9.
Quando
iniziai ad amarla
Non
ricordo di preciso quando iniziai ad amarla.
Forse
avvenne subito, quella sera in cui la vidi danzare sul trampolino della
piscina, o è possibile che quella fosse solo infatuazione,
mentre l’amore si
impossessò del mio animo a poco a poco, lentamente,
posizionando i suoi
mattoncini con cura.
Non so quando, ma successe.
Successe
che l’amai così profondamente ed
incondizionatamente che, a volte, fa male
ripensare al modo in cui le donai me stesso. C’è
questa emozione che si
sprigiona in me ogni volta che ripenso a May e non posso fermarla,
nemmeno dopo
tutti questi anni. Ed è proprio il tempo che ha assassinato
il mio sogno
insieme a lei,
scorrendo silenzioso, in
modo che io non mi rendessi conto di esso, per poi uccidermi, uccidermi
quando
mi sono accorto che non ce n’era più, di tempo.
Dolce
è
il ricordo dell’amore che le donai, forte e passionale. Dolce
è il ricordo di
lei e di quando mi svegliai, sdraiato su un marciapiede, la mattina
dopo il
nostro arrivo al Coo. Mi chiesi dove diavolo mi trovassi e
perché mi fossi
addormentato per terra, ma quando mi resi conto che accanto a me, la
testa
appoggiata alla mia spalla, riposava May, le mie preoccupazioni si
dissolsero.
Guardai il suo viso rilassato, priva della malizia che la
caratterizzava, e mi
sembrò più giovane di anni. Una bambina. Una
bambina dolcissima.
Rimasi
lì, sdraiato sulla ghiaia, per un lasso di tempo indefinito,
lasciando che la
mia mente si staccasse lentamente dal dormiveglia, senza metterle
fretta. Poi,
mi alzai con calma, spolverandomi i vestiti malridotti e cercando di
domare il
cespuglio del miei capelli.
La
porta del Coo era chiusa e sulla vetrata principale era appeso un
cartello che
annunciava la chiusura del locale. Notai che la macchina era
parcheggiata nello
stesso posto in cui l’avevamo abbandonata la sera precedente,
ma dentro, come
elemento in più, stavano Tom, Kurt e Dean, stravaccati nello
spazio angusto. In
quel momento iniziai a sentire il disperato bisogno di una doccia e uno
spazzolino, cose a cui non avevo minimamente pensato quando avevo
deciso di
partire con May. Accantonai quel desiderio, conscio che non si sarebbe
avverato
tanto in fretta, e guardai il mio aspetto nello specchietto
dell’auto: i miei
capelli erano sempre uguali, solamente molto più
scompigliati, mentre invece le
labbra erano un po’ screpolate, probabilmente a causa delle
bravate della notte
appena trascorsa. Ma fu quando guardai dentro ai miei occhi, che mi
resi conto
di avere davanti una persona così profondamente cambiata, da
risultare quasi
irriconoscibile: vi era una scintilla, in quel verde smeraldo, una
scintilla
così abbagliante da illuminare tutta la mia persona. Una
scintilla di vita.
Morto
vivente,
cuore
spento,
occhi
vuoti.
Poi
Sei
arrivata tu, O Musa
E
io ho iniziato a vivere.
Ricordo
come rimasi scioccato nel vedere quanto ero mutato, quanto avessi preso
consapevolezza di ciò che significava vivere, vivere per
davvero, dando il
massimo, abbandonandosi al piacere, perché non era vero che
la vita era peccato
e dolore, la vita era amore e gioia, gioia infinita. Gioia insieme alla
mia
Musa.
«Prima
eri bello...» Sobbalzai, spaventato dall’improvviso
arrivo di May, che mi aveva
passato le braccia intorno al collo – dolce
prigione – e mi parlava dolcemente, le labbra
appoggiate al mio orecchio – brividi.
Mi fece
voltare, in modo da poterla guardare in viso – bella, bella
come era proibito,
proibito il suo fascino. «...Adesso, lo vedi? Sei
bellissimo.»
Mi
baciò sulle labbra, senza lussuria, semplicemente
trasmettendomi tutto il
sentimento che sentiva nei miei confronti. E io lo percepii. Lo
percepii così
intensamente che venni scosso da mille tremiti, sentendo
l’impulso di stringere
quel suo corpo di sirena a me.
Prima
eri bello, adesso sei bellissimo. Seppi
con certezza che si riferiva al mio cambiamento interiore, al fatto che
prima
ero un bel ragazzo che sopravviveva facendo ciò la
società gli imponeva, eseguendo
gli ordini dei genitori e della madre, mentre ora ero bellissimo.
Bellissimo e vivo.
«Inizio
a capire il segreto della tua bellezza, allora.» Sorrisi,
ammaliato dal suo
riso, che già stava salutando un nuovo giorno, rendendo la
mattinata migliore.
È che non ce n’erano di risate come le sue, non
era possibile trovare un'altra
risata come la sua, così ridente che sembrava voler far
fiorire ogni pianta,
far crescere ogni frutto e far sbocciare la vita.
Lei era
vita, ne sono sempre stato convinto e lo sarò sempre.
«Dovremmo
fare colazione, non credi? Ho una certa fame.» Ero un giovane
ragazzo che era
abituato a mangiare dei pasti abbondati ed avevo bisogno di riempire lo
stomaco.
«Perché
non mi hai portato la colazione a letto, caro?»
Sfoderò un accento british,
imitando
le coppie di sposati, tirando fuori un lato di sé buffo e
divertente. Un altro lato di sé
che non conoscevo. Dovevo
scoprire ancora molto di May ed avevo tutta l’intenzione di
farlo, aggiungendo
ogni pezzo a quelli che già avevo, cercando di acquisire
più informazioni
possibili. Ridemmo un po’, prendendo in giro i nostri
genitori, improvvisando
balletti africani. Quando mi misi a fischiettare con le mani dietro la
schiena,
fingendo di essere uno di quei vecchietti che si vedono nel mio
quartiere, la
mia Musa scoppiò a ridere così fragorosamente che
le vennero le lacrime agli occhi.
«Avete
finito di fare casino? Cristo!» Kurt, però,
sembrava non aver apprezzato il
nostro spettacolino, al contrario di Tom e Dean che, appena svegli, ci
osservavano divertiti. Comunque, visto che ormai eravamo tutti freschi
di
dormita e che il pub era chiuso, decidemmo di partire, in cerca di un
posto
dove mangiare qualcosa a basso prezzo. A causa della marijuana,
l’automobile si
riempì velocemente di fumo, così fummo costretti
a continuare il viaggio con i
finestrini aperti, mentre gli insulti del Motociclista facevano da
sottofondo.
Tom prese a suonare la chitarra e ci ritrovammo presto a cantare Can’t buy me love dei Beatles,
condividendo
le parole del gruppo: a noi non importava molto dei soldi,
perché i soldi non
potevano comprare l’amore.
Dopo qualche
ora in strada, iniziammo ad intravedere una piccola cittadina,
così ci
immettemmo nelle vie principali, seguendo le indicazioni sui cartelli.
«Oh,
ma
certo! In questo buco di culo ci abita un mio amico!»
esclamò Tom che,
completamente stordito dalla cannabis, si era accorto solamente dopo
una
mezz’ora di ciò che stava succedendo.
Così decidemmo di fare tappa da questo
suo fantomatico amico, che nessuno sapeva conoscere e di cui tutti
dubitavamo
dell’esistenza. Ma, dopotutto, eravamo affamati e con pochi
soldi in tasca,
quindi ben disposti a mangiare a sbaffo.
A volte
May abbandonava un momento il suo ossessivo guardar fuori dal
finestrino e
faceva aderire la sua coscia alla mia, per poi guardarmi teneramente e
stamparmi un bacio fugace sulle labbra. Era così, tra di
noi, non parlavamo
anche per intere ore, semplicemente perché non avevamo nulla
da dirci e non
volevamo aprire la bocca solo per dire fesserie. Se interagivamo era
perché lo
volevamo.
«È
questo palazzone, qua!» Tom indicò un edificio
piuttosto malmesso, sviluppato
in altezza piuttosto che in larghezza, con grondaie a vista e crepe
lungo tutte
le mura. Di certo non prometteva bene, ma d’altronde ci
trovavamo in uno degli
isolati più poveri della cittadina. Ancora non eravamo certi
che Tom non stesse
semplicemente delirando, per cui avanzammo con cautela, osservando
scrupolosamente i campanelli.
«Non
troverete il suo nome sul citofono.» Nel vedere i nostri
sguardi interrogativi,
Tom alzò gli occhi al cielo, prendendo a muovere le mani
come se stesse
scacciando via una mosca. «Ha problemi con la
polizia.»
Non
pronunciammo più parola, ma ci limitammo a seguire il nostro
sballatissimo
amico su per le scale del condominio, che sembravano essere infinite:
continuavamo a salire, senza ma trovare una fine a quel supplizio. Ad
un certo
punto, Kurt sbraitò contro Tom, chiedendogli dove cazzo ci
stesse portando.
Comunque – strano, ma vero – arrivammo ad un
pianerottolo nel quale vi era una
sedia con sopra un vaso di fiori appassiti; sulla sinistra, invece, vi
era una
porta dipinta di un viola scuro, sulla quale era stato scritto con la
vernice
nera “Lo Sciamano”.
Tom fece un
inchino, come a dirci che il suo amico esisteva per davvero e non se lo
era
inventato, per poi prendere a bussare con forza alla porta.
Dopo
alcuni minuti di attesa, l’imposta venne aperta e sentii una
musica piuttosto
rilassante arrivare dall’interno della casa, come una di
quelle melodia
indiane. Davanti a noi stava un uomo alto e dalla pelle abbronzata, che
ci
guardava con aria piuttosto scocciata.
«Juan!»
Non appena l’uomo notò Tom sorrise calorosamente,
aprendo le braccia invitando
il ragazzo ad abbracciarlo, cosa che non si fece ripetere due volte.
Era ormai
evidente che, nonostante fosse completamente fatto, il nostro amico si
ricordasse perfettamente l’indirizzo di quello strano tizio
in camicione di
lino ed infradito.
«Come
mai sei tornato al nido, Tomito?»
L’uomo parlò con estrema calma, come se dosasse le
parole, mentre teneva le
mani unite, quasi stesse pregando. I suoi occhi arrossati mi fecero
rapidamente
comprendere che l’odore forte che arrivava
dall’interno dell’appartamento non
era incenso.
«Io e
i
miei amici stiamo andando a Woodstock, sai, stanno organizzano qualcosa
di
grande lì, così abbiamo deciso di farci un
salto.» Tom fece sembrare il nostro
progetto come un’idea spuntata dal nulla ed in effetti era
stato proprio
qualcosa del genere per me, che mi ero fatto trascinare il quella folle
esperienza all’improvviso. Per la prima volta in due giorni
pensai ai miei
genitori – mi ero completamente scordato di loro –
e mi maledissi per non
avergli ancora fatto ricevere mie notizie. In
ogni caso, le mie riflessioni vennero
presto stroncato da Juan, che aprì di più la
porta, invitandoci nella sua
dimora.
Entrare
in quella casa fu un’esperienza ultraterrena. Forse per via
dei tappeti in
stile orientale che fungevano da moquette, o magari a causa delle
lampade a
luce rossa che conferivano all’ambiente un aspetto illecito.
L’odore di fumo
era più forte che mai all’interno e, mentre
seguivamo Juan tra i corridoi
dell’appartamento, pensai di essere finito in un luogo magico
e spirituale.
C’era qualcosa di mistico, lì. Sulle pareti vi
erano quadri pornografici di
donne con le gambe aperte e la vagina alla mercé del
pubblico, di uomini che
facevano sesso con altri uomini e soggetti simili; i mobili sfoggiavano
piccole
statuette raffiguranti Buddha e l’incenso che mischiava
andava a mischiarsi con
il profumo di spinello, che le numerose persone presenti
nell’alloggio stavano
fumando.
L’idea
di trovarmi nel fulcro di una sette indiana mi balenò nella
mente, ma Tom si
voltò e ci sorriso convinto ed eccitato, senza mai smettere
di ascoltare rapito
la voce di Juan, che ci aveva scortati fino ad un grosso salone dove
gli ospiti
consumavano chilom seduti su
morbidi
divanetti.
«Benvenuti
nella mia umile dimora.» L’amico di Tom
aprì le braccia in segno di
accoglienza. Poi ci disse che, in quanto amici di Tom, dovevamo
sentirci come a
casa nostra e potevamo usufruire di tutto ciò che ci
circondava.
Guardai
May. May guardò Kurt. Kurt guardò Dean. Dean
guardò Tom.
E da
quel momento cominciò la festa.
Ripetemmo
il nostro solito rituale fatto di alcol, droghe e musica ad alto
volume. Ci
lasciammo trasportare dall’odora dell’incenso,
mentre il fumo della marijuana
entrava nel cervello guidandoci verso luoghi mai esplorati. La musica
sembrava
volerti entrare dentro e, nonostante intorno vi fosse un caos
incredibile,
canticchiavo le canzoni che sentivo, barcollando per
l’appartamento come un
morto vivente. Nel corridoio, in un angolo semibuio, una coppia stava
scopando
senza preoccuparsi della gente che li osservava; ricordo che scoppiai a
ridere
di fronte a quella scena irreale, poi applaudii un po’ ed
infine me ne andai,
scocciato dal fatto che loro stessero facendo sesso ed io no.
Non
saprei raccontarvi con precisione il resto della giornata,
però è certo che
intrattenni una conversazione filosofica insieme a Juan, mentre Dean mi
intimava di lasciar perdere quelle stronzate e andare a provare il narghilè insieme a lui. Ad un
certo
punto, però, dovetti essermi ripreso, perché le
memorie tornando piuttosto lucide
e nitide: me ne stavo stordito su un divanetto, quando vidi la mia Musa
alzarsi
in piedi su un tavolino ed iniziare a danzare, donando uno spettacolo
irripetibile all’intero alloggio. Muoveva quei fianchi in un
modo
maledettamente arrapante, mentre con la mano si accarezzava il corpo,
senza mai
smettere di guardare nei miei occhi.
Seducimi,
o Musa
Seducimi
ancora
E
io ne morirò.
Allungò
una mano verso di me e io la presi. Insieme.
Salii su quel minuscolo tavolino che a stento riusciva a
tenerci entrambi e
presi a dimenarmi toccandole il corpo, fregandomene della gente che ci
guardava
eccitata, in attesa di altro. Io ero con lei. Con lei in
quell’universo nostro,
nostro e di nessun altro, in cui ci nascondevamo e ci proteggevamo dal
mondo
bastardo che non ci comprendeva.
«Vieni
con me»
La
sua voce un brivido nell’orecchio.
Scendemmo
dal nostro palco improvvisato e, tenendomi per mano, mi
portò nuovamente il
quel labirinto di porte che era il corridoio. Non avevo ancora smaltito
l’alcol
e il fumo, percepivo solamente la mano della mia May e il suo profumo
accanto
al mio. Entrammo in una stanza vuota, arredata con un solo letto
matrimoniale
al centro e una lampada.
La mia Musa mi stregò con uno sguardo, prima di prendere a
baciarmi dolcemente,
come se il tempo non avesse alcuna importanza, come se
l’unica cosa che avesse
davvero un minimo di rilievo fosse la sua bocca sulla mia e che,
quindi,
meritasse cura. Mi levò la maglietta, sorridendomi,
perché sapeva che avevo
capito qual era il suo punto di arrivo, quella volta. Iniziavo a
conoscerla
abbastanza bene per poter sapere che ballare la eccitava da morire. Ed
era per
quel motivo che ci trovavamo soli in quella stanza.
La
fermai un solo istante, mentre ormai eravamo già sdraiati
sul grosso letto.
La
fermai e la guardai.
Occhi
negli occhi.
E
ancora una volta lasciai che il mio animo annegasse in quel blu oceano,
perché
non aveva senso togliersi il piacere di scoprire cosa vi era dentro le
sue
iridi. Non mi sorrise, la mia Musa, ma scese a baciarmi il ventre,
mentre il
mio animo si era ormai risvegliato e il mio bisogno si faceva sentire.
E io la
sentivo. Così vicina.
E la
baciai. Una volta, due volte, cento volte. La baciai in ogni parte del
suo
corpo, baciai le sue labbra, le sue spalle, i suoi seni, la sua pancia.
Baciai
la sua intimità e nel sentirla gemere sprofondai
nell’oblio della passione,
perché ero io, io e solo io ad averla fatta godere. Ero io
che le stavo
provocando piacere. E non ci fu più tempo per parlare, per
pensare. Non c’era
bisogno di parole inutili, sporche e corrette.
C’erano
i suoi occhi.
C’erano
i miei occhi.
E
quello bastava.
Bastava
per poter infine entrare dentro di lei e sentire le sue gambe
stringermi la
vita, mentre le sue mani mi infliggevano una dolce tortura,
graffiandomi la
schiena. E mi lasciai guidare da lei, muovendomi come un’onda
del mare,
inebriandomi del suo odore, del suo sapore. Godetti nel sentirmi
finalmente
dentro di lei, dentro il suo corpo, dentro la sua anima. Suo.
Ero finalmente suo. Era lei ad aver penetrato me, non io. Mi
accolse nel suo sesso con trasporto e io mi sentii a casa, come non lo
ero
stato mai, mai prima di allora, perché quello ero il mio
posto, era lì dove io
dovevo stare. Giusto.
Spinsi
più forte, spinsi dentro di lei, spinsi con lei, spinsi per lei. Presi ad entrare ed uscire dal
suo corpo freneticamente,
sapendo che la fine era quasi giunta, non volendo che arrivasse,
tentando di
darle ancora, darle di più, darle tutto, tutto me stesso. E
fu quando la sentii
gemere rumorosamente, mentre toccava l’apice che compresi.
Compresi
di amarla.
La
seguii velocemente, abbandonandomi ad uno degli orgasmi migliori di
tutta la
mia vita.
Compresi
di amarla.
Non
ricordo di preciso quando iniziai ad amarla.
Forse
avvenne subito, quella sera in cui la vidi danzare sul trampolino della
piscina,
o è possibile che quella fosse solo infatuazione, mentre
l’amore si impossessò
del mio animo a poco a poco, lentamente, posizionando i suoi mattoncini
con
cura.
Non so quando, ma successe.
*
Angolo
Eryca
...
I’m back!
In
estremo ritardo, certo, ma sono
tornata. Insomma, ormai avrete imparato a conoscermi e avrete capito
che essere
puntale non è proprio da me. Ma poi arrivo.
Tanto
per iniziare: non uccidetemi per
quella terribile scena rossa a cui vi ho dovuti
sottoporre. Lo so che fa un po’ cacare i piccioni (?)
però ci doveva essere e
io ci ho messo del mio meglio. Spero comunque che un minimo di decenza
io l’abbia
mantenuta.
Anyway,
se tutto va come previsto mancano
due capitoli più l’Epilogo alla conclusione. Siamo
quasi arrivati al capolinea,
ragazzi.
Come
sempre chiedo di lasciarmi un
commentino se leggete, perché leggere i vostri pareri mi
diverte, mi rilassa e
mi da una gioia pazzesca. E ultimamente ho potuto leggerne pochi.
Purtroppo.
Ah,
sì! Che sbadata! Ci tengo a
ringraziare di cuore tutte le 22 persone che hanno messo tra le seguite
questa
storia, le 12 che l’hanno inserita nelle preferite e le 5 che
l’hanno messa tra
le ricordate. Sarete anche in pochi, ma siete i miei amati lettori e io
pubblico per voi.
Moi,
je vous aime.
La vostra Eryca.
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