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Autore: _Diane_    22/05/2013    2 recensioni
Dopo la fine della battaglia di New York contro alieni di vario tipo, ogni vendicatore è tornato alle sue usuali attività. Eccezion fatta che ogni giovedì sera il gruppo si ritrovi alla Stark Tower a vedersi in tutta pace un bel film. Al termine di una serata nella quale è stata proposta la visione di "Ritorno al Futuro", uno Steve ancora incerto del suo posto nel mondo viene colpito da un qualcosa che ne provoca lo svenimento. Al suo risveglio si ritroverà nuovamente spaesato nell'anno... 1991. Tra vecchi amici, nuove conoscenze, molti problemi, riuscirà il nostro Capitan America (alias Jarvis) a cavarsela e tornare a casa?
- Dal Capitolo Dieci -
«Tony Stark?»
Domandò senza mezzi giri di parole la giovane dai capelli rossi.
«Esattamente. E voi non credo siate i fantasmi del Natale passato, presente e futuro di Dickens, vero?»
La ragazza parve sconcertata dal comportamento di chi gli aveva appena aperto la porta. Un turbamento che durò qualche millesimo di secondo, dopo il quale rispose.
«Perché, avresti forse paura di confrontarti con i tuoi peccati, signor Stark?»
Genere: Avventura, Introspettivo, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Sorpresa, Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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capitolo 10 RIASSUNTO: Dopo la fine della battaglia di New York contro alieni di vario tipo, ogni vendicatore è tornato alle sue usuali attività. Eccezion fatta che ogni giovedì sera il gruppo si ritrovi alla Stark Tower a vedersi in tutta pace un bel film. Al termine di una serata nella quale è stata proposta la visione di "Ritorno al Futuro", uno Steve ancora incerto del suo posto nel mondo viene colpito da un qualcosa che ne provoca lo svenimento. Al suo risveglio si ritroverà nuovamente spaesato nell'anno... 1991. Tra vecchi amici, nuove conoscenze, molti problemi, riuscirà il nostro Capitan America (alias Jarvis) a cavarsela e a tornare a casa?





I'm paralyzed I'm paralyzed
Sono paralizzato dall'emozione
I'm lost in time I'm paralyzed
Sono perso nel tempo, sono paralizzato.

Paralyzed ~ The Fire




Capitolo Dieci

Martedì, 21 Dicembre 1991.
Sera.

«Sapevo che affidare un incarico di così importante ad una recluta non sarebbe stato esente da rischi...»

L'interno della stanza nella quale era stato "invitato" ad entrare pareva decisamente più buio del locale nel quale aveva precedentemente sostato. L'oscurità gli aveva reso difficile persino trovare la sedia sulla quale ora sedeva composto. Dinanzi a sè un freddo tavolo metallico, al lato opposto del quale sedeva colui che gli stava parlando. Non poteva vederlo; tuttavia percepiva lo sguardo penetrante dell'altro, desideroso di informazioni.

«ma non credevo avremmo mai assistito ad una tale esagerazione di azioni sconsiderate.» Terminò, dopo una breve pausa.

La mente di Philip Coluson si era rassegnata ad aspettare.
Attendeva, conserto ed immobile, che quelle parole giungessero. Ne era sicuro; la prossima frase avrebbe contenuto le due paroline magiche: "sei licenziato". Ma non erano quelle a fargli paura. In tutto lo S.H.I.E.L.D., benché nessuno volesse ammetterlo, aleggiavano strane storie di agenti scomparsi da un giorno con l'altro. Avrebbe preferito rescindere subito il contratto che lo legava a quell'uomo, ma sapeva bene che all'interno delle scartoffie firmate il giorno della sua assunzione nemmeno una alludeva a situazioni di quel tipo.
Il che non era per nulla confortante.

«Seminare la squadra che avevo affidato a questa recluta non dev'esserti stato semplice; agenti altamente addestrati, pronti a pedinamenti lunghi interi giorni e intere notti.»

Aspettava il vuoto d'aria di una botola che si apriva sotto il pavimento, quanto meno una raffica di mitra. D'altronde per il suo interlocutore non sarebbe stato difficile ucciderlo a sangue freddo. Tutti conoscevano le cose di cui era capace il direttore, benché in pochissimi avessero avuto l'occasione di parlargli.

«Diversi fattori che compongono un'equazione, complessa ed affascinante, alla quale manca l'incognita; chi sta proteggendo, agente Coulson?»

Una domanda del genere obbligava il pivello Philip Coulson ad una immediata risposta.
Avrebbe tanto voluto darla.
Voleva ardentemente spiegare gli avvenimenti degli ultimi giorni a qualcuno; il suo superiore sarebbe stata la persona migliore. Probabilmente avrebbe risolto il problema che si era creato, trovando dove diamine fosse finito... Capitan America, alias Steve Rogers.
Ma, mentre non riusciva a decidersi ad aprir bocca sull'argomento, provò uno strano brivido nel pronunciare mentalmente il nome di quell'uomo. Creduto morto da tutto il mondo, aveva deciso di confidarsi solamente con... lui. Ricordava bene le parole che gli aveva rivolto al termine di una lunga chiaccherata, quando lo aveva definito uno dei suoi amici "più leali e fidati". O almeno, lo sarebbe stato nel futuro.

«Il gatto ti ha morso la lingua?» Riprese a parlare l'altro, dalla penombra. Phil avvertiva i suoi passi nervosi sul pavimento, nonostante il tono di voce si manteneva particolarmente beffardo.

«Ho scommesso molto su di te, affidandoti la delicata missione di scoprire chi ha ucciso Howard Stark e sua moglie.»

Poi ancora silenzio.
Phil decise; non avrebbe aperto bocca.
Sia perché quello che gli aveva detto il Capitano Rogers gli sembrava simile alla confessione di un fedele con il prete. Informazioni strettamente personali da non cedere facilmente a terzi.
Inoltre anche se non conosceva perfettamente le leggi del continuo spazio-temporale, quel poco che aveva studiato di fisica unito ad alcune passioni adolescenziali - fumetti e film di fantascienza - lo mettevano in guardia; sapeva che qualsiasi informazione proveniente dal passato poteva avere conseguenze disastrose nel futuro. Giusto sei anni prima era uscito un film sull'argomento...
"Come si chiamava? Ah, già. Ritorno al futuro".

Improvvisamente però si rese conto di come il futuro potesse far male.
Il direttore dello S.H.I.E.L.D. terminò la pazienza quando, con un pugno ben assestato, balzò in avanti colpendo dritto in faccia Coulson. Il quale, spiazzato, cadde rovinosamente a terra, dopo aver udito un sonoro "clack" all'altezza del setto nasale.
Percepì il sangue caldo che iniziava a colargli lungo il viso, mentre la porta dalla quale era entratò si aprì nuovamente. Da essa fecero irruzione un paio di uomini enormi, armati, i quali con fare poco amichevole lo strattonarono e lo costrinsero ad alzarsi, tenendolo saldamente ognuno da una parte.

«Ora non ho più tempo da perdere.»

Coulson, per la prima volta in vita sua, vide il volto del direttore dello Strategic Homeland Intervention, Enforcement and Logistics Division. Lo immaginava piuttosto vecchio, sulla sessantina, con i capelli imbiancati dal tempo e la pelle percorsa da rughe. Invece il fascio di luce entrato dalla porta appena aperta, gli rivelò un uomo apparentemente sulla quarantina, di carnagione scura, completamente calvo. Una benda nera calata sull'occhio sinistro, quasi fosse un moderno filibustiere, ed un'uniforme lunga nera completavano il - poco rassicurante - quadro.

«Portatelo dove sapete. Forse più tardi avrà voglia di scambiare quattro chiacchere.»

Mentre il sangue continuava copioso a riversarsi sul pavimento e i due energumeni lo conducevano via, Coulson venne attanagliato da un preoccupante dubbio, che non aveva minimamente a che fare con gli avvenimenti di quello strano giorno.

Si chiese se Steve Rogers gli avesse raccontato tutto, ma proprio tutto riguardo al futuro.



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Giovedì, 23 Dicembre 1991.
Mattino.


Poteva vederlo.
Vedeva il volto disperato attraverso lo specchio di vetro che li separava.
Una lastra che gli appariva quasi incantata; attraverso di essa poteva percepire come proprie le emozioni provate dal dio del tuono; impotenza; debolezza; inadeguatezza.
Il possente Thor rinchiuso in una trappola di vetro realizzata dalla fragile mano dell'uomo. Un affronto; un'umilazione.

In un angolo della stanza buia una figura alta e slanciata, avvolta in sontuose vesti verde smeraldo, minacciava di poggiare il palmo contro una pulsantiera, dalla quale risaltava un vistoso pomello di colore rosso.
Steve vide Thor allontanarsi preoccupato dal bordo del sottile guscio di vetro dopo avere tentato, invano, di distruggerlo con un colpo ben assestato del suo possente martello magico. Purtroppo Fury aveva fatto un lavoro fin troppo accurato, con quella trappola.

«Gli umani ci ritengono immortali.» Esordì infine Loki, con fare solenne. Un sorriso beffardo dipinto sulle sottili labbra del dio.
«Vogliamo verificarlo?»

Thor indietreggiò ulteriormente, come fosse ormai pronto al destino di morte che lo aspettava. Annientato per mano dal suo stesso fratello, che tanto aveva amato e tanto aveva sperato di salvare.
Steve avrebbe voluto agire, avanzare, aggredire il dio delle malefatte e punirlo per tutto il dolore che aveva causato alla città di New York. Invece i suoi muscoli stranamente non risposero al suo comando, rimanendo ben saldati sulle griglie metalliche che componevano il precario pavimento dell'eliveivolo dello S.H.I.E.L.D. Non sembrava nemmeno accorgersi della presenza del capitano, quello stolto alieno.
Ma ad un certo punto qualcosa accadde nell'angolo vicino a lui; a pochi passi di distanza due agenti sotto il controllo di Loki caddero in avanti, come tramortiti. Steve sussultò, sollevato; qualche collega vendicatore era certamente venuto a conoscenza del pericolo ed era coraggiosamente corso in aiuto del dio del tuono.
Aspettò di vedere il riflesso brillante dell'armatura rossa ed oro di Stark, oppure l'arco teso con la freccia incoccata di Occhio di Falco.
Attese per quelli che parsero secoli; infine un uomo vestito con un elegante completo scuro scavalcò lentamente i due uomini ancora a terra.
Una voce gentile ma severa, come di un insegnante intento a recuperare l'attenzione di uno scolaro particolarmente insolente, lo fece trasalire.

«Per favore, indietro!»

L'agente Phil Coulson fece il suo ingresso, reggendo con entrambre le braccia quello che sembrava un pericoloso e sofisticato cannone. Steve era stranito; non riusciva a capire perché contro il pericoloso Loki lo S.H.I.E.L.D. avesse scelto di mandare proprio Coulson per quella missione disperata. Non che non nutrisse stima nei contronti dell'agente, anzi. Da quel poco che sapeva era niente meno che il braccio destro di Nick Fury, e non v'era persona all'interno dell'organizzazione più preparata di lui.
Ma perché mandarlo da solo? Dritto-dritto nella gabbia del leone? Steve non capiva. Inoltre desiderava ardentemente potersi muovere, avvicinarsi ed aiutarlo. Nemmeno il suo amico evidentemente lo poteva vedere; il capitano si crucciava, incapace di comprederne il perché.

«Ti piace? Abbiamo lavorato sul prototipo dopo che hai mandato il Distruttore. Neanch'io so cosa faccia... vogliamo verificarlo?»

Fu questione di un secondo.
Dopo che si udì il rumore vibrante dell'avvio della pericolosa arma impugnata da Coulson, Steve finalmente comprese.

Dove si trovava.

Che cosa stesse succedendo.

Perché non ci fosse nessun altro al fianco del suo amico.

La paura si impadronì della sua anima; quella che spesso aveva provato durante le battaglie affrontate nel suo vagare avanti e indietro nel tempo. Nessuno avrebbe mai creduto che il grande Capitan America potesse cedere ad una tale emozione, considerata appropriata solo per i deboli. Invece si trattava del motore che spesso lo spingeva ad agire d'istinto, mettendolo in moto anche quando sapeva che le speranze di sopravvivenza si rivelavano inesistenti.
Ma nonostante provasse a gridare con tutto il fiato che aveva in corpo, mentre i suoi neuroni bombardavano inutilmente di ordini il suo corpo di marmo, la tragica scena alla quale non aveva assistito in passato si ripropose dinanzi a lui come in un un film.
Il dio degli inganni materializzò sé stesso alle spalle di Coulson.
Steve aprì disperatamente la bocca; i suoi polmoni di supersoldato non riuscirono ad emette nemmeno un sibilo.
Lo scettro scintillante penetrò nella solida schiena dell'amico, che si incurvò impercettibilmente in avanti. Poi la punta di quell'arnese trapassò da parte a parte il ventre dell'amico.
Steve sentì come se avesse dilaniato la propria stessa carne.

Steve rivide Bucky.
Lo rivide cadere dal folle treno in corsa, precipitare nel vuoto, gli occhi disperati rivolti come in una supplica verso di lui.

Steve rivide il gentile professor Abraham Erskine.
Lo rivide mentre, poco prima di morire, cercava di dirgli qualcosa puntandogli un dito in direzione del suo cuore.

Steve rivide Tony.
Lo rivide fermo ed immobile dinanzi a sé dopo essere precipitato dal cielo polveroso di New York, steso a terra, immobile nell'armatura che avrebbe dovuto proteggere da ogni minaccia il figlio del suo vecchio amico.

Troppe persone che non era stato in grado di aiutare. Nei confronti delle quali si era sentito il gracile e piccolo ragazzino di Brooklin di anni e anni addietro.
Troppe, troppe emozioni.
Che finalmente lo destarono.

«Whoa!»

Il suo corpo fu percorso da uno spasmo fortissimo, come se fosse stato per qualche minuto di troppo in apnea sottacqua. I polmoni cercavano disperatamente la materia prima della quale sembravano momentaneamente privi, continuando ad espandere e comprimere freneticamente la gabbia toracica di Steve. Il quale si rese lentamente conto che quello che aveva appena vissuto era un incubo che lo riportava indietro nel tempo... anzi, in avanti.
Cercò di allontanare le immagini così vivive che tanto avevano impressionato la sua mente e cercò di concentrarsi sul presente, qualche diavolo fosse il tempo nel quale si trovava.
Immediatamente si rese conto di due cose; la prima era che i suoi occhi erano completamente accecati da una luce fortissima. La seconda che, ancora provato dai profondi spasmi che lo scuotevano tutto, in più era completamente bloccato supino mediante l'uso di parecchi sistemi metallici. Manette grandi come per legare un orso e catene argentate che non gli permettevano di muoversi, se non di pochi millimetri.
Non riusciva a capire dov'era. La luce bianca era troppo forte per permettere ai suoi occhi celesti di abituarvisi.
Percepì che si trovava sdraiato su di qualcosa di vagamente soffice, forse un letto. Ma le sue percezioni risultavano decisamente alterate; il senso di nausea e gli spasmi del risveglio non lo allontanavano man mano che scorreva il tempo. Steve si chiese se non fosse stato drogato. Non ne era sicuro dal momento che non aveva mai assunto sostanze stupefacenti in vita sua. Inoltre, per quanto ricordava gli fosse stato detto, dopo aver assunto il siero del supersoldato nemmeno i prodotti di sintesi più strani avrebbero fatto effetto sul suo corpo.Invece... non era vero?
Mentre ancora rifletteva frastornato su cosa potesse essergli successo, fu sicuro di aver avvertito un movimento impercettibile affianco a sé.

In quel posto doveva esserci qualcuno.
Chiunque fosse non avrebbe avuto certamente intenzioni amichevoli.
Il corpo di Steve cercò di rieagire ma, come se proseguisse anche nella realtà il precedente incubo, il biondo si trovò nella spiacevole situazione di non poter muovere un muscolo.

«Mhhhrggg...»

Riuscì a mugulare, frustrato e confuso, mentre percepiva il suo nemico scivolare lentamente al suo fianco. Si sentiva inerme, impotente, mentre lo percepiva appoggiarsi contro il giaciglio nel quale era costretto.
"Sarai contento di uccidere un uomo disarmato e incatenato, razza di codardo." Pensò furibondo, non smettendo si provare a riaquistare la padronanza perduta sul proprio corpo.

«Non sono un codardo. L'ho dimostrato, ieri sera.»

Come se fosse stato colpito per la seconda volta da un potente uragano che gli aveva squassato il cervello, Steve capì chi aveva di fronte e gli tornarono in mente gli ultimi istanti alla cerimonia di passaggio del testimone delle redini delle Stark Industries. Prima che cadesse a terra, colpito da una qualche arma. La voce non lasciava trasparire ironia, ma Rogers ne colse comunque parecchia.
Ma la cosa più strana, che probabilmente era da addebitare al suo momentaneo stato confusionale era che... quell'uomo gli aveva risposto prima che lui avesse potuto aprir bocca. Cosa che in effetti, momentaneamente, non gli riusciva.
Steve decise che, dopo aver visto cose stranissime in vita sua, nemmeno quello lo avrebbe scosso più di tanto. Complice la sostanza che aveva in corpo.

«Lo so benissimo» Continuò lentamente la voce neutra che gli rimbombava nel cervello. «per questo sono qui; per porre fine alle tue sofferenze».

Steve percepì l'uomo che si sporgeva sopra di lui, avvicinandosi al suo viso.
Avrebbe voluto vederlo in faccia, a quel vigliacco che gli aveva sparato. Che ora voleva metterlo a tacere per sempre. Quanto avrebbe dato per poter imbracciare il suo scudo e poi spaccarglielo in testa, assestargli un paio di colpi ben piazzati e poi lanciarlo in pasto ai primi mostri alieni di passaggio... Uh? Mostri alieni? Steve aveva davvero avuto a che fare con creature di un altro mondo?
Cercava di ricordare quando ciò fosse avvenuto, ma invano. Forse era avvenuto nell'ambito di una battaglia. Ma... che battaglia? E quando?

«Bene.» Esordì soddisfatta la voce nella sua testa. «Sta finalmente facendo effetto.»

L'altro evidentemente si riferiva alla sostanza che era in circolo nel corpo del supersoldato.
Ma proprio mentre percepiva il passato scivolare in un panorama grigio e piatto... Il volto sopra di sé, complice l'ombra che esso stesso proiettava su Steve, gli fu visibile per qualche secondo. Nel quale il biondo trasalì.

L'individuo in piedi smise di parlare in quel modo paranormale, preferendo le sue stesse labbra.

«Addio, Capitano.»


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Giovedì, 23 Dicembre 1991.
Sera.

La giovane e attraente chioma rossa di Virginia "Pepper" Potts ondeggiava ritmicamente su e giù, mentre la sua proprietaria camminava tranquilla per le chiassose strade della grande mela. Normalmente, dopo aver finito di lavorare, avrebbe preferito correre a casa senza perdere tempo ad osservare le vetrine che si frapponevano tra lei e il suo piccolo rifugio. Eppure quella sera, nonostante il cielo fosse coperto e le raffiche di gelo pungenti, dimenticandosi che con i soldi guadagnati al locale riusciva a malapena a pagarsi l'affitto, era lì a vagare.
Percorse tutta una lunga arteria viabilistica sul marciapiede, il naso arrossato che metteva becco in ogni vetrina che le catturava l'attenzione. Doveva ammettere che erano molte; d'altronde in periodo natalizio i commercianti non badavano a spese pur di vendere qualche articolo in più. Così ogni spazio antistante all'ingresso diventava un tripudio di colori, di canzoni registrate o di piccoli cori improvvisati, di luci pulsanti o di profumi gustosissimi di qualche prelibato dolciume.
Pepper continuò a camminare, stringendosi più forte a sé il suo giubbotto di pelle nera e chiedendosi perché aveva deciso di indossare anche quel giorno la sua minigonna preferita, nonostante i quasi meno dieci gradi sotto zero e la previsione di neve nelle successive ventiquattrore.

«Babbo Natale arriverà con la neve; come in ogni film natalizio che si rispetti.»

Sospirò, pensando che l'indomani non avrebbe dovuto recarsi al lavoro, bensì preparare le valigie per prendere un'aereo che l'avrebbe riportata dalla sua famiglia.
Mentre già pregustava le prelibatezze che sua madre stava già certamente iniziando a cucinare, data la sua passione ai fornelli, decise di attraversare la strada per passare d'inanzi ad alcuni negozi di vestiti eleganti che la facevano letteralmente sognare.
Sull'altro lato del marciapiede si piantò davanti alla vetrina, scandagliandola inutilmente in cerca di qualcosa che costasse meno di 50 dollari. Come immaginava, non poteva permettersi nemmeno una striminzita cintura.

"Verrà il giorno in cui indosserò qualcosa di decente. Diverrò qualcuno d'importante. Farò strada. Sarò finalmente rispettata e, perché no... amata."

Sospirò per una seconda volta, consapevole che probabilmente quando sarebbe tornata a New York in tempo per il Capodanno l'avrebbe festeggiato come al solito in compagnia dei suoi più stretti amici, tutti in coppia da anni con altri ragazzi e ragazze. L'unica senza nessuno sarebbe stata, come da copione, solamente lei.

«Ehi!»

Improvvisamente qualcuno, nella ressa in movimento su quel lato del marciapiede, la colpì forte sulla schiena, facendole perdere l'equilibrio. Se non fosse stato per i suoi riflessi pronti sarebbe finita dritta dritta all'interno della tanto adorata vetrina del negozio.

«Insomma, che modi sarebbero?» Esordì alterata, mentre si girò di scatto pronta ad aggredire verbalmente quel maldestro passante.

Davanti a lei però non c'era esattamente quel maldestro passante che aveva aspettato di trovarsi, bensì un giovane uomo alto e muscoloso, vestito elegantemente e di tutto punto. Solo i capelli biondi erano più spettinati dalla prima - e anche ultima - volta che l'aveva visto, mentre gli occhi azzurri vagavano persi nel vuoto dinanzi a sé, come a voler cercare qualcosa che aveva perso.

«Ma... io ti conosco! Ci siamo incrociati qualche giorno fa nel locale dove lavoro!»

Lo sguardo del ragazzo finalmente si posò su di lei, anche se non ricambiò il saluto, anzi. Sul suo volto si compose un'espressione di smarrimento.

«Massì, ero la ragazza che ti ha servito al tavolo, mentre tu disegnavi...»

Ma l'altro non diede segni di ricordare alcunchè.

«Mi scusi signorina, non credo proprio di conoscerla.» Disse in modo gentile infine l'altro, dopo averla squadrata in modo approssimativo per qualche secondo.

Poi il ragazzo, del quale Pepper ricordò non sapeva nemmeno il nome, ebbe come un giramento di testa. Portò una mano sugli occhi, socchiudendoli. Poi le gambe gli cedettero e scivolò lentamente a terra poggiando la schiena contro il muro.
La rossa si avvicinò preoccupata al biondo con uno slancio.

«Non ti senti bene? Cos'hai?»

«Nulla, nulla...» Bofonchiò l'altro, cominciando a respirare in modo affannoso e per nulla normale.

Pepper, allarmata, gli passò una mano sulla fronte.

«Tu... scotti

La febbre alta probabilmente spiegava anche il momentaneo stato confusionale.

«Non stai per niente bene.» Disse preoccupata. «Se non vuoi che ti accompagni in ospedale, lascia almeno che ti aiuti ad arrivare a casa».

L'altro però non rispose. Sembrava in stato di sonnolenza, con gli occhi semi aperti che fissavano il nulla dinanzi a sé.
Pepper valutò l'ipotesi di portarlo in ospedale, dato che non sembrava in grado di fornirle indicazioni circa la sua ubicazione. Anche in quel caso comunque vedeva difficile poter aiutare quel ragazzo da sola; il suo fisico asciutto avrebbe a fatica sostenuto quello muscoloso del biondo. Di chiamare un taxi, non se ne parlava; i due dollari scarsi che aveva in tasca parlavano chiaro.

"Che faccio?" Pensò, sconsolata.

Dall'altro lato della strada giunse la voce di qualcuno.

«Signorina, sì, dico a lei! Ha bisogno di aiuto?»

La ragazza si voltò; dietro di lei vide arrivare a passo svelto un uomo anziano che era appena uscito da un albergo poco distante.

«Ho assistito a tutta la scena e...» rimase di stucco quando vide chi era il giovane bisognoso «e conosco quest'uomo. So anche dove abita.»

"Grazie al cielo!" Esordì mentalmente Pepper, ringraziando il vecchietto con un largo sorriso. Poi, con non poca fatica, aiutarono il ragazzo a salire sull'auto del gentile signore.

«Oh, che scortese, non mi sono presentato.» Disse simpaticamente questo, mentre metteva in moto l'auto. «Stanley Martin Lieber, ma puoi chiamarmi semplicemente Stan; al tuo servizio!»


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Giovedì, 23 Dicembre 1991.
Sera tardi.

Un bicchiere vuoto girava e rigirava tra le mani di Tony Stark.
Solo, nella sua villa di New York ad un giorno esatto dalla vigilia di Natale, osservava dal terrazzo la città in preda al panico. Sembrava che tutta la popolazione dovesse comprare necessariamenre all'ultimo secondo i regali da mettere sotto l'albero.
Non capiva il perché di tanta inutile frenesia. Rincorrere un dono che statisticamente quasi mai la persona alla quale era destinato avrebbe realmente apprezzato.
Mentre il suo cervello vagava senza una precisa meta, e il suo corpo si rilassava sdraiato sulla costosa poltrona chaise longue disegnata da un architetto detesco, qualcosa di freddo cadde sul suo naso.
Tony esaminò il piccolo frammento cristallino, portandolo vicino agli occhi.
Quella meraviglia della natura resistette solo pochi attimi sul palmo del ragazzo; poi si sciolse, svanendo nel nulla.

Il moro si alzò in piedi lentamente, avvicinandosi alla balaustra della balconata mentre i fiocchi di neve iniziavano a cadere uno dopo l'altro.

«Chissà dove sei sparito.» Si chiese ad alta voce, guardando ancora giù verso le strade trafficate, oltre il giardino che lo separava dal mondo esterno.

Non aveva denunciato la polizia locale, benché Jarvis ormai mancasse da parecchi giorni. Parlandone con Rhodey si rese conto sarebbe stato meglio evitarlo, dal momento che si erano resi conto che il suo maggiordomo non aveva il benché minimo straccio di un documento, il che avrebbe costituito un grosso problema.
Il fatto che fosse sparito però lo preoccupava, quasi quanto l'arnese che aveva trovato in camera sua dopo averla perquisita a fondo cercando qualcosa che potesse aiutarlo nella sua silenziosa ricerca. Così, mentre Rhodey conduceva discretamente delle indagini sfruttando la sua posizione all'interno delle istituzioni americane, Tony si arrovellava su quell'oggetto strano che aveva in tasca.
Mentre aveva poggiato il bicchiere ormai vuoto sul vicino tavolino, e si apprestava per l'ennesima volta a tirarlo fuori per poterlo esaminare, uno stridio di gomme proveniente dalla strada davanti alla sua villa gli fece alzare lo sguardo.
Dall'auto parcheggiata malamente in doppia fila scese un anziano signore, seguito da una ragazza dai capelli rossi e da un giovane uomo che veniva sorretto difficilmente da entrambi.
Tony riconobbe immediatamente quella figura.
Rientrò in casa, percorse il corridoio, scese le scale e attraversò l'atrio a passo svelto, sperando di non aver avuto un'allucinazione.

Dlin-dlon.

Mentre il campanello iniziò a suonare, Tony raggiunse la porta e l'aprì senza esitare.
Lo strano trio che aveva davanti gli avrebbe potuto facilmente strappare una risata, se fosse stato in un altro momento.

«Tony Stark?»

Domandò senza mezzi giri di parole la giovane dai capelli rossi.

«Esattamente. E voi non credo siate i fantasmi del Natale passato, presente e futuro di Dickens, vero?»

La ragazza parve sconcertata dal comportamento di chi gli aveva appena aperto la porta. Un turbamento che durò qualche millesimo di secondo, dopo il quale rispose.

«Perché, avresti forse paura di confrontarti con i tuoi peccati, signor Stark?»

Tony percepì il tono di sfida con cui quella sconosciuta lo stava sfidando. Se fosse stato un altro momento avrebbe approfondito la conoscenza con quella giovane. Ma la sua attenzione al momento era rivolta all'individuo che lei e l'anziano signore stavano ancora sostendo.

«L'ho trovato in stato confusionale su un marciapiede, qualche chilometro da qui.» Riprese la giovane quando vide che l'attenzione del suo interlocutore si posò preoccupata sul biondo. «Non sta bene, scotta parecchio. Fortunatamente ho incontrato questo signore, il quale sapeva dove risiedesse...»

«...Jarvis.» Concluse Tony la frase, dato che la ragazza evidentemente non ricordava il suo nome.

Tony lo squadrò, preoccupato. Non aveva una bella cera e non sembrava capire cosa stesse accadendo attorno a lui. Si avvicinò a lui come a voler aiutare i due che si erano presentati alla sua porta, facendo poggiare il corpo del suo maggiordomo su di lui.

"Accidenti quanto pesa". Pensò.

«Bella stamberga.» Esordì improvvisamente l'anziano vecchietto, osservando oltre l'uscio di casa Stark i lussuosi interni che l'adornavano.

«Oh, in realtà non sono shifosamente ricco, è che mi disegnano così!» Rispose ironico, mentre cercava di fare i pochi passi che li avrebbero ricondotti al caldo.
Poi si rigirò, come se si fosse dimenticato qualcosa d'importante.

«Non serve ringraziare, giovanotto». Lo anticipò l'uomo, voltandosi e salutandolo con un cenno gentile. Poco dopo anche la ragazza fece lo stesso e si voltò, pronta a varcare il cancello.

«Aspetta» la chiamò Tony, mentre la neve continuava a cadere «dimmi almeno come ti chiami».

Lei, prima di girare l'angolo e tornare sui suoi passi, si voltò un'ultima volta indietro.

«Pepper. Pepper Potts.»


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Sabato, 25 Dicembre 1991.
Mattino.

Dlin-dlon.

Il campanello risuonò tra le pareti di villa Stark. L'uomo che aspettava alla porta aveva poco tempo, ma non avrebbe rinunciato a fare gli auguri di persona all'amico che viveva all'interno. Anche perché voleva sapere gli sviluppi della convalescenza di Jarvis, miracolosamente ritrovato la sera prima da due persone per strada e misteriosamente avvolto in uno stato confusionale.

«Ehilà Rhodes! Felice festa di Babbo... qualcosa

Un Tony in vestaglia rossa aprì la porta di casa all'amico.

«Ergh, sarebbe "Buon Natale" in teoria.»

«Già; ma a te anche babbo si abbina benissimo.»

Scuotendo la testa rassegnato, Rhodey si fece strada ed entrò all'interno della villa. Anche perché fuori, complice lo spesso strato di neve accumulatosi durante il giorno precedente, si moriva di freddo.

«Comunque sia, buon Natale Tony.» L'ospite porse al padrone di casa un piccolo pacchetto regalo verde che aveva nascosto nella giacca scura. «Da parte mia e dei miei genitori. Come sai, sono di passaggio. Mi aspettano fuori in auto, andiamo dai miei zii a festeggiare.»

«Oh. già.» Rispose semplicemente Tony, rabbuiandosi.
Rhodey trovò strano il fatto che non avesse aggiunto qualche altra battutina sarcastica, ma lasciò perdere. D'altronde, era Natale per tutti.

«Come sta Jarvis?» Domandò improvvisamente al giovane Stark, cambiando bruscamente argomento.

«Nessun miglioramento. Non si è ancora svegliato.»

«Forse però... ora sì.» Riprese sgomento Rhodes, ountanto il dito oltre le spalle di Tony.
Il quale si girò rapido; Jarvis stava discendendo a passo incerto le scale che lo separavano dai due, ancora vicini all'ingresso.
Tony lo vide camminare e fermarsi davanti a loro.
Per un attimo rimasero tutti in uno strano silenzio. Rotto infine dalla voce flebile di Jarvis, il quale squadrò entrambi con aria confusa.

«Dove mi trovo? Chi siete?
E chi... chi sono io?»


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Sabato, 25 Dicembre 1991.
Pranzo.


Dopo aver salutato Rhodes, Tony esaminò Jarvis. Gli fece alcune domande, ma nessuna ebbe risposta.
Era come se soffrisse di una grave forma di amnesia totale. La quale difficilmente poteva essere stata causata dallo stato febbrile nel quale era piombato in casa il giorno prima del precedente.
Non ricordava niente di niente. Tony non aveva mai visto niente di simile.
Cercò di spiegargli quel che sapeva su di lui. "In realtà poco o nulla" si trovò a rimuginare.
Così aveva deciso che non era il caso di stare a tormentarlo troppo e si era diretto in cucina. Sapeva che era il minore dei mali, ma si sentiva perseguitato dalla sfortuna. Ritrova il maggiordomo che aveva perso e questi... perdeva la memoria. Quindi anche la -già- scarsa capacità ai fornelli.

Tuttavia Tony non voleva che, proprio il giorno di Natale, la tavola rimanesse vuota. Aveva tanto odiato i pranzi natalizi passati con gente snob dell'alta società, invitata dai suoi genitori puntualmente ogni anno solo per interessi reciproci. Ora che entrambi erano scomparsi, Tony quasi quasi rimpiangeva quei detestati ricordi.

Mentre trafficava alla ricerca di una pentola per cuocere qualcosa si accorse che... non sapeva cosa avrebbe dovuto cuocere e come.
Mentre mandava al diavolo tutto, il rumore di un braccio meccanico arrivò alle sue orecchie.
Dritto dritto dalla dispensa fece il suo traballante ingresso ferrovecchio; stretta dalla morsa del suo artiglio una scatoletta di tonno appena aperta.

“Meglio di niente" pensò, aprendone un'altra e mettendo il contenuto in due piatti.
Prima di tornare nel soggiorno, dove Jarvis sedeva ad un lato della tavola già imbandita, gettò un'occhio all'oggetto che ancora teneva in tasca della vestaglia.
Lo tirò fuori, girandoselo tra le mani. Un pezzo di vetro trasparente che non aveva niente di speciale.
Eppure, dopo averlo trovato tra le cose del suo misterioso maggiordomo ed averlo studiato sommariamente, aveva concluso che nessuno va in giro con un pezzo di vetro dai bordi arrotondati.
Poi lasciò scivolare via quei pensieri, prendendo i piatti e sorridendo al maggiordomo.

"Almeno oggi. In fondo, è Natale."



FINE PRIMA PARTE.




















Note finali:

Buonasera. Buonanotte. O buongiorno, in base al momento nel quale tu stia leggendo queste parole!
Insomma, ave a tutti, romani e non. Questo capitolo non ha la presunzione di essere migliore degli altri ma certamente è il più lungo scritto fin ora ed è quella che ho definito come la "Fine della prima parte". La lunghezza ve la devo; non aggiorno questa fiction da tantissimo e volevo proprio farvi un regalo di Natale... Un po' in ritardo, nevvero (ma tanto ormai siamo abituati a festeggiare il Natale a primavera inoltrata, complice Iron Man 3)!
Insomma, sono in debito con voi. Con voi che avete continuato ad aggiungere questa storia tra le seguite, ricordate, ecc. Con chi ha continuato assiduamente a recensire, facendo sì che questo lavoro continuasse e che io ci mettessi quel poco tempo che ho sempre -purtroppo- avuto.
Quindi... eccomi qui, mentre dovrei -almeno- fingere di scrivere una tesi, a pubblicare il nuovo capitolo di "Ritorno al Passato"! Non so che altro aggiungere; vorrei scrivere qui sotto e usuali "precisazioni" ma sono davvero troppe quindi mi limiterò, come capitato qualche capitolo fa, a lasciare trovare curiosità e rimandi ad altri universi al vostro occhio attento.

Vi ringrazio ancora, oh lettori vecchi e fidati oppure nuovi e freschi, spero di non avervi tediato con questo lunghissimo scritto e... a presto, nuovamente su questi lidi! La storia di Jarvis/Steve deve continuare!! :)

Un abbraccio enorme!

_Diane_


Ps: Mi scuso fin da subito per eventuali errori di battitura/distrazione! Spero di avere il tempo, nei prossimi giorni, di poter rileggere attentamente il tutto!
Pss: Nel caso vi fosse qualche anima in pena giunta fin qui... lascereste un commentino-ino-ino a questa povera autrice? ;)
   
 
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