINE PRIMA PARTE.
Note finali:
Buonasera. Buonanotte. O buongiorno, in base al momento nel
quale tu stia leggendo queste parole!
Insomma, ave a tutti, romani e non. Questo capitolo non ha la
presunzione di essere migliore degli altri ma certamente è il più lungo
scritto fin ora ed è quella che ho definito come la "Fine della prima
parte". La lunghezza ve la devo; non aggiorno questa fiction da
tantissimo e volevo proprio farvi un regalo di Natale... Un po' in
ritardo, nevvero (ma tanto ormai siamo abituati a festeggiare il Natale
a primavera inoltrata, complice Iron Man 3)!
Insomma, sono in debito con voi. Con voi che avete continuato ad
aggiungere questa storia tra le seguite, ricordate, ecc. Con chi ha
continuato assiduamente a recensire, facendo sì che questo lavoro
continuasse e che io ci mettessi quel poco tempo che ho sempre
-purtroppo- avuto.
Quindi... eccomi qui, mentre dovrei -almeno- fingere di scrivere una
tesi, a pubblicare il nuovo capitolo di "Ritorno al Passato"! Non so
che altro aggiungere; vorrei scrivere qui sotto e usuali "precisazioni"
ma sono davvero troppe quindi mi limiterò, come capitato qualche
capitolo fa, a lasciare trovare curiosità e rimandi ad altri universi
al vostro occhio attento.
Vi ringrazio ancora, oh lettori vecchi e fidati oppure nuovi e freschi,
spero di non avervi tediato con questo lunghissimo scritto e... a
presto, nuovamente su questi lidi! La storia di Jarvis/Steve deve
continuare!! :)
Un abbraccio enorme!
_Diane_
Ps: Mi scuso fin da subito per eventuali errori di
battitura/distrazione! Spero di avere il tempo, nei prossimi giorni, di
poter rileggere attentamente il tutto!
Pss: Nel caso vi fosse qualche anima in pena giunta fin qui...
lascereste un commentino-ino-ino a questa povera autrice? ;)
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