Di
semidei e tinte pastello.
Donne.
Achille
aveva sganciato la bomba
mentre erano nel letto di casa sua.
No,
non il genere di bomba che ti
fa alzare di corsa ad aprire le finestre per arieggiare…
molto peggio. A conti
fatti era meglio una puzzetta – quella almeno se ne sarebbe
andata con il vento
–, al contrario di quelle terribili cinque parole che erano
rimaste ad
aleggiare nel cervello di Azzurra per i trenta minuti successivi,
quando lui si
era già addormentato, un braccio ciondoloni sul suo corpo. E
lì, circondata da
quegli arti che ormai le parevano più artigli, si era
sentita improvvisamente
inquieta.
Non
erano solo cinque parole. Erano
le cinque parole.
-
Credo dovresti conoscere i miei.
Oh,
Vergine Madre delle Ande! I
suoi genitori? Gesù, che aveva fatto di male? Era
perché aveva russato troppo
forte la notte prima? Perché gli aveva finito i biscotti con
la scusa
palesemente falsa della sindrome premestruale? Perché
continuava a propinargli
le stagioni di Downton Abbey?
Andiamo, ormai si era appassionato anche lui, anche se non
l’avrebbe mai
ammesso. E se era di nuovo per quello spoiler che le era scappato sulla
morte
di Lady Sybil, si era già scusata venti volte e aveva
già pure espiato,
sopportando una settimana di broncio.
Mah.
Più ci pensava, più non capiva
cosa mai avesse combinato per meritare di essere spedita nelle fauci di
mamma
Quaresmini. Non l’aveva mai incontrata dal vivo, ma a
giudicare dal tono acuto
da ultrasuono canino che proveniva sempre dal cellulare di Achille, le
faceva paura.
Le sembrava di ricordare che si chiamasse Dorotea o Dora, qualcosa del
genere.
Però era certa che, in qualità di fidanzata del
suo unico figlio maschio, la
sua reazione alla presentazione sarebbe stata inequivocabile: odio
profondo. O
peggio, odio profondo malcelato dietro una fredda cortesia. Si doveva
aspettare
sputi nel caffè, forchette leccate dal cane e
chissà quale altra schifezza.
Magari c’era speranza di piacere al padre, Ettore, del quale
non sapeva
pressoché nulla, se non che era tifoso sfegatato della
Juventus, come il figlio
del resto, e che quando potevano si trovavano a guardare le partite
insieme.
Poteva rinfrescare le sue nozioni calcistiche e provare ad
impressionarlo con
qualche statistica scaricata da internet… visti i precedenti
con le ricerche
sulla rete per far colpo su uno dei Quaresmini, perché non
tentare con un altro
membro della famiglia?
Achille
aveva biascicato qualcosa
nel sonno, distogliendola dai suoi pensieri. Grazie a Dio da un paio di
mesi si
era iscritto in piscina con Fabrizio e ci andava due volte a settimana,
ogni
lunedì e giovedì; quando tornava era
così stanco che si lanciava verso il
tavolo, mangiava come se non ci fosse un domani e poi andava a dormire,
trascinandosi come un orso obeso e incinto verso il
letto. Menomale era
giovedì. Ed era Aprile, e la sua simpatica allergia alle
graminacee ed affini
aveva contribuito a metterlo ko: praticamente si era addormentato ancor
prima
che lei avesse l’occasione di dire qualsiasi cosa.
Chissà…
magari se ne sarebbe
dimenticato.
-
Allora, Trent? A quando la cena
dai miei?
Maledetto.
Azzurra si stava
insaponando sotto la doccia, ma non appena udì quella frase
si bloccò. Rimase
nuda e infreddolita sotto il getto d’acqua tiepido, ad un
tratto le quattro
pareti del box doccia sembravano una gabbia. Non sarebbe più
uscita da quel
bagno, se ciò avesse comportato dover dare una risposta ad
Achille. Quella era
pur sempre casa di lui, ci dovevano essere delle scorte di cibo nel
mobiletto
sotto il lavello o dietro il termo-arredo.
Lui
era impegnato a farsi il nodo
alla cravatta davanti allo specchio della sua camera e non
poté godersi
l’espressione di puro panico che si era dipinta sulla faccia
di lei. Attese
almeno trenta secondi una risposta che non arrivò, poi smise
di aspettarla. Sorrise
soddisfatto: che tenera, Azzurra doveva essere emozionata per la
proposta.
Insomma, presentarla ai suoi genitori era un passo importante,
significava che
aveva davvero intenzioni serie con lei, come se non
gliel’avesse già
dimostrato, poi. Probabilmente stava saltellando dalla gioia in bagno e
non
trovava le parole per esprimere la sua contentezza. Adorabile.
-
Azzurra? – riprovò.
Nella
doccia, la ragazza si guardò
intorno freneticamente per cercare una via di fuga. Constatò
che ogni volta che
voleva o doveva scappare da Achille, si ritrovava nel suo bagno. Forse
era
perché era un ambiente così accogliente,
così confortevole, così… non aveva il
tempo di cercare altri aggettivi.
Merda,
merda, merda.
Avrebbe
finto di non aver sentito,
ecco. Peccato che la voce del riccio si stesse facendo sempre
più vicina.
Qualche secondo più tardi, infatti, stava bussando alla
porta.
-
Ehi?
Lei
capì che avrebbe dovuto
improvvisare qualcosa, e in fretta. Si congratulò con
sé stessa per avere
chiuso a chiave la porta – e perciò avrebbe
ringraziato sia la sua regolarità
intestinale, sia le sue paranoie sul non farsi beccare sulla tazza del
water
dal suo ragazzo – e accese la radio nella doccia. Si
sciacquò alla velocità
della luce, cominciando a canticchiare a voce alta, affinché
Achille capisse
che non era morta lì dentro. Passò veloce un
asciugamano sui capelli fradici e
si avvolse nell’accappatoio che aveva lasciato
sull’attaccapanni per quando si
fermava a dormire da lui.
Achille
bussò più forte.
-
Trent?
Mentre
si infilava reggiseno e
mutande e le punte dei capelli le sgocciolavano sulla schiena ancora
umida,
Azzurra fece una smorfia di dolore. Perché lui voleva
rovinare tutto? Non
stavano bene insieme? C’era bisogno di coinvolgere sua madre?
-
Non ti sento! – gli urlò,
sperando di zittirlo.
Indossò
un vestito giallo e
tralasciò le calze, le avrebbe indossate a casa sua o in
macchina. Prese un
respiro profondo, prima di aprire la porta e schizzare fuori dalla
stanza e
nella camera da letto.
-
Eccoti, finalmente! – le disse
Achille. – Stavo dicendo…
Lei
lo zittì con un bacio che lo
colse impreparato, ma non meno propenso a riceverlo.
-
Devo scappare, – si affrettò ad
aggiungere.
Il
ragazzo le fissò la capigliatura
madida e sconvolta, chiaramente non pettinata. Magari questo dettaglio
non lo
avrebbe fatto presente.
-
Hai tutti i capelli bagnati, ti
ammalerai…
Azzurra
recuperò borsa e
cartelletta dei lavori e afferrò veloce il soprabito. Le
chiavi della macchina
erano disperse in qualche tasca, ma non aveva tempo di cercarle. Per
questo
esisteva il tragitto fino al parcheggio.
-
Passo da casa, mi cambio, vado a
lavoro, poi pausa pranzo, poi di nuovo lavoro… ci sentiamo,
eh? Ciao!
Non
gli restò che fissarla sorpreso
uscire di casa sua come una furia. Scalza. Ecco infatti il campanello
suonare
all’impazzata. Achille roteò gli occhi e sorrise,
afferrando le scarpe, prima
di andare ad aprire la porta.
-
Merda, cazzo… scusa. Ho
dimenticato le scarpe! – Azzurra lo sorpassò,
carica ancora di tutte le sue
cose e iniziò a cercare il paio di ballerine che aveva
indossato la sera
precedente. Controllò sotto il letto e il comodino, persino
tra le coperte,
mentre imprecava sul ritardo e su un tale Lloyd Wright che Achille non
sapeva
chi fosse.
-
Architetto? – la chiamò
cantilenando.
-
Eh? Che c’è? – lei allargò il
raggio della sua ricerca fino al bagno.
-
Ce le ho io, le tue scarpe.
La
ragazza corse di nuovo alla
porta, gli diede di nuovo un bacio e afferrò il prezioso
tesoro. Avanzò
saltellando con un piede e poi con l’altro per infilarle e si
congedò con un ciao
frettoloso dai tre gradini
dell’entrata.
Oh,
sì. Quella sbadataggine era un
chiaro sintomo di profonda commozione.
Per
fortuna, Dalila non si era
fatta pregare troppo. Non ne aveva avuto il tempo. Aveva fatto il turno
di
notte in ospedale ed aveva progettato di dormire per buona parte della
mattinata, magari godendosi un brunch ipercalorico a base di gelato
direttamente tra le coperte, ma la chiamata di Azzurra alle 8.27
l’aveva
svegliata inesorabile. Era stata aggredita dalla parlantina
dell’amica, che
l’aveva confusa a tal punto da non rendersi neppure conto di
aver accettato di
pranzare con lei in città all'una in punto. Inutile dire che
non aveva potuto
disdire; la voce di Azzurra era così disperata che temeva le
fosse successo
qualcosa di grave. Naturalmente un grave nella
scala Trentini, cioè nulla di preoccupante.
Rimase
sotto il piumone finché
poté, poi si vestì con il primo abito che
trovò e indossò degli strategici
occhiali da sole per coprire le occhiaie sopravvissute
all’attacco del
correttore.
Lasciò
l’auto proprio vicino al
bar, punto d’incontro, in uno spazio dedicato al carico e
scarico: non aveva
intenzione di pagare per il parcheggio più in là
o tantomeno lanciarsi in una
ricerca per un posto libero gratis. Constatò che
c’era crisi, i negozi erano
vuoti, non c’era necessità di caricare e scaricare
la merce mentre lei
pranzava. Potevano farlo in un altro momento.
Azzurra
la stava già aspettando,
seduta ad un tavolo. Si stava guardando intorno come un segugio,
neanche stesse
facendo da palo durante una rapina. Parve calmarsi, non appena scorse
l’amica
arrivare con passo rilassato – un po’ troppo per i
suoi gusti. Ma non aveva
sentito lo stato di agitazione nella sua voce al telefono? –
e le fece cenno di
muoversi più celermente.
-
Non ho capito un corno di quello
che mi hai detto al telefono, stamattina. – esordì
l’altra, accomodandosi
proprio di fronte a lei.
-
Solo tre parole: conoscere i
suoi. – Dalila alzò le sopracciglia. –
Genitori.
-
Sono quattro.
Azzurra
arricciò il naso dal
disappunto.
-
No, erano tre; ho dovuto
aggiungere la quarta dopo.
-
E allora perché non l’hai detta
subito? – sbuffò l’altra, brandendo la
lista di piatti del giorno.
-
Perché pensavo avresti capito.
-
Pensi che non abbia capito? –
ribatté con noncuranza.
-
Non lo so… Hai capito?
Dalila
digrignò i denti e abbassò
il menu, fissando Azzurra da sopra gli occhiali da sole.
-
Sono stanca, tesoro, non scema.
Da uno a dieci, quanto sei impazzita quando te l’ha detto?
Beh,
era difficile fare una stima
così, su due piedi. Era un’adulta ed era
perfettamente in grado di gestire la
situazione, non è che sarebbe corsa da sua madre in lacrime
per la paura
d’incontrare i signori Quaresmini… un bagno
sembrava più appropriato. O anche
un pannolino.
-
Mmm… cinque? – scrollò le spalle.
-
…cento?
Un
cameriere interruppe quello
strazio di conversazione con un sorriso che apparve ad entrambe fuori
luogo.
Per fortuna le notevoli dimensioni del bicipite si rivelarono avere
degli
effetti curativi; quasi quasi Dalila non era più dispiaciuta
di essere stata
catapultata fuori dal letto.
-
Buongiorno. Siamo pronti? –
domandò con gentilezza.
Azzurra
lo guardò come se avesse
appena visto E.T. in sella ad una mountain-bike.
-
Grazie, grazie di averlo chiesto!
– sbottò, sorprendendo gli altri due. –
È esattamente quello che mi sono
chiesta anch’io. Siamo pronti? Voglio dire, è un
passo importante, non è una
decisione da prendere sottogamba!
Dalila
e il cameriere si
scambiarono un’occhiata confusa. Lui finse di dover sistemare
qualcosa sul suo
taccuino elettronico, mentre lei si limitava a fissare basita
l’amica.
-
Tesoro, temo si riferisse al
pranzo.
-
Dali, sarà una cena, credo.
-
Oh Gesù, aiutami! Il pranzo di
oggi: vuole le nostre ordinazioni.
Ah.
Beh, francamente Azzurra era un
po’ delusa. Ma d’altronde se lo doveva aspettare;
in qualità di uomo, la sua
profondità d’animo era pari a quella di un
bicchiere di acqua. Vuoto.
- Okay, prenderò un’insalata di pollo.
-
Facciamo due, – propose Dalila. –
E una bottiglia di vino rosso. Molto piena, mi raccomando.
Il
ragazzo appuntò tutto e
optò per non interagire ulteriormente con
quelle due stramboidi. Sussurrò un perfetto
a se stesso quando già si era già allontanato dal
loro tavolo. Purtroppo, però,
la tregua non durò molto: non appena ritornò per
lasciare il vino, una delle
due, quella che in apparenza sembrava la più normale
– la sua valutazione si
basava sul solo fatto che lei avesse capito la questione ordinazioni
– gli
rivolse la parola.
-
Ehi, puoi portaci anche il dolce,
dopo l’insalata?
Oddio,
si sarebbero trattenute
ancora più tempo! Non gli rimaneva che sperare che
intendesse un vero dessert e
non lui, come purtroppo era già capitato con una sessantenne
sgallettata e una
turista tedesca con più denti che capelli.
-
Certo. – si sforzò di sorridere.
-
Due fette di torta della suocera,
grazie.
Non
riuscì a sospirare dal
sollievo, perché quelle due cominciarono a ridere a
crepapelle. Cercò di
fingere che la cosa non lo turbasse, ma alla fine cedette: si
voltò per
assicurarsi che non si stessero prendendo gioco di lui. Ma ecco che,
mentre
quella più normale stava continuando a sghignazzare
incontrollabile, l’altra,
cellullare alla mano, sembrò sull’orlo di una
crisi isterica.
Il
ragazzo scosse la testa, tornò
verso l’interno del bar e catalogò
l’episodio con una sola parola: donne.
Era
da almeno un’ora che le
ripeteva che sarebbe andato tutto bene – senza che peraltro
lei desse il minimo
accenno di dubitarne –, ma ormai lui stava cominciando ad
agitarsi. In realtà,
era onestamente convinto che a suo padre sarebbe piaciuta, il problema
vero era
sua madre. Lei poteva essere… poco disponibile talvolta, per
così dire, Achille
ne era ben consapevole.
Dora
Quaresmini era la classica
mamma chioccia, di quelle che ti chiamano ogni giorno per chiederti se
hai
mangiato a sufficienza e che hanno la lieve tendenza a non vedere di
buon
occhio la fidanzata di turno del proprio pargoletto, perché
è brutta, cattiva,
antipatica o osa indossare abiti sopra al ginocchio, il che
notoriamente
nell’ambiente delle madri chiocce significa che è
una poco di buono e che non
sarà una buona madre con i suoi futuri ed eventuali bambini.
Ad
Elettra era andata molto meglio:
in qualità di figlia femmina, non aveva dovuto sottostare
alla ferrea
legislazione di Dora in fatto di fidanzati… non che si fosse
sforzata più di
tanto, in ogni caso; aveva sposato il primo che aveva portato a casa,
Pier il
ragionier, come lo chiamavano in famiglia. Stime di Achille attestavano
la
nascita della loro relazione ai tempi della formazione della Mezzaluna
fertile,
secolo più, secolo meno. Poi a venticinque anni si erano
sposati e infine era
nata Diana, la gioia della nonna, in grado di cancellare qualsiasi
difetto del
genero. Certo, lui non aveva un nome di origine greca – Dora
aveva fatto
controllare ad Ettore su internet: ebraico, era stato il verdetto
– e ciò minava
un po’ l’equilibrio della famiglia, ma tutto
sommato era accettabile.
Il
padre di Achille era molto più
pacato e si limitava ad accertare un aspetto più pregnante:
la felicità dei
figli. Ormai la prima era maritata e aveva cominciato a mettere su
famiglia,
adesso restava il piccolo di casa e tutti sapevano bene che non sarebbe
stato
così semplice; Dora Quaresmini non avrebbe dato il suo
benestare con troppa
facilità. Nella sua testa, esisteva una e una sola donna
adatta a stare con il
suo bambolotto riccioluto tutta la vita: se stessa.
Achille
rabbrividì al solo
pensiero. Per quanto adorasse sua madre e i suoi dolci, non poteva
proprio
concepire l’idea di fare il Tanguy di turno e accamparsi nel
salotto dei suoi
per sempre.
-
Trent, sei pronta? – le chiese,
giusto per distrarsi dall’orrida immagine di lui e sua madre
per il resto della
loro vita insieme.
Erano
nell’appartamento di Azzurra,
un openspace in cui lei non aveva via di fuga. Spuntò fuori
dal bagno con un
mezzo sorriso, a mascherare l’apprensione in vista della
serata. Indossava un
vestitino chiaro a motivi geometrici e una giacca tipo motociclista
rosa tenue.
Niente tacchi, solo un paio di ballerine e shopper piuttosto ampia che
recuperò
dal divano. Sembrava nervosa, ma nemmeno troppo: forse il fatto di
avere
davanti un viaggio di un’ora e un quarto prima di arrivare a
casa dei suoi
faceva sì di tenerla tranquilla.
-
Vado bene così? – gli domandò
incerta, facendo una giravolta su se stessa.
Achille
annuì, le andò incontro e
le diede un sonoro bacio sulle labbra.
-
Perfetta, – le sorrise. – E non
sei neanche agitata! Fantastico!
Uscì
dalla mansarda di via della
Quercia 27 fiducioso: sarebbe stata una piacevolissima serata,
avrebbero
mangiato e bevuto e lei finalmente avrebbe conosciuto i suoi, sua madre
l’avrebbe adorata e tutto sarebbe filato liscio. E lui
avrebbe mangiato un
sacco di dolci. Piacevolissima serata.
-
Già… yuppie! – Azzurra smise
l’aria gioviale e si appropinquò verso la porta.
Achille
era un bravo ragazzo, dolce
e anche bello; ma c’era qualcosa che proprio non era:
intuitivo. Anche Achille
il Felide, alias il gatto del vicino, si era reso conto che lei tutto
era
fuorché emozionata o tranquilla. Miagolò di
compassione nella sua direzione,
mentre lei ciondolava giù dalle scale con
un’espressione di puro dolore in
faccia.
Maledisse
internamente Achille il
Pelide e i tempi moderni: vent’anni prima, nessuno aveva un
cellulare e a
nessuno sarebbe venuto in mente di mandare un sms con scritto:
Mia
madre ci ha invitato a cena domani sera. Le dico di sì?
Oh,
stava per dimenticare: avrebbe
maledetto anche Dalila e la risposta da lei digitata a tradimento,
quando lei
era in bagno a meditare sul da farsi.
Non
vedo l’ora, Achi!
Sarebbe
dovuta vivere nel nord
Westfalia, in Germania, e viaggiare in una di quelle autostrade
protagoniste di
una serie tedesca che sua madre tanto amava, in cui ogni giorno
macchine si
spiaccicavano una sull’altra, formando rallentamenti,
ingorghi, blocchi
stradali. Magari anche senza spargimenti di sangue… un
camion di traverso che
impedisse loro di raggiungere la casa dei Quaresmini era più
che sufficiente. E
invece no. Abitava nel nord Italia e incredibilmente procedeva tutto
tranquillo
su quella cavolo di A4. Achille canticchiava sulla voce di Brian
Johnson e ogni
tanto le lanciava degli sguardi complici, che in verità non
facevano che
prolungare quell’ora di agonia che la separava dai suoceri.
Non riusciva
proprio a rilassarsi, tra gli AC/DC nelle casse dell’auto e
il triste paesaggio
industriale fuori dal finestrino. Guardava frenetica
l’orologio ogni minuto,
realizzando di essere sempre più vicini. Al casello di
uscita, mentre Achille
passava attraverso la sbarra e i due bip
rauchi e prolungati del Telepass sparivano tra le note di Back in black, Azzurra si mise quasi a
piangere. Pure il Telepass
per evitare le code! Non gliene andava bene una.
Achille
tamburellava gli indici sul
volante come fossero le bacchette di una batterista, il che non faceva
che
contribuire ad innervosirla ulteriormente. Prese a chiudere
l’occhio destro,
che lui non poteva vedere, ogni volta che lui picchiettava il dito,
quasi
potesse ammortizzare quel rumore odioso; la smise quando le sovvenne
l’immagine
di John Cage di Ally McBeal, che si
distingueva per il fischio del naso e la balbuzie, oltre che per il suo
identificarsi idealmente di Barry White. Non poteva fare la fine di
Biscottino…
anche perché lei avrebbe scelto Grace Kelly.
-
Dieci minuti e ci siamo. – le
annunciò Achille.
Beh,
comunque Grace Kelly era morta
in un incidente automobilistico. Forse aveva ancora una chance.
Tutt’ad
un tratto le venne in mente
di aver lasciato nel frigorifero di casa la bottiglia di vino che aveva
intenzione di portare come regalo. Che figura del cavolo! Invitata per
la prima
volta dai Quaresmini, arrivare con le mani vuote… dovevano
tornare indietro!
-
Achi, ho dimenticato il vino!
Forse
ci aveva messo un po’ troppa
enfasi nel constatare la mancanza; sembrava avesse annunciato
l’arrivo del
messia da un momento all’altro.
-
Sta’ tranquilla. L’ho presa io,
Trent, te l’ho messa nella borsa. – Ecco
perché sembrava insolitamente pesante!
– Conosco la mia polla.
Oh,
ma che ragazzo solerte!
Cominciava a detestarlo, lui e i suoi poveri stupidi ricci…
no, non è vero,
quelli rimanevano adorabili.
Azzurra
lasciò che la musica
colmasse quella apparente calma silenziosa e cercò di
rassicurarsi: sarebbe
andato tutto bene.
Niente
andrà un cazzo bene! No! No! Andiamo via, dai!
Achille
parcheggiò la sua auto
sotto ad un albero, sebbene non ci fosse alcuna necessità di
lasciare la
macchina all’ombra; con tutta la pioggia che era scesa in
quell’ultimo mese ci
si poteva riempire nuovamente il lago di Garda.
Azzurra
si stava mordicchiando le
labbra, con l’aria nervosa di chi sta per sostenere
l’orale della maturità.
Cominciava a rimpiangere Chilmi – un nome, un programma
–, il temibile prof di
biologia che aveva reso il suo esame un inferno; Dora e Ettore
Quaresmini erano
due mostri, se lo sentiva. E poi lei era un disastro in queste cose!
Nei suoi
ventisette anni, si era trovata in questa dannata situazione altre due
volte.
La prima con Alberto, a diciotto anni; sua madre non la vedeva di buon
occhio,
ma tutto sommato Azzurra poteva capirla: il marito le aveva messo
più corna di
un alce alpino, perciò ogni essere di sesso femminile
costituiva una minaccia.
Lui, infatti, era viscido quanto un’anguilla cosparsa di
Leocrema e non perdeva
occasione per toccarla. La seconda volta era stata a ventiquattro anni,
con i
Gualla, i genitori di Diego. Erano due personcine fantastiche, la
riempivano di
attenzioni e coccole, torte e complimenti… peccato che in
segreto stessero
cercando di far tornare il figlio con la ex. Non c’era da
stupirsi, perciò, se
Azzurra era semplicemente terrorizzata all’idea di conoscere
i Quaresmini. Per
esperienza, nel momento in cui avvenivano le presentazioni ufficiali,
il
rapporto amoroso andava a rotoli; in sostanza, Achille stava ammazzando
la loro
relazione, seppur inconsapevolmente. Era suo espresso dovere opporsi.
-
Ehm… Trent, scendiamo? – le
chiese lui, in piedi fuori dalla macchina, ma con la testa
nell’abitacolo
-
No! – urlò di risposta,
spaventando entrambi.
Achille
la fissò frastornato: non
poteva avere sbagliato i calcoli! Aveva scaricato la app apposita per
controllare e non c’erano segni di triangolini rosa su quel
cavolo di
calendario. Azzurra non poteva essere in sindrome premestruale.
Lei
si accorse di averlo confuso e
tentò di rimediare.
-
Cioè, volevo dire… tu sei già
sceso. Tocca a me scendere. Ora scendo. – Di fatto non un
singolo millimetro
del suo corpo si mosse. – Adesso giuro che scendo.
-
Trent, c’è qualche problema?
-
No, no! – ridacchiò isterica.
Achille
capì che era un po’ tesa.
Le fece una faccia buffa e le offrì la sua mano. Azzurra la
fissò per qualche
istante, prima di decidersi ad afferrarla tra la sua e ad uscire
definitivamente dall’abitacolo. Lui la condusse lungo il
vialetto che portava
alla bifamigliare in cui i suoi si erano trasferiti dalla campagna una
decina
di anni prima, proprio accanto agli zii. La ragazza camminava a piccoli
passi,
sembrava un brutto incrocio tra un robottino e una bambolina cinese.
Praticamente la stava trascinando, più che ad una cena
davano l’impressione di
andare in gita in un mattatoio.
-
Picci, sei sicura di star bene?
L’espressione
d’insofferenza si
acuì sul viso di Azzurra. Achille voleva giocare sporco:
aveva tirato fuori il
soprannome delle grandi occasioni, Picci. Nulla a che fare con piccola,
piccina…
no, lui aveva optato per un delizioso picciona,
a causa della sua mania di sfamare ogni pennuto sulla sua
strada. Lei aveva
proposto un più romantico Cenerentola,
ma lui aveva riso troppo forte anche solo per prendere in
considerazione altre
opzioni diverse dalla prima.
-
A-ha, – deglutì.
-
Sicura?
Azzurra
si girò per vederlo in
viso, poi scosse la testa. Era solo ad un paio di metri dalla cassetta
della
posta rossa fissata sul muretto di casa Quaresmini. Ci era
così vicino da
sapere che era di ghisa e che aveva dei graffi.
-
No.
Il
riccio rallentò, soltanto per
infilare la mano tra le barre del cancellino ed aprirlo; come al
solito, la
chiave era infilata nella serratura interna.
-
Ma posso sapere che ti prende? –
La invitò a passare oltre la ringhiera di ferro, lungo il
breve vialetto che li
separavi dal portoncino verde dell’ingresso. – Eri
entusiasta di conoscere i
miei!
Azzurra,
che fino a quel momento si
era sforzata di risultare moderatamente tollerante all’idea
di passare una
serata dai genitori di lui, non riuscì a controllarsi.
-
Entusiasta? Su quale pianeta?
Achille
mollò la sua mano e le si
parò davanti, sempre più sorpreso.
-
C-cosa? Non vuoi incontrarli?
-
No, sì… cioè, ho paura!
-
Non sono mica Hannibal Lecter! – almeno
non suo padre… – E, in ogni caso,
avresti dovuto dirmelo prima. Siamo
davanti a casa loro!
Le
indicò la casa gialla alle loro
spalle, come se lei non l’avesse già notata.
-
Scappiamo! – propose lei, preda
del panico più completo.
-
Eh? Perché non vuoi entrare?
-
Io… io… le cose stanno andando
troppo velocemente, Achille…
Aveva
palesemente detto la cosa
sbagliata. O meglio, la cosa giusta, ma con le parole sbagliate. Lo
capì
subito, vedendo come gli occhi di lui si fossero ridotte a due fessure
arrabbiate.
-
Che cazzo vuol dire? – le disse
infatti a denti stretti.
-
No, aspetta, non era quello che
intendevo. – cercò di farlo ragionare, ma Achille
aveva appena cominciato e non
aveva intenzione di fermarsi.
-
Sto accelerando le cose perché
voglio che i miei conoscano la mia fidanzata dopo mesi che usciamo
insieme?
-
No! – urlò, attirando
l’attenzione di una vicina di casa che comparve da dietro un
cespuglio. Aveva
in mano un paio di cesoie, che continuava ad aprire e chiudere, sebbene
stesse
praticamente tagliando l’aria. Azzurra la fissò
scocciata, ma lei neanche la
vide: non era proprio la discussione ad attirarla, era più
il sedere di Achille
a incontrare il suo interesse. Le schioccò le dita
finché quella non si decise
ad alzare lo sguardo dal fondoschiena del riccio e a riabbassare la
testa
sull’arbusto.
-
Mi ascolti? – urlò il ragazzo,
stizzito dai problemi di concentrazione di Azzurra. – No cosa? Sto correndo anche sulla
definizione di fidanzata?
Come
poteva insinuare una cosa del
genere? Non aveva forse visto come lei aveva appena difeso
silenziosamente per
giunta – e questo non era molto nel suo stile – le
sue preziosissime natiche?
Certo che era la sua fidanzata!
-
Achi… – miagolò, ma fu ben presto
interrotta da un rumore infernale. Nella fattispecie, il cigolio del
portoncino
che si apriva. Azzurra sperò soltanto che fosse il padre.
-
Ragazzi! Mi sembrava di aver
sentito le vostre voci!
Oh,
era solo Elettra. Un attimo…
Elettra? Che ci faceva lei lì?
-
Ciao, – disse Azzurra
imbarazzata.
Non
sapeva se essere grata di avere
un’altra faccia amica nella sera delle presentazioni al
signor Quaresmini e a
quel mostro a tre teste carnivoro meglio conosciuto come la sua
consorte,
oppure se mettersi a piangere all’idea di fare una figuraccia
proprio davanti –
anche – a lei in un momento così delicato.
-
Su, su, entrate!
Achille
non la degnò di uno sguardo
ed entrò prima di lei. La sua graziosissima nipotina gli
corse in braccio,
reclamando attenzioni e caramelle. Azzurra realizzò che era
stata una pessima
trovata quella di litigare con lui proprio dieci secondi prima di
entrare nella
tana del nemico. Però prese un respiro profondo e
cercò di rilassarsi: forse i
suoi erano solo pregiudizi e la signora Dora si sarebbe rivelata una
dolce
donnina di mezza età, con l’hobby del
découpage e un carattere così mite da
provocare la carie. Prese dalla borsa la bottiglia di Millesimato che
Sergio le
aveva consigliato di portare con un nuovo spirito positivo: in
più, avrebbe
avuto le mani occupate.
Elettra
la prese sottobraccio e le
indicò dapprima la figlioletta, saldamente tra le braccia di
Achille, poi un
uomo dalla faccia simpatica, non troppo alto e pelato.
-
Azzurra, ti ricordi di Diana,
vero? Lui è mio marito Pier. – La ragazza strinse
la mano all’uomo, che le
sorrise. – Poi ci sono Monica ed Augusto, gli zii.
– Zii? Era forse
capitata nel mezzo di una riunione di famiglia? – La
mamma era andata con la zia a fare la spesa e poi ha pensato di
invitarli a
restare per cena… non è fantastico?
Si
sforzò di non mettersi ad urlare
una serie chilometrica di perché?
ed
ignorò quell’invitante angolino della parete
sgombro da quadri contro il quale
avrebbe molto desiderato sbattere la testa, fino a perdere i sensi.
Suvvia,
nonostante l’alta affluenza alla cena dei Quaresmini, poteva
ancora essere una
serata gradevole.
Respira,
su. Calma.
Gli
zii erano una coppietta
silenziosa e riservata, perfettamente utilizzabili come alternativa
alla carta
da parati. Le strinsero la mano cordiali, ma non aprirono bocca. Ad
Azzurra
venne il sospetto fossero sordomuti. Utili per evitare di fare
conversazioni,
imbarazzanti per i silenzi.
-
Achi, perché non prendi la giacca
della tua ragazza? – lo invitò Elettra.
Lui
posò a terra una Diana
divertita ma contrariata e obbedì.
L’aiutò a sfilarsi la giacca, curandosi di non
rivolgerle la parola. Lei lo seguì con lo sguardo
finché le fu possibile, cioè
finché un signore alto e con la faccia simpatica le
ostruì la panoramica
completa su Achille.
-
Salve, – le strinse la mano. –
Lei dev’essere Azzurra.
Non
voleva sbilanciarsi troppo, ma
l’uomo davanti a lei si era appena candidato ad essere un
alleato.
-
In carne e ossa, – rispose,
consegnandogli la bottiglia. – La prego di darmi del tu.
-
Grazie mille, non dovevi. Oh,
finalmente ti conosciamo. Sono Ettore. Dora?
Si
volse verso la stanza contigua,
da cui proveniva uno sfrigolio di padelle e un gradevolissimo profumo
di cibo.
-
Che c’è? – disse una voce
fuoricampo. – Sto controllando l’arrosto. Ti ho
detto di chiamarmi solo quando
arriva la bertuccia.
Bertuccia?
Uh,
delizioso. La sua sempre più improbabile futura suocera le
aveva appena dato
della scimmia. Quando si dice un inizio promettente…
-
Tesoro, – Ettore le sorrise
goffamente a mo’ di scuse. – È qui.
Una
folta testa riccia rossa
comparve da dietro il muro della cucina.
La
signora Quaresmini indossava
degli occhiali calati sul naso e un grembiule con la pettorina con dei
limoni
disegnati. Non fece nemmeno lo sforzo di sollevare gli angoli della
bocca in
un’espressione di gaudio nel vedere la giovane ragazza, un
po’ scialbina a dire
il vero, che era nella sua sala da pranzo, accanto alla tavola
imbandita. Beh,
se l’aspettava più…
più… più. A vederla così
le sembrava un attimino troppo
poco per il suo bambino. Achille era
un bel giovanotto, bravo, buono, generoso, gentile, premuroso, attento,
il
sogno di ogni madre, mentre lei era… ordinaria.
Sì, ne era convinta: dopo
un’approfondita analisi del soggetto, poteva concludere che
neppure questa
tizia, così come Chantal, Laura e ogni altra donna con cui
suo figlio avesse avuto
o avrebbe avuto a che fare, era degna di lui. Doveva comunicarglielo
subito,
magari indorando la pillola con i bomboloni alla crema che gli aveva
preparato
nel pomeriggio.
Azzurra
tentò di sorridere,
imbarazzata da quell’esame a raggi X. Alzò una
mano verso la sua direzione e la
salutò. Dora Quaresmini sollevò un sopracciglio.
No, quella ragazzina non le
piaceva: il suo modo di agitare le dita era del tutto impacciato, non
poteva
stare accanto ad uno come Achille.
-
Ciao, mamma, – le gridò proprio
lui dal divano.
Il
viso di Dora si illuminò di
amore materno. Piantò il mestolo in mano ad Elettra,
sfrecciò accanto ad
Azzurra senza degnarla di uno sguardo e corse ad abbracciare il suo
orsacchiotto.
-
Tesoro! Ma sei dimagrito? Ti vedo
sciupato. Non gli dai da mangiare?
Azzurra
impiegò qualche istante a
capire che ora la signora stava effettivamente interagendo per la prima
volta
con lei… accusandola di non nutrire il figlio.
Cos’era, la sua babysitter?
Esitò un attimo sulla risposta, mentre la donna la guardava
con aria severa.
-
I-io… – tentennò.
-
Era una battuta, cara, – replicò
sarcastica.
Cielo,
la odiava già. Nel senso che
Dora detestava Azzurra. E Azzurra era ben lieta di ricambiare.
Ettore
irruppe nella conversazione,
ufficializzando le presentazioni, durante le quali peraltro la signora
si
presentò come Dora Quaresmini. Azzurra cercò di
non essere da meno e sfoggiò il
suo cognome come se fosse una Windsor o una Tronchetti Provera. La mano
della
padrona di casa la strinse così forte che dovette
trattenersi dal massaggiare
la propria davanti agli occhi dei parenti.
-
Ho fatto gli gnocchi di patate al
pomodoro, – annunciò la padrona di casa.
– Spero ti piacciano.
Achille
scosse la testa: sua madre
era tornata a fare i soliti vecchi trucchetti. Ricordava bene la
conversazione
al telefono del giorno prima proprio con lei.
-
Amore, cosa vuoi che ti prepari?
-
Quello che vuoi, mamma. L’importante è che tu non
faccia gli gnocchi. Ad
Azzurra non piacciono.
-
Certo, amore.
Certo
un corno. Non solo li aveva
inseriti nel menu, ma si era anche premurata di farli in casa, con le
patate.
Credeva che l’abitudine di sfidare apertamente le novelle
nuore fosse finita
ancora prima di Chantal. In quel caso, infatti, si era comportata bene;
era
stato dopo, quando lei lo aveva lasciato, distrutto e quasi
irriconoscibile,
che Dora si era pentita amaramente di non averle cucinato ravioli con
ripieno
di salsiccia al profumo di arsenico e budino con dadolata di schiaffi
in
faccia.
Achille
si domandò se Azzurra
avrebbe saltato il primo, scusandosi, o se avrebbe finto di
apprezzarlo,
boccone per boccone, fingendo di non volerli sputare tutti. Quello di
cui era
sicuro era che lei non avrebbe detto di amar…
-
Li adoro! – cantilenò la ragazza
con un sorriso smagliante.
Dora
parve sorpresa da tutto
quell’entusiasmo: o il suo bimbo l’aveva ingannata,
o la ragazzina che aveva
davanti stava facendo buon viso a cattivo gioco.
-
Bene! Forza, tutti a tavola. –
Azzurra attese che quasi tutti si sistemassero, soprattutto Achille,
ben
lontano da lei, e poi prese posto accanto ad Elettra. – No,
aspetta, cara: la
disposizione è uomo-donna-uomo-donna… non conosci
le regole del galateo?
Quella
sottile allusione alla
carenza di buone maniere della propria ospite fece trasalire tutti,
tranne la
padrona di casa ovviamente. Azzurra non rispose alla provocazione; si
alzò ed
andò a sedersi tra Ettore, a capo tavola, ed Achille, il
quale stava
cominciando a rendersi conto di aver esagerato prima. Poteva essere
arrabbiato
con lei, ma doveva stare dalla sua parte: era la sua ragazza, era
lì per lui,
nonostante neanche lo desiderasse, a quanto pareva, perciò
era suo dovere farla
sentire a suo agio, nel limite del possibile.
Come
se averle preparato uno dei
cibi che più detestava non fosse stato sufficiente, la
signora Quaresmini le
colmò il piatto di gnocchi, sebbene Azzurra continuasse a
ripeterle che la dose
pantagruelica che già le aveva dato era più che
sufficiente. Odiava quelle
maledette palle di patate: le si attaccavano al palato come cozze ad
uno scoglio
e non se ne andavano più. Si costrinse a mangiarli tutti,
intervallandoli a
grosse sorsate di acqua, trattenne il respiro per sentire meno di quel
sapore
molliccio e vagamente viscido degli gnocchi, ma le sembrava che quei
piccoli
bocconi subdoli avessero deciso di non andare più in
giù della sua trachea.
Achille le sussurrò in un orecchio che non doveva per forza
finirli e
addirittura si offrì di mangiarli al posto suo, ma Azzurra
lo ignorò; quel
mostro di sua madre la stava sfidando e lei non sarebbe stata da meno.
-
Allora, dicci: – la interpellò il
signor Quaresmini. – Che fai nella vita?
-
Sono un architetto. – Ettore fece
uno sguardo compiaciuto e sinceramente interessato. Al contrario di
Dora, che
si lasciò andare ad uno sbuffo mal contenuto che non
passò inosservato. –
Lavoro per lo studio di un mio grande amico.
-
E dimmi, – intervenne proprio
lei. – Come hai intenzione di comportarti, quando e se avrete
un bambino?
Ad
Achille andò di traverso uno
gnocco e gli occhi gli schizzarono fuori dalle orbite. Immaginava
già la
reazione della sua ragazza: sedie per aria, porte sbattute, gnocchi di
patate
in faccia a sua madre all’urlo di “Cosa
vuoi da me, vecchia pazza?”.
-
Mamma! – intervenne Elettra. –
Non ti sembra di affrettare un po’ le cose? Cielo, non siamo
neanche un po’
brilli per sganciare queste domandone!
-
Non c’è problema, – intervenne
Azzurra, molto più calma del solito. – Rispondo
volentieri. Se dovessimo avere
un bambino, starei a casa per tutto il tempo possibile e poi tornerei a
lavorare.
-
Tieni così tanto alla carriera da
lasciare i tuoi figli al nido? – le chiese l’altra
sprezzante.
-
Amo il mio lavoro e non mi
sentirei soddisfatta al 100% se lo abbandonassi per fare la casalinga.
E poi
mia cugina lavora al nido vicino a casa mia, so che ogni bambino
sarebbe in
ottime mani… meglio che con alcuni altri
familiari.
Dora
accusò il colpo e si alzò
velocemente a raccogliere i piatti. Ettore rise sotto i baffi, mentre
lei
poteva sentire su di sé lo sguardo del figlio. Achille era
senza parole. La
fissava sbalordito ed… eccitato! Nessuno aveva mai parlato
così a sua madre!
Non vedeva l’ora di tornare a casa e spogliarsi. O meglio,
farsi spogliare: con
quella voce da maestrina voleva giocare all’impiegato
sottomesso dalla perfida
capa.
-
Azzurra, mio cognato non ci ha
mai raccontato di come vi siate conosciuti… –
disse Pier.
-
Al supermercato. Ha investito la
frutta che avevo appena scelto e mi ha rubato l’ultimo
flacone di detersivo per
lavatrice.
Tutti
i commensali, tranne Dora, in
cucina a impiattare il secondo, risero della situazione, non capendo se
stesse
scherzando o dicesse sul serio.
-
La tua parola contro la mia, –
ridacchiò Achille, prontamente e nuovamente ignorato.
Sulla
tavola calò un silenzio
momentaneo, infranto dal ritorno della signora Quaresmini con arrosto e
patate
al forno. Diede ad Azzurra il pezzo più piccolo e secco, con
le patate più
bruciacchiate; persino a Diana andò meglio, con un razione
di contorno quasi
doppia e una fetta di carne grossa e cosparsa di intingolo. Elettra
gliela
taglio e la bimba cominciò a mangiarla con gusto. Anche gli
zii parevano
gradire, ma non si spinsero mai più in là di un
mugugno di approvazione.
Azzurra assecondò i dispetti e prese dell’arrosto
una seconda volta, avendo
cura di scegliere da sola il pezzo da mangiare. Trattenne persino
l’impulso di
infilare la forchetta nella mano della suocera e di questo si
congratulò con se
stessa.
-
Allora, hai fratelli o sorelle? –
domandò Ettore.
-
No, purtroppo sono figlia unica.
-
Purtroppo? Dovevi vedere Elettra
e Achille da piccoli, litigavano come scimmie allo zoo. Una volta hanno
cercato
di seppellirsi a vicenda nel giardino, distruggendolo. Io e mia moglie
abbiamo
pensato di avere una talpa e le abbiamo dato la caccia per giorni!
Azzurra
rise e si sporse verso di
lui, poggiandogli la mano sulla coscia nello sbilanciarsi in avanti.
Ettore le
chiese qualcosa in più sul suo lavoro,
sull’architettura classica, persino dei
suoi genitori e fu sempre molto più che gentile. Dora si
premurò sempre di
schernirla con frecciatine e sbuffi, mentre Achille osservava le donne
della
sua vita comportarsi da… strane creature incomprensibili.
Donne, appunto.
Arrivato
il momento del dolce, si
offrì di andare a prenderlo in cucina con Azzurra,
l’unica scusa che gli venne
in mente per poterle parlare un minuto in privato. Lei
accettò soltanto perché
aveva capito che non aveva modo di rifiutarsi. E anche
perché non vedere Dora
per un po’ era una manna dal cielo.
Le
fece cenno di passargli davanti
e le indicò la direzione da seguire per arrivare in cucina.
Quando arrivarono
davanti ai fornelli, Azzurra si voltò verso di lui per
chiedergli che diavolo
volesse. Sfortunatamente, lui l’anticipò.
-
Che stai facendo?
Azzurra
incrociò le braccia e alzò
un sopracciglio.
-
Oh, guarda: Bartolo ha
riacquistato l’uso della parola.
-
Chi? – ribatté lui confuso.
-
Lascia stare, ignorante.
L’aiutante di Zorro.
Achille
fece un mezzo sorriso. Dio,
quella donna era fuori di testa.
-
Si chiamava Bernardo. – le fece
notare.
Ah,
cazzo, ecco perché non suonava
molto bene. Meglio comunque continuare sulla propria linea e non
ammettere mai
di avere torto.
-
Nella versione originale era
Bartolo. – inventò e Achille non si
sforzò neppure di crederci.
– Che vuoi? Non vedi che sto amabilmente
conversando con il parentado?
Il
caro ricciolone non poteva certo
lamentarsi di lei: ci stava provando a piacere a sua sorella, il
cognato, la
nipotina, gli zii, quella belva di sua madre e soprattutto con quel
tesoro di
Ettore. Ci stava provando davvero.
-
Ci stavi provando con mio padre?
– le chiese invece Achille.
-
Cosa? – quel tonto doveva aver
mal interpretato i suoi pensieri e soprattutto le sue azioni.
– No! Stavo solo
cercando di piacergli.
Stavolta
fu Achille a guardarla
scocciato.
-
Gli stavi facendo delle moine
così plateali che mia madre ora è confusa: non
capisce se deve consegnare nelle
mani di una sconosciuta suo figlio o suo marito.
In
quella casa c’era un’aria
strana, non c’erano altre spiegazioni. C’era chi
diventava una stronza coi
fiocchi, vedi Dora, e chi diventava scemo, vedi Achille.
-
Ma che dici?
-
Hai appoggiato una mano sulla
coscia di mio papà!
Beh,
se la metteva in questi
termini, forse…
-
Oh merda. Ci stavo provando con
tuo padre. Ma d’altronde non è colpa mia se sono
socialmente adorabile per gli
uomini di ogni età. – Si fece avanti con un
sorriso malizioso e gli picchiò
l’indice sul naso.
Achille
la bloccò, prima che
potesse rifarlo, e la strinse a sé.
-
Smettila di flirtare con mio
padre, – le intimò, fingendo di morderle il naso.
-
Allora, lo state fabbricando
questo dolce?
Fecero
un balzo entrambi, colti di
sorpresa. Achille addentò la punta del naso di Azzurra, la
quale si mise ad
urlare, tentando d’indietreggiare con la testa. Accortosi del
morso
involontario, lui mollò la presa con tanta frenesia che lei
finì col dare una
testata alla colonna del forno alle sue spalle.
-
Oh cazzo! – urlò Achille, mentre
si avvicinava ad un’Azzurra, piuttosto frastornata, che si
toccava il capo con
entrambe le mani. Aveva voglia di dire talmente tante parolacce che
nella
concitazione del momento, non riusciva a sceglierne una, temendo di
fare un
torto alle altre.
-
Il linguaggio, tesoro! – Dora
redarguì il figlio, incurante della botta subita dalla
ragazza.
Anzi,
ben le stava! Prima si
presentava al braccio di Achille, poi cercava di accattivarsi le
simpatie di
Ettore con tutti quei risolini da perfetta oca giuliva…
ecco, perché non si
prendeva Ettore? Era un brav’uomo, maturo, responsabile e
cucinava
discretamente, garantiva lei per lui. Con una parrucca in testa era
uguale ad
Achille.
-
Trent, stai bene? – il riccio
cercava di rimanere serio, ma il segno dei suoi denti rimasto impresso
sul naso
della fidanzata era troppo buffo per non farlo sogghignare.
No,
emerito idiota! Mi hai fatto male!
- Tutto okay,
– disse
lapidaria, massaggiandosi il punto d’impatto con il dannato
forno.
-
Scusa… – le prese il viso tra le
mani e le diede un bacio delicato sulla fronte.
La
signora Quaresmini osservò la
scena con un briciolo di disgusto. Quella ragazzina sarà
pure stata scialbina,
ma era diabolica: proprio un bel teatrino quello che aveva imbastito,
per farsi
dare un bacino da Achille! Si schiarì la voce,
affinché le mani di lui si
allontanassero dalla vipera.
-
Di là stanno aspettando il dolce.
Forza, sveglia!
Allontanò
malamente il figlio e
Azzurra dalla sua cucina ed estrasse dal frigorifero la crostata di
frutta che
aveva fatto nel pomeriggio. Afferrò anche il vassoio coi
bomboloni, ma questo
significava dover lasciare la bottiglia di Buzzurra
– l’aveva pensato sul momento e le
piaceva… sì, l’avrebbe adottato!
– lì
dov’era stata fino a quel momento. Peccato. Beh,
chissenefrega.
Quando
ritornò nella sala da
pranzo, tutti sembravano esilarati dal racconto del piccolo incidente
di
qualche minuto prima; Ettore stava ridendo con la sgradita ospite
– e ti
pareva! –, Elettra e Pier stavano pregandoli di replicare la
scena, gli zii
avevano bofonchiato qualcosa divertiti e Diana, la sua piccola dolce
Diana, era
appena scesa dalla sedia e… che stava facendo? Oh, per
carità! Stava dando un
bacio al naso di Azzurra per guarire una ferita palesemente
immaginaria. Ma che
diavolo prendeva alla sua famiglia? Non si rendevano conto di che razza
di
serpe fosse quella specie di architetto rubafigli?
-
Cara, – disse a Buzzurra con
finto fare materno. – Stai monopolizzando la situazione. Chi
vuole la torta?
Azzurra
non si sforzò neppure di
sorridere, ormai il desiderio di rifilare alla suocera una testata
analoga alla
sua contro il forno era troppo forte per essere contenuta. Non le
sarebbe
dispiaciuto spiaccicare quella faccia da strega malefica nella sua
stramaledetta crostata di frutta.
Dora
cominciò a tagliare la torta
con le due palette d’argento che trovò sulla
tavola e che di certo non aveva
preparato lei. Addirittura l’argento delle grandi occasioni?
Per la ragazzina
sarebbe stato sufficiente un coltello di plastica.
-
Mamma… – intervenne Achille,
ammonendola con lo sguardo.
-
Che c’è, tesoro? – Il suo bimbo
golosone! Scavalcò le teste di tutti con le palette sporche
di impasto, crema
pasticcera e frutta varia per raggiungerlo. Naturalmente si
premurò di dare un
colpo di polso più forte quando si trovò sulla
testa di Azzurra, che si vide
recapitare un mezzo cucchiaio di crema e un quarto di fragola
direttamente sul
vestito. – Lo so che il mio bambolotto vuole la fetta
più grande!
Strapazzò
le guance del figlio,
mentre Ettore roteava gli occhi ed Elettra si alzava per aiutare la
fidanzata
del fratello a smacchiare l’abito. Capì che non
sarebbe bastata una passata con
lo tovagliolo per farlo tornare come prima e si offrì di
accompagnarla in
bagno.
Azzurra
fu grata di potersi
allontanare da Crudelia De Mon senza possibilmente rischiare una
commozione
cerebrale o di avere più macchie di quelle di un dalmata su
di sé.
Mentre
le due sparivano nel
corridoio, Ettore si accorse della mancanza di qualcosa sulla tavola.
-
Dora, dov’è il vino che ha
portato Azzurra?
La
padrona di casa scrollò le
spalle e fece un’espressione tutt’altro che
interessata all’argomento.
-
Chi lo sa, forse in cantina.
-
Oh, per l’amor del cielo, Dora! –
la rimbrottò lui. – Ti stai rendendo ridicola!
La
bocca della moglie si fece
corrucciata.
-
Hai sentito come mi parla tuo
padre? – domandò lamentosa ad Achille, ma non
trovò alcun appoggio.
-
Mamma, stai mettendo in imbarazzo
tutti. – Si guardò attorno per dimostrarle quanto
appena detto, ma notò che
Monica ed Augusto lo fissavano tranquilli e sorridenti. -
Tranne… ehm… gli zii.
Comunque, se non smetti di comportarti così male con
Azzurra, temo ce ne
andremo prima del dolce... prima di quella torta molto invitante e quei
morbidissimi e ripienissimi bomboloni.
Gli
costò molto dirlo; la sola idea
di tornare a casa senza aver mangiato quel ben di Dio gli faceva venire
un calo
di zuccheri e un improvviso desiderio di piangere, ma tutto
sparì nel momento
esatto in cui sua madre gli passò il vassoio colmo di
krapfen. Si dimenticò
persino dell’eresia che aveva appena detto.
Ci
pensò suo padre a riportarlo in
carreggiata.
-
Achille, concentrati, per
cortesia.
Merda.
Azzurra, non bomboloni alla
crema. Azzurra, non bomboloni alla crema. Ma perché non
poteva averli entrambi?
E che cavolo. Si era fatto centoventi chilometri in macchina, li
meritava!
La
discussione terminò bruscamente,
quando tornarono dal bagno Azzurra ed Elettra, se possibile con un
danno ancora
maggiore di quanto fatto da Dora con la complicità di
fragole e crema
pasticcera. Inutile dire che la padrona di casa ne fu compiaciuta, ma
non disse
nulla. S’impose di proseguire sulla linea del silenzio
– la minaccia del figlio
di non mangiare qualcosa da lei preparato era troppo per il suo povero
cuore ed
era meglio non rischiare –, ma d’altro canto non se
la sentì neppure di dare
una fetta di torta normale, senza alcuna menomazione,
ad Azzurra, perciò preferì lasciare
l’onere
di tagliare e distribuire la crostata ad Elettra. Dopo quella
comunicazione
tecnica, non pronunciò nemmeno mezza sillaba e fu
sinceramente sorpresa che
nessuno degli invitati le chiedesse il motivo. Erano tutti concentrati
in una
sorta di… conversazione con Buzzurra, tutti intenti a
chiederle qualcosa in più
di lei, tutti presi a comportarsi bene con lei… mah,
famiglia indegna!
Achille
recuperò la bottiglia di
millesimato di Azzurra dal frigorifero e le uniche due che non
assaggiarono il
vino furono la nanerottola di casa per ovvie ragioni e Dora, per
altrettante
ovvie ragioni.
Ettore
si incaricò di preparare il
caffè per gli adulti e una tazza di latte con miele per
Diana, ma quando
ricomparve dalla cucina, la nipotina stava già dormendo con
la bocca aperta sul
divano.
Con
il silenzio autoimposto di
Dora, il resto della serata passò tranquillo. Ma se la bocca
era sigillata, al
contrario, gli altri sensi funzionavano a pieno regime: studiavano ogni
piccolo
movimento di Azzurra, da come goffamente tagliava la torta al modo
sgraziato in
cui gesticolava, all’odioso tono di voce alla nauseabonda eau
de toilette che
portava. No, non le piaceva nulla di quella ragazza; in passato
c’erano state
altre fidanzate di Achille, sempre inadeguate certo, ma mai quanto
questa!
-
Mamma? – Elettra interruppe le
sue considerazioni. – Noi andiamo. Abbiamo un bel viaggetto
da fare per tornare
a casa e Diana è crollata. Ci sentiamo in settimana, okay?
Dora
si alzò e aiutò la figlia a
portare in macchina tutti i giochi della nipote, mentre Pier dava due
baci
sulle guance di Azzurra e si augurava di vederla presto. Elettra
imitò il
marito, sotto lo sguardo glaciale della madre, maledicendo di non poter
vedere
finire la serata: lei e Pier avevano scommesso venti euro con gli zii
su una
eventuale scazzottata tra sua mamma ed Azzurra. L’indomani
avrebbe chiamato
Achille, sicuro.
Proprio
suo fratello decise che era
arrivato il momento di far terminare quello strazio anche per la sua
fidanzata.
-
Andiamo anche noi?
Azzurra
avrebbe urlato dalla
felicità: d’altronde, erano solo tre ore e
ventinove minuti che aspettava
quella frase. Avrebbe tenuto in seria considerazione l’idea
di ricordare quella
data come giorno più importante della loro storia, piuttosto
che quella del
primo ‘ti amo’. Soprattutto perché
quest’ultima non c’è ancora stata,
pensò Azzurra
con un briciolo di stizza.
-
Possiamo aiutarvi a sistemare? –
chiese cortesemente lei.
-
Certo! – gracchiò Dora, tornando
a parlare. Le avrebbe fatto pulire tutto da cima a fondo, dai piatti al
pavimento, tanto ormai il suo bimbo aveva mangiato e bevuto tutto!
Ma
Ettore rovinò il suo piano
diabolico con le sue solite stupide idee sensate.
-
Tesoro, devono ancora farsi tanti
chilometri per tornare a casa… ti aiuto io.
-
Tesoro, Lucilla mi aiuta sempre
quando viene qui a cena! Conosci
Lucilla, Buzz… Azzurra? – non aspettò
la risposta e tirò dritto con la
sviolinata alla ragazza. – È una donna adorabile,
brava, gentile, sarebbe una
mamma fantastica. – al contrario di
te!
– Spero che lei e Achille un giorno si sposino.
D’accordo,
quello era decisamente
troppo. Azzurra stava per prendere una delle due preziose palette
d’argento da
dolce e scagliargliela addosso – si ricordava bene che le
streghe si
ammazzavano con proiettili d’argento. Quelle erano palette,
ma lanciate ad una
certa velocità avrebbero fatto male ugualmente –,
però Ettore interruppe la
conversazione molto poco amichevole.
-
Dora! Non annoiare Azzurra con le
tue idee.
-
Posso andare un attimo al bagno?
– chiese la ragazza, conscia di aver bevuto due litri
d’acqua solo per mandare
giù quegli gnocchi terribili. Meglio fare pipì
prima di partire.
-
Ovviamente. Sai già dov’è.
Ettore
lasciò la moglie a
borbottare tra sé e con gli zii e raggiunse il figlio,
intento a recuperare le
giacche.
-
Achi, – lo richiamò sottovoce con
tono divertito. – Tua mamma la odia. Non l’ho mai
vista così agguerrita.
-
Già, me ne sono accorto…
La
situazione era tragicomica; da
un lato non c’era proprio nulla di spassoso nel fatto che la
madre odiasse la
fidanzata, dall’altro doveva ammettere che la cena era stata
piuttosto ridicola
sotto molti aspetti, meglio della volta in cui Diana aveva mangiato uno
spaghetto e le era sceso dal naso.
-
Lo so.
In realtà... – In realtà era
tutta la sera che ci pensava e forse era
arrivato il momento di dirlo ad alta voce. – Potrebbe essere
quella giusta.
Ettore
fece un sorriso sorpreso e
ridacchiò.
-
Beh, stavo per dire che le cene
d’ora in poi saranno più interessanti, ma se la
tua conclusione è questa, sono
felice per te. A me piace molto.
Achille
guardò Azzurra arrivare dal
corridoio e sorrise a sua volta.
-
Anche a me.
Assistere
al saluto tra Azzurra e
Dora era stato una delle cose più imbarazzanti che gli fosse
capitato di vedere
nella vita. Ettore avrebbe voluto ridere della moglie per almeno venti
minuti,
ma sapeva che lei gliel’avrebbe fatta pagare cara e dal
momento che i bomboloni
le erano riusciti particolarmente buoni e soprattutto non erano ancora
finiti,
meglio farla arrabbiare un’altra volta.
Era
chiaro a tutti, persino agli
zii affetti da mutismo, che non ci sarebbero stati abbracci , ma
nessuno si
sarebbe aspettato una gelida stretta di mano in silenzio, talmente
prolungata
da far domandare agli astanti chi delle due avrebbe mollato la presa
per prima.
Per fortuna, Achille aveva messo fine a quella tacita lotta e aveva
trascinato
Azzurra sulla porta.
-
Grazie mamma. Ciao papà, zii.
-
Grazie, signora Dora, – aveva
rimarcato Azzurra, come a farle intendere che non la temeva affatto.
–
Buonanotte.
-
Sì, sì… ciao, – aveva
risposto
sgarbata la donna.
-
Buon viaggio, ragazzi.
Arrivederci, cara.
Azzurra
fece per andare a salutare
meglio quel delizioso suocero che era Ettore, ma Achille la
bloccò, facendole
intendere che aveva già manifestato fin troppo apertamente
il gradimento per
suo padre.
-
Arrivederla! – civettò, prima che
Achille la strattonasse fuori dalla porta.
Nel
giardino dei Quaresmini, l’aria
di metà aprile era fresca e profumata di fiori, ma in cielo
due grosse nuvole
facevano presagire una pioggia imminente. Perfetto: Achille adorava
viaggiare
in auto con le gocce che scivolano a diverse velocità sul
parabrezza e il vetro
del finestrino leggermente abbassato, per fare entrare
nell’abitacolo l’odore
acre dell’asfalto bagnato.
-
Beh, non è andata male, –
considerò.
Tentò
di sorridere e di contagiare
anche lei, ma Azzurra lo guardò come se le avesse proposto
un menage à trois
con Chantal: non penso proprio.
-
Tua madre mi odia, – gli disse,
mentre scendeva i gradini e passava appositamente in mezzo
all’aiuola fiorita
del giardino. Schiacciò violette e abbatté iris e
primule. Achille la lasciò
fare, osservandola dal vialetto con le mani in tasca; meglio lasciarla
sfogare
sui boccioli di sua madre, che più tardi sui propri.
-
Il 95% delle suocere odia le
fidanzate dei figli e viceversa.
Azzurra
terminò la strage e si
voltò verso di lui.
-
Non stai negando…
Lui
la raggiunse e le fece segno di
uscire dal giardino. Le cinse un fianco con il braccio e la
scortò fino alla
macchina.
-
Mia madre odia tutte le ragazze
che mi girano attorno.
-
Tutte?
A
giudicare dal tono usato, Azzurra
non voleva sapere se la signora Dora si opponesse a ogni essere di
sesso
femminile che avesse l’ardire di avvicinarsi al Pelide, ma
piuttosto se il
numero delle suddette fosse molto elevato.
-
…che mi hanno girato
attorno. Trent, non le è mai piaciuta nessuna.
-
Tranne questa Lucilla, a quanto
pare!
E
lei che diavolo ne sapeva di
Lucilla? Sua madre doveva aver tirato fuori l’argomento in un
momento in cui
lui era distratto dai bomboloni o stava pensando a come cavolo gli
fosse venuto
in mente di portare Azzurra dai suoi, ancor più visto che
lei pareva piena di
odio per sua madre e d’amore per suo padre.
-
A me e Lucilla piacciono le
stesse cose, – le spiegò con fare scientifico.
-
I grattini dietro l’orecchio e
fare pipì seduto? – gli chiese seria.
-
No, saputella: – replicò,
pizzicandole un fianco. – Le donne.
Azzurra
arcuò le sopracciglia:
questo era indubbiamente un punto a favore della tizia. E spiegava
anche perché
trovasse l’approvazione di Dora; probabilmente era
più interessata a lei che a
suo figlio.
Salirono
in macchina e ripresero
l’A4 in direzione Venezia. Azzurra gli promise che gli
avrebbe tenuto compagnia
per evitare che lui si appisolasse, ma, come previsto, si
addormentò dopo venti
chilometri e cominciò a russare.
Achille
alzò il volume del radio e
s’impedì di pensare ai litri di bava che il suo
sedile – lo stesso che aveva
lavato con tanta cura quel pomeriggio – stava per assorbire.
Azzurra
riaprì gli occhi solo
quando avvertì l’auto fermarsi: ci mise un minuto
buono per capire che era già sotto
casa sua. A quel punto, si voltò verso il suo fidanzato, che
la stava guardando
con un sorriso.
-
Quanto tempo ho dormito? – gli
chiese sbadigliando.
-
Pochi minuti… – mentì lui.
Lei
batté le mani per la propria –
totalmente fasulla – resistenza al sonno.
-
Te l’avevo detto, che ti avrei
tenuto compagnia! – rinfacciò a quel miscredente
che aveva dubitato di lei.
-
Eh, che vuoi che ti dica? Avevi
ragione, Picciona, – l’accontentò.
Sapeva
di doverle almeno una
piccola bugia quella sera, dopo l’inferno a cui sua madre
l’aveva sottoposta.
Ci rimetteva lui e il suo orgoglio, ma dopotutto scommettere su Azzurra
che si
addormentava durante il tragitto in macchina era come puntare un
milione di
euro sulla presenza del caldo in estate.
-
Ti fermi a dormire? – le chiese
lei, ma lui fu costretto a rifiutare.
-
Torneo di calcetto domani mattina
alle 7.30 con Fabrizio. – Si sganciò la cintura di
sicurezza e si girò verso di
lei. – Ehi, grazie di essere venuta stasera, anche se non ne
avevi voglia. Mi
dispiace per mia madre, non credevo sarebbe stata così
scatenata con te.
-
È gelosa del suo bambino, lo
capisco, – ammise Azzurra.
-
Ti detesta proprio…
-
Addirittura?
La
cosa, sebbene non di certo
sorprendente, un po’ la ferì. Le dispiaceva non
andarle a genio.
-
No, dico, l’hai vista? Ti ha
maltrattato in ogni modo, ti ha fatto gli gnocchi quando le avevo
espressamente
detto di non farli, ti ha dato i pezzi di carne peggiori, ti ha
sporcato il
vestito con il dolce ed è stata la causa scatenante del
piccolo incidente in
cucina! Trent, ti odia! – Un lungo suono acuto simile ad un
insieme di i proveniente da Azzurra
gli fece
drizzare i peli delle braccia. Lei cominciò a singhiozzare,
come aveva visto
fare a Diana mille volte quando Elettra non voleva comprarle qualcosa.
Cazzo,
doveva comprarle qualcosa? – Azzurra, che succede?
Le
tolse la cintura di sicurezza e
guardò due grossi lacrimoni scenderle sulle guance. In quei
casi Elettra dava a
Diana una caramella, ma lui aveva solo gomme da masticare. Avrebbero
funzionato
ugualmente?
-
Le-i mi o-di-a! – stava
frignando.
-
Picci, mia madre aborra tutte le
donne della mia vita! – tentò di rassicurarla,
fallendo miseramente.
-
Al-lo-ra i-io so-no u-gu-a-le
al-le al-tre?
Azzurra
strillò ancora più forte,
tanto che Achille si affrettò a tirare su il finestrino,
prima che qualche
passante nottambulo pensasse che lui la stesse picchiando o roba del
genere.
-
No! – le gridò di rimando. – Sai
una cosa? Odia te più di chiunque altro.
La
sua ragazza parve
tranquillizzarsi un pochino.
-
Sicuro?
-
Mh-m.
-
Non lo dici solo per farmi
sentire meglio? – gli chiese con la faccia impiastricciata di
rimmel colato.
-
No, giuro, Picci.
E
non stava neppure mentendo! Di
norma, non avrebbe detto alla propria fidanzata che sua madre la vedeva
come
l’essere più immondo della Terra, ma su Azzurra
sembrava che questa
informazione avesse un potere calmante.
-
Quanto? – gli domandò.
Doveva
pensare a qualcosa o
qualcuno di estremamente irritante e malvagio.
-
Tanto quanto odia Adolf Hitler o
il gatto che fa sempre pipì sul suo zerbino. Credimi,
è molto odio.
Azzurra
si asciugò le lacrime con
un fazzoletto preso dal portaoggetti e fece una faccia stupita.
-
È un sacco di
odio…
Achille
annuì con vigore e il suo
piccolo cervello maschile gli suggerì di provare a volgere
la situazione a
proprio favore.
-
E l’odio è proporzionale a quante
volte ti vedrà. – le spiegò.
– Più andremo a cena da lei, più ti
odierà e tu
sarai la persona che detesta al mondo!
Voleva
bene a sua madre, ma non
aveva davvero la necessità di vederla molto più
spesso. Però, sentiva il
bisogno fisico di mangiare i krapfen di mamma Dora anche più
di frequente.
-
Giusto! – incredibilmente Azzurra
fu d’accordo.
Achille
non credeva alle sue
orecchie.
-
Direi che dovremmo andare dai
miei almeno una volta al mese! – azzardò.
-
Ri-giusto! – gli sorrise la
ragazza. – Ora ti lascio andare a dormire… notte,
Piccione.
Gli
mise le braccia al collo e lo
bacio come se stesse partendo per andare al fronte. Achille era troppo
felice
per non ricambiare con un affetto tale da fargli sperare di rimanere e
passare
la notte con lei.
Azzurra
scese dalla macchine
nell’apice dei festeggiamenti interni del riccio. Oh mio Dio!
Non ci credeva!
Come aveva fatto a convincerla? Cielo, era un genio! L’aveva
fregata! Un
addomesticatore di donne. Controllò l’orologio e
constatò che era tardi: cazzo,
era mezzanotte passata, altrimenti avrebbe chiamato subito Fabrizio,
Marco,
Giovanni e, roviniamoci!, pure la Leone. Questo lo giustificava come
minimo a
ballare nudo per casa per cinque minuti senza sentirsi un idiota.
Aveva
la ragazza perfetta – anche
se un po’ troppo emotiva, umana e graziosa –, sua
madre avrebbe smesso di
dirgli che si faceva vedere troppo poco e avrebbe avuto loro: i
bomboloni alla
crema. Mancava solo lo scudetto della Juve e la sua vita sarebbe stata
completa.
Un
tocco ripetuto sul vetro
interruppe il carnevale di Rio organizzato dalla sua mente. Era
Azzurra. Girò
la chiave nel quadro quel tanto che bastava per consentirgli di
abbassare il
finestrino.
-
Dimenticato qualcosa? – le
chiese.
-
Direi che due cene all’anno dai
tuoi sono più che sufficienti. – lo
informò. – Buonanotte.
Gli
morse la punta del naso e se ne
ritornò felice verso l’ingresso del suo condominio.
Achille
rimase dolorante e
sconfitto all’interno della sua macchina.
Nonostante
tutto, sorrise.
No,
con le donne non avrebbe mai
vinto. Soprattutto non con la sua.
Sì,
a quanto pare sono ancora viva. Il problema è
che sono un tantino leeenta!
Carrellata
di note sulle citazioni del capitolo: su
Facebook ho messo l’avviso di spoiler della terza stagione di
Downton
Abbey,
spero l’abbiate letto tutti. Frank Lloyd Wright è
un famoso architetto. Tanguy
è il protagonista dell’omonimo film
francese del 2001; è un adulto che vive ancora con i suoi
genitori e non ha
intenzione di andarsene. Il telefilm citato è Squadra
Speciale Cobra 11. Brian Johnson è
il cantante degli AC/DC e Back
in black è una loro canzone. Se non conoscete Ally
McBeal, siete delle brutte persone; John Cage
alias Biscottino è uno dei personaggi principali. Windsor
è l’attuale Casa Reale
della Gran Bretagna e territori ad essa legati. Marco Tronchetti
Provera è un
imprenditore milanese. Bernardo è il favoloso servo muto di
Zorro. Crudelia De
Mon è l’alter-ego di Nessie (che ha betato,
impedendovi di scoprire neologismi
ed espressioni di mia invenzione… shame on you!) e la madre
di Rosie, altro
soggetto ben poco raccomandabile. Emotiva, umana e graziosa è un riferimento alla prima os della
raccolta, Mortofrutta.
Alla
prossima,
S.
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