Go west
Basta un attimo per innamorarsi quindi non distraetevi.
[Fabio Fazio]
Il mio viaggio con i fratelli Rogers si interruppe presto, purtroppo:
Emma, con la sua paura di vivere, pianse per quasi tutto il viaggio
fino a San Francisco, dove ci sedemmo in una bettola della città e, con
un bicchiere di gin tra le mani, discutemmo del da farsi. Leggevo negli
occhi di Rogers la rabbia verso la sorella ma, con una lunga e seria
discussione, concordammo sul fatto che egli tornasse in città e poi mi
avrebbe raggiunto a Los Angeles. Sarebbero partiti la sera stessa.
Ci sedemmo fuori, sul porticato, solo io e lui. Il cielo era ancora
chiaro, alcune stelle non erano coperte dai fumi
dell’industrializzazione e il chiasso del centro era ancora lontano da
noi: Rogers fumava e l’odore di tabacco riempiva l’aria, mentre
iniziava con un discorso calmo e pacato, in cui leggevo fin troppe
emozioni negative.
<< Dio, non avrei mai voluto ciò. >> Iniziò, perdendosi con
lo sguardo nell’oscurità davanti a sé. << Desideravo una nostra
vita a Los Angeles come mai, e tu lo sai. >>
<< Purtroppo Emma non è ancora pronta. >>
<< L’ho capito: pensavo potesse condividere i nostri ideali, ma
in questo mese di viaggio fin troppe cose mi hanno messo in allerta.
>> Mi prese la mano, che nella sua sembrava ancora più minuta di
quella che era. << Arriverò lì prima possibile, Emily. Aspettami.
>>
<< Sai che non lo farò. >> Scivolai via dalla sua stretta,
e lo guardai negli occhi, con un sorriso sincero e pieno di amore.
<< Non sono fatta così, Ron, e tu lo sapevi. Vivrò la mia vita
ogni giorno, senza perdere occasioni. >>
Per quanto la gente cercasse persone sincere, la mia forse era troppa:
lessi nei suoi occhi la rassegnazione e, con un bacio ed un ultimo
passaggio ad un hotel che poco distava da lì, ci salutammo. Rogers
sarebbe poi arrivato a Los Angeles, ma questo verrà a tempo debito.
Fortunatamente, una mia vecchia amica di città si trovava a San
Francisco. Ci trovammo all’England, un piccolo hotel ma grazioso nel
centro di Frisco: la musica si alzava in cielo, inebriava le strade col
suo ritmo incalzante e pieno di significato. Lei era lì: Mary aveva
ventiquattro anni, capelli biondi ossigenati, grandi occhi azzurri ed
una pelle di alabastro. Mi sorrideva, nel suo abito nero a pois bianchi
e mi corse incontro, appena mi riconobbe. Fu un abbraccio che durò
almeno un paio di minuti.
Mary era stata la mia più cara amica, a Milwaukee. Era partita circa
due anni prima con una compagnia femminile di cantanti: non importava
il genere, spaziavano in tutto ciò che a quel tempo andava di moda,
passando dal jazz fino al rock’n’roll. Aveva avuto il coraggio di
rinnegare la sua vita di giovane figlia di un importante comandante
dell’aviazione per girare l’America.
Quando l’abbraccio si sciolse, lei mi sorrise, con amore come sempre.
Mi baciò la guancia, sporcandola di quel rosso che io stessa portavo, e
mi strinse le mani, in un moto di contentezza infinito.
<< Mio Dio Emily, era così tanto che ti volevo rivedere! >>
<< Oh Mary, non dirlo a me! Ti ho ammirato e pensato ogni giorno,
e le tue cartoline mi hanno messo tale emozione nel cuore che non
potevo non seguirti! >>
<< Vieni! >> Disse, mentre prendevo la mia grossa valigia
su, ed entravamo nella hall dell’hotel, dove ci aspettava una giovane e
distinta signora, che si chiamava Francine. L’avevo conosciuta anni
addietro, quando venne ad insegnare musica nella mia scuola: era strano
rivederla ora con i capelli bianchi, ma con quei grandi occhi azzurri
che mi accolsero con familiarità infinita.
<< Quale piacere rivederti, Emily. >>
<< Piacere mio, mi creda. >> Dopo un breve inchino, salii
nella stanza con Mary. Saremmo partiti pochi giorni dopo per la città
degli angeli e, con mio sommo piacere, guardai finalmente la vita
prospettarsi d’innanzi ai miei occhi.
Il viaggio fu divertente e non troppo lungo. Nella corriera che ci
portava i canti di ogni genere s’intonavano, ed io ero ben felice di
impararli con loro: le ragazze, bene o male, tutte giovani come me, che
volevano fuggire da una realtà troppo mediocre per loro, mi avevano ben
accettata ed anzi, mi chiedevano spesso consigli di trucco e vestiti,
visto il mio stile.
Alloggiavamo in centro alla città. Io, dalla camera dell’albergo, ero
persa a fissare quelle costruzioni bianche, le strade che brulicavano
di persone: vi erano i musicisti, con le chitarre rotte sulle spalle.
Vi erano i Salary Man, con le loro ventiquattro ore che correvano per
strada. Vi erano le casalinghe, che portavano in grosse borse gli
acquisti del giorno. Vi erano le pin up, che leggevano i giornali su
cui, molto spesso, esse stesse posavano. Vi erano i bambini, che
guardavano con meraviglia quel mondo che avrebbe rivoluzionato per
sempre il futuro, vi erano i giovani che, con i loro canti per le
strade, i loro jeans e la loro musica, stavano scrivendo
inconsapevolmente la storia. Era lì, un insieme di persone che non
avevano nessun collegamento tra loro che, in semplici scambi di
sguardi, diventavano complici per sempre: Los Angeles era così. È un
modo di essere vivere qui, con le sue grandi strade bianche, le sue
spiagge cristalline e i suoi locali. Era il centro del mondo, il centro
della cultura, e di essa ne brulicava ovunque, negli angoli della
strada.
Mi persi per almeno venti minuti a fissare quel posto spettacolare.
Intonavo una di quelle canzoni che avevo imparato nel viaggio, mi
muovevo a ritmo delle onde che poco lontano da me s’infrangevano sulla
banchina e immaginavo già la mia vita, in quel posto così nuovo e
diverso. Mary, che era alle mie spalle, rideva sommessamente, ed
accompagnava il mio canto: saltava in piedi, mi prendeva le mani e
ballava con me. Poi tornava a sedere, leggeva sulle riviste i suoi
articoli. Poi accendeva la radio, urlava nel sentire alcune canzoni e
poi nuovamente tutto fiondava nel silenzio.
Era così, quella città. La città dei contrasti, delle speranze, di
tante giovani vite che s’intrecciavano nella ricerca di un futuro
migliore. Tutti, a Los Angeles, erano venuti per vivere. Ed io ne ero
probabilmente l’esempio migliore.
<< Stasera! >> Annunciò Mary, distraendomi dai miei meri
pensieri. << Abbiamo un appuntamento poco distante da qui!
>>
<< Abbiamo? >> La guardai accigliata e lei sorrise, annuendo.
<< Eccome! Mia sorella è qui con suo marito e il piccolo! Visto
che anche le altre andranno al club, tu mi accompagnerai da lei, non è
vero? >>
Quale rovina, quella serata. Non avrei mai immaginato che, in pochi
secondi, tutto sarebbe cambiato, nella mia vita: per una mera
coincidenza, fortuna potrei dire, o sfortuna, in base ai punti di
vista. Non avevo mancato a prepararmi riccamente, quella sera: avevo
preso il mio abito bianco, di quelli dalla gonna ampia e il corsetto
stretto, di un bellissimo nero a contrasto. Indossai un paio di alti
tacchi neri come il corsetto, acconciai perfettamente i capelli e, con
abbondante eye liner e rossetto rosso, scesi con le altre in strada.
Eravamo in dieci, la metà del grosso gruppo corista: camminavamo nei
grandi marciapiedi e ci sentivamo indistruttibili, invincibili, come le
star di quei film in bianco e nero che tanto amavamo. Ci sentivano
delle star, perché a Los Angeles non puoi non sentirti così: chiunque,
a Los Angeles, è una star. Alcune sono star decadute, e le vedi, perché
sono quelle dai grandi occhi gonfi dalle troppe lacrime scese. Alcune
sono star nascenti, perché nei loro volti leggi la speranza ed hanno
quello sguardo sempre puntato al futuro. Alcune sono star arrivate, di
quelle che ti giri per strada a fissare, quelle fotografate ad ogni
loro passo, a cui la gente aspira ad assomigliare.
E poi c’eravamo noi. Dieci stupide ragazze di provincia, che cercavano
un futuro a loro ancora sconosciuto. Con la speranza nel cuore,
camminavamo attirando lo sguardo della gente, e sentivamo in noi
l’emozione crescere. Entrammo nel grande Roxy, il pub probabilmente più
grande e famoso della città: si trovava vicino alla Baia di Santa
Monica, ed i suoi arredi assomigliavano a quelli dell’interno di una
nave, con i camerieri vestiti da marines, i banconi di legno chiaro e
le corde che pendevano dal soffitto. Grossi timoni finti poggiavano
sulle pareti, le poltrone rosse spiccavano nella luce prettamente
soffusa nei momenti come quelli, dove la musica accompagnava i balli
scatenati dei giovani: era l’odore di vita, quella che amavo della
città.
Camminammo fino al balcone, ordinammo da bere ad un bel ragazzo biondo
che ci sorrise, e poi iniziammo a guardarci in giro: alcuni giovani ad
un tavolo ci osservavano, ed alcune delle ragazze parlottavano tra loro
e poi con noi, ridacchiando.
<< È molto carino quello dai capelli rossi! >> Annunciò poi
una di loro, mentre un giovane dai riccioli color carota si era alzato,
e sembrava avvicinarcisi con estrema sicurezza: aveva grandi occhi
azzurri, una camminata ciondolante ma corretta, come quelle che
s’insegnavano nella marina. Rimasi per un attimo a fissarlo e, quando
mi sorrise, ebbi finalmente il ricordo del nome che mi stava assillando
la mente.
<< Frenk! >> Dissi infine, mentre il grosso irlandese rideva sommessamente, annuendo con la testa.
<< Per un attimo pensavo non ti ricordasti di me, Emily! >>
<< Come dimenticarti, hai passato anni in casa mia! >> Ci
scambiammo un abbraccio fraterno, ed ebbi un colpo al cuore nel notare
quanto era cambiato, dopo quei cinque anni.
Frenk Sullivan era irlandese, ma viveva a Milwaukee da quando aveva
otto anni. Suo padre, un giovane marines che aveva lavorato col mio,
era venuto in città per affari, e morì misteriosamente una notte.
Frenk, in balia del mondo, fu preso da mio padre, che ne divenne tutore
legale: ricordo ogni attimo delle nostre giornate insieme e,
soprattutto, ricordo quando, cinque anni prima, era dovuto partire per
fare il marines su una barca. “Amo la mia patria e questo è mio dovere”
diceva sempre, nelle notti in cui io piangevo sommessamente per quel
distacco.
Ed ora era un uomo. Aveva tratti marcati, la pelle chiara aveva
lasciato posto ad un rossore leggero, segno delle giornate passate in
mare. Le lentiggini gli riempivano il volto curioso e divertente. La
sua altezza era cresciuta molto, come anche il fisico. Era magnifico il
mio fratellone.
Si sedette con noi, e le ragazze non avevano che occhi per lui:
tentavano di approcciarsi in ogni maniera, dalla più estroversa alla
più timida. Lui mi guardava e rideva a quei comportamenti, mentre
passava la grossa mano tra i capelli, e beveva il suo whisky.
<< Tuo padre ha accettato di farti venire qui, finalmente?
>> Domandò dopo un po’, con pura curiosità, e il mio volto furbo
gli consigliò la risposta. << Sei fuggita?! >>
<< Oh no! >> Risposi subito a quel suo sguardo
terrorizzato, rendendolo poi confuso. << Me ne sono andata,
semplicemente. Ero partita con Rogers, ma a Frisco mi sono unita a
loro. >>
<< E come mai? >>
<< Rogers… ha dovuto riportare a casa Emma. >>
<< Capisco! Bhé, al nostro incontro! >> Disse, alzando il bicchiere, facendo un brindisi con tutte noi.
Fu in quel momento che sentimmo la musica nell’aria. Quei ritmi
incalzanti, potenti, che io e Frenk conoscevamo bene, perché mia madre
e mio padre ballavano sempre, in casa: fu per quello che sentii la sua
mano prendere la mia, stretta come una morsa d’acciaio, e portarmi in
pista, sorridendo. Il Boogie Woogie. Quella musica, quel modo di
ballare, ha segnato la mia infanzia e tutta la mia vita, in verità. Per
quanto io amassi cantare, il ballo era tutta un’altra cosa: era
qualcosa d’innato nel mio cuore, quei movimenti veloci, quella
precisione dei passi, quell’essere tutt’uno col tuo partner, mi rendeva
euforica come poche. La musica partì, ed eravamo cinque coppie a
ballare: posso ricordarlo come ora, perché solo Frenk sapeva ballare in
quel modo che, per me, era unico. Sembrava volare, sebbene il suo
fisico non fosse più quello più quello di un ragazzino, ma di un uomo:
si muoveva così bene che tutti pensavano che sapesse volare ed io
stessa, che mi ritenevo brava, faticavo a volte a seguirlo. E lui era
lì, che ti teneva la mano, ti rassicurava di ogni cosa. Ti faceva
sentire viva, fino a fondo.
Furono tre minuti di pazzia, di quella che a Los Angeles si viveva ogni
sera: la gente si era alzata ed applaudiva, incoraggiando queste cinque
giovani coppie a continuare. Fuori il vento spirava forte, segno di una
tempesta imminente, ma eravamo troppo persi in quell’attimo d’allegria
per pensarvi: finimmo fortunatamente nel momento in cui mi sentii il
fiato mancare. Frenk, con l’ultimo colpo di braccio, mi tirò a sé e,
per mia somma felicità, potei riposarmi appoggiata a lui.
<< Dio, sono morta. >> Annuncia semplicemente, provocando
le sue risate, prima di distaccarmi dal suo petto ed incontrare quegli
occhi, che mi uccisero per sempre.
Quella sera ancora non lo sapevo, ma quello sguardo l’avrei imparato a
conoscere bene, un giorno: mi avrebbe perseguitato nei miei incubi, mi
avrebbe visto in vesti che non avrei io stessa immaginato. Fu
probabilmente lo stesso per lui, perché lessi quel momento di perdita
totale, quell’attimo in cui senti che tutto intorno a te è sparito e
che ci siete solo noi: in quel secondo in cui senti il suo respiro sul
tuo viso, quel caldo e rassicurante corpo affianco al tuo, e le vostre
mani che quasi si sfiorano. È quell’attimo si mera felicità che tende a
spezzarsi in pochi secondi, quando la cruda realtà ti riporta a terra e
ti colpisce con uno di quei colpi che ti distrugge il cuore.
Lo capii subito, quando vidi Mary abbracciare la donna affianco a lui,
portandola poi verso di me, mentre quei due grandi occhi azzurri ancora
si perdevano nei miei: capii il mio errore, la mia terribile
perdizione, quando Mary mi sorrise e, segnando la coppia, me la
presentò.
<< Emily, loro sono Anita ed Andrews, mia sorella e suo marito!
>> E Mary se ne accorse. Già. Non capisco ancora ora il motivo,
ma la vidi sbiancare, in quell’attimo che guardò me e poi lui: fissava
la mia mano e quella della sorella che si stringevano e poi le nostre,
quasi timide, imbarazzate, che facevano lo stesso, con sguardi fugaci
lontani da lì.
Forse lo capì perché è facile leggere negli occhi la felicità che sparisce, e la morte che ne prende posto.
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