Si svegliò di soprassalto, le labbra spalancate
nel grido che aveva represso per tutti gli anni passati al fronte.
Qualcuno le stava tenendo una mano sulla spalla per impedirle di fare
movimenti bruschi, ma Sharon sentiva ugualmente il cuore dibattersi
come un'uccellino in gabbia.
L'ultima cosa che ricordava era di aver visto il suo volto, il volto
che l'aveva tenuta sveglia per mesi.
E che ora la stava fissando con aria preoccupata da una debita
distanza, impacciatamente seduto sul bordo del divano di quello che la
donna riconobbe come il suo salotto.
"Come ti senti?"
La voce di Reim, decisa e rassicurante come ogni volta che si rivolgeva
a un paziente, completamente priva di qualsiasi nota di panico,
la riscosse del tutto dal torpore dello svenimento e Sharon
voltò con lentezza la testa verso di lui.
"Ho conosciuto tempi migliori..." biascicò dopo un istante, per
poi scostare la sua mano dalla spalla con l'intenzione di mettersi a
sedere.
Riuscì a puntellarsi sui gomiti senza che nessuno provasse a
fermarla e appoggiò la schiena contro la poltrona preferita
dal
suo coinquilino, lo sguardo fisso sull'unico occhio di Xerxes.
"È bello rivederti, fräulein,"
azzardò il tedesco stirando le labbra in un sorrisetto che
di allegro non aveva nulla.
"Xerxes Break," soffiò lei in risposta, senza prestare
attenzione a quanto ascoltare di nuovo l'accento tedesco dell'altro le
annodasse lo stomaco. "Tu mi devi delle spiegazioni."
Il sorrisetto di Break si affievolì sino a scomparire in una
linea esangue.
"Kevin, prego," la corresse con un filo di voce. "Kevin Regnard,
soldato del quarantatreesimo reggimento di fanteria dell'esercito
tedesco."
Il cervello di Sharon impiegò una manciata di secondi a
elaborare quell'accozzaglia di dati mormorati in tono colpevole e
ricollegarli a tutti i suoi inutili tentativi di ottenere informazioni
su qualcuno che non era mai esistito.
O almeno, mai al di fuori di un ospedale da campo vicino alla Marna nel
quale lei aveva perso la giovinezza.
Aprì la bocca per dire qualcosa, anche un semplice insulto,
ma i
ricordi di quei giorni le avevano seccato la gola, che bruciava nei
punti in cui si era lasciata aggredire dalle labbra di Vincent.
Tutto per salvare la vita di un uomo di cui non conosceva neanche il
nome.
Un uomo che la chiamava fräulein strascicando
le erre, un uomo che lei aveva raccolto da una pozza di sangue.
Reim si schiarì la voce e Sharon avvertì il suo
sguardo
preoccupato vagare da un capo all'altro della stanza, sino a fermarsi
sul tedesco.
"Ero spaventato!" sbottò lui, l'iride rossastra
improvvisamente
segnata dallo stesso smarrimento di chiunque fosse tornato vivo dalla
guerra.
La lunga cicatrice che lei stessa aveva cucito sussultò
sotto un disordinato ciuffo di capelli ancora più chiari di
quanto ricordasse, quegli stessi capelli che lui le aveva chiesto di
tagliare anni prima.
Quegli stessi capelli tra i quali aveva lasciato scorrere le dita come
nell'acqua della Marna, convinta di potersi rifugiare lontano dai colpi
di artiglieria pesante che straziavano l'aria e l'anima.
"Sei sempre così spettinato," mormorò con lo
sguardo altrove, lontano migliaia di chilometri, perso tra illusioni
ormai andate in frantumi.
Accanto a lei Reim si schiarì la gola, visibilmente a
disagio.
"Quindi ci hai dato un nome falso perché non ti fidavi di
noi," commentò dopo un colpo di tosse. "Ho capito bene?"
Il tedesco si limitò ad annuire, le dita strette attorno
alla stoffa del divano come se fosse stato sull'orlo di precipitare in
un baratro che solo lui riusciva a vedere e che Sharon avrebbe solo
potuto intuire.
Del resto neanche lui avrebbe mai potuto perdersi nell'abisso dei
ricordi della donna, neanche se fosse stata lei stessa a guidarlo;
potevano solo trattenersi a vicenda dal fare un altro passo.
La stanza restò immersa nel silenzio per qualche attimo
ancora, poi il medico si alzò e si avviò verso la
porta di casa a passi lenti, voltandosi verso Kevin prima di uscire.
"Lei ti ha salvato la vita, straniero," sentenziò gelido.
"Io potrei non essere altrettanto clemente."
I due uomini si scambiarono uno sguardo eloquente, dopodiché
Reim si decise a lasciarli soli.
"Fräulein
Rainsworth," azzardò il tedesco "ho provato a dirtelo il
giorno dell'evaquazione."
Improvvisamente le tornarono in mente il cortile dell'ospedale,
assediato dalle ambulanze e dagli spari, e le labbra del soldato che si
muovevano senza che lei riuscisse a carpire alcun suono.
"Vuoi che me ne vada?" lo sentì chiedere con un filo di voce.
Voleva che se andasse?
Una parte di lei l'avrebbe cacciato a calci via dalla città,
via dalla Svizzera, in qualche posto dove non potesse più
riaprire le ferite che si era sforzata di dimenticare, ma allo stesso
tempo l'idea di perderlo di nuovo la terrorizzava.
Ora che lui era lì, al riparo dai loro orrori quotidiani.
"Sharon, prego," lo scimmiottò con un sorriso raddolcito,
per poi alzarsi (era normale che la testa le girasse così
tanto?) e percorrere a piccoli passi la distanza che li separava.
"Voglio chiamarti col tuo vero nome e voglio che tu faccia lo stesso."
Lo disse tutto d'un fiato, riuscendo chissà come a sostenere
il suo sguardo senza lasciar tremare la voce, osservando immobile le
braccia dell'altro protendersi verso di lei e attirarla verso il basso,
contro il petto di un uomo scosso da tremiti che sembravano singhiozzi.
Le mani di Kevin erano esili, eppure la stringevano sino a farle
mancare il fiato, mentre la sua bocca biascicava senza riuscire a
fermarsi il nome di colei che l'aveva salvato.
Reim avrebbe raccontato più volte di essere tornato a casa a
notte fonda e di averli trovati addormentati in quella posizione,
raggomitolati l'uno nell'abbraccio dell'altra.
"Emily Regnard, scendi subito da lì!"
Un microbo di cinque anni appena compiuti corredato di sorriso
macchiato di marmellata al lampone si affrettò a saltar
giù dalla sedia che stava usando per arrivare alla credenza,
per poi correre verso il padre, sicura che lui non l'avrebbe mai
sgridata.
Le bastava uno sguardo, lo sguardo di sua madre nel rosso degli occhi
del padre, per farlo sciogliere come neve al sole.
"E non nasconderti dietro di lui!"
Con sua madre era diverso, ovviamente.
La bambina si pulì in fretta e furia la marmellata dal viso
col dorso della mano, per poi fare qualche passo incerto verso la donna.
"Scusa..." farfugliò in un bisbiglio che di contrito aveva
solo l'apparenza.
Sharon si portò le mani sui fianchi con un sospiro, le
labbra piegate nella smorfia rassegnata che Emily riusciva sempre a
strapparle, in un modo o nell'altro.
La bambina sapeva di aver vinto ogni volta che le vedeva
quell'espressione e si precipitò di corsa verso di lei,
venendo presa in braccio al volo.
"Piccola peste," ridacchiò sua madre mentre le mordicchiava
scherzosamente una guancia.
"Ma guardatele," commentò Kevin, per poi avvicinarsi alle
due con l'andatura titubante ed estatica al tempo stesso che
caratterizzava ogni suo atteggiamento nei confronti della figlia.
"Mamma gatta e la sua prole."
Emily emise un miagolio in falsetto e Sharon si concesse un istante per
sbilanciarsi sulle punte dei piedi e rubare un bacio frettoloso al
marito.
I due si scambiarono un sorriso al di sopra della chioma bionda della
bambina, bionda come quella di una Rainsworth ma perennemente arruffata
come quella del padre.
L'unica cosa che non le avevano trasmesso era l'incubo ricorrente che
li teneva svegli nelle notti più buie e li faceva sobbalzare
a ogni rumore improvviso.
E andava bene così.
La piccola cresceva nel multietnico abbraccio di Ginevra e andava bene
così.
Sharon aveva dovuto aspettare anni prima di riuscire a lasciarsi alle
spalle il ricordo delle mani di Vincent e permettere a Kevin di
toccarla, stringerla a sé sotto le lenzuola, solleticarle le
orecchie col fiato affannato che l'aveva cullata nei tempi della
guerra, ma anche quello andava bene così.
Alla fine avevano avuto Emily, coi suoi occhioni carichi della luce che
credevano di aver perso.
Era talmente luminosa, totalizzante e inaspettata che entrambi avevano
finito per alzare lo sguardo dai loro abissi personali, guidati da una
risata mille volte più fragorosa dei colpi delle
mitragliatrici.
Le guance della bambina sapevano di marmellata al lampone e le mattine
sapevano di vita.
Yu's corner.
Ommioddio, sono viva!
Sono sopravvissuta alla maturità!
E sono anche riuscita a scrivere l'ultimo capitolo di questa storia!
Okay, con calma.
Aaaaaaahjsfdgaldgl non riesco a crederci, ho davvero concluso tutto--
Direi che è d'obbligo un ringraziamento stratosferico a
tutti gli adorabili lettori che mi hanno seguita in Daylight e
che hanno saputo dimostrarmi un affetto e un coinvolgimento commoventi.
Vi voglio tanto bene, sappiatelo.
Questo capitolo è dedicato a voi, con la speranza che sia
risultato all'altezza dei precedenti nonostante sia così
corto.
Bene, ora direi che posso anche rintanarmi da qualche parte, tipo
dall'altra parte del mondo magari.
Ancora un grazie grande quanto la pazienza di Reim a tutti voi, miei
cari!
Bye bye,
Yu.
PS: Se tra di voi c'è qualcuno che segue Shingeki no Kyojin,
sappiate che è in cantiere qualcosa. Sshhhh.
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