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Autore: AstreaArcadia    16/08/2013    1 recensioni
Sono gli anni '60 e Emily è una ragazza di ventidue anni dai capelli rossi, i grandi occhi neri e la passione per le pin up. È un giorno comune quando Rogers, il fratello di Emma, la sua migliore amica, le propone di partire per un viaggio verso la libertà. Verso Los Angeles. Ed Emily non se lo farà ripetere e correrà verso quel sogno che si chiama California. E li incontrerà lui, William, un giovane musicista e marinaio dal carattere conservatore e avverso a tutto quel mondo che Emily ha sempre cercato.
Sarà un amore tormentato, uno scontro continuo tra due ragazzi che rappresentano le due facce dell'America avente come sfondo la musica di Bob Dylan, le grandi autostrade americane, i festival e le prime droghe. La vita di due giovani che hanno vissuto un epoca che ha cambiato la storia. Per sempre.
Genere: Generale, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopoguerra
Capitoli:
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Go west
Basta un attimo per innamorarsi quindi non distraetevi.
[Fabio Fazio]


Il mio viaggio con i fratelli Rogers si interruppe presto, purtroppo: Emma, con la sua paura di vivere, pianse per quasi tutto il viaggio fino a San Francisco, dove ci sedemmo in una bettola della città e, con un bicchiere di gin tra le mani, discutemmo del da farsi. Leggevo negli occhi di Rogers la rabbia verso la sorella ma, con una lunga e seria discussione, concordammo sul fatto che egli tornasse in città e poi mi avrebbe raggiunto a Los Angeles. Sarebbero partiti la sera stessa.
Ci sedemmo fuori, sul porticato, solo io e lui. Il cielo era ancora chiaro, alcune stelle non erano coperte dai fumi dell’industrializzazione e il chiasso del centro era ancora lontano da noi: Rogers fumava e l’odore di tabacco riempiva l’aria, mentre iniziava con un discorso calmo e pacato, in cui leggevo fin troppe emozioni negative.
<< Dio, non avrei mai voluto ciò. >> Iniziò, perdendosi con lo sguardo nell’oscurità davanti a sé. << Desideravo una nostra vita a Los Angeles come mai, e tu lo sai. >>
<< Purtroppo Emma non è ancora pronta. >>
<< L’ho capito: pensavo potesse condividere i nostri ideali, ma in questo mese di viaggio fin troppe cose mi hanno messo in allerta. >> Mi prese la mano, che nella sua sembrava ancora più minuta di quella che era. << Arriverò lì prima possibile, Emily. Aspettami. >>
<< Sai che non lo farò. >> Scivolai via dalla sua stretta, e lo guardai negli occhi, con un sorriso sincero e pieno di amore. << Non sono fatta così, Ron, e tu lo sapevi. Vivrò la mia vita ogni giorno, senza perdere occasioni. >>
Per quanto la gente cercasse persone sincere, la mia forse era troppa: lessi nei suoi occhi la rassegnazione e, con un bacio ed un ultimo passaggio ad un hotel che poco distava da lì, ci salutammo. Rogers sarebbe poi arrivato a Los Angeles, ma questo verrà a tempo debito.
Fortunatamente, una mia vecchia amica di città si trovava a San Francisco. Ci trovammo all’England, un piccolo hotel ma grazioso nel centro di Frisco: la musica si alzava in cielo, inebriava le strade col suo ritmo incalzante e pieno di significato. Lei era lì: Mary aveva ventiquattro anni, capelli biondi ossigenati, grandi occhi azzurri ed una pelle di alabastro. Mi sorrideva, nel suo abito nero a pois bianchi e mi corse incontro, appena mi riconobbe. Fu un abbraccio che durò almeno un paio di minuti.
Mary era stata la mia più cara amica, a Milwaukee. Era partita circa due anni prima con una compagnia femminile di cantanti: non importava il genere, spaziavano in tutto ciò che a quel tempo andava di moda, passando dal jazz fino al rock’n’roll. Aveva avuto il coraggio di rinnegare la sua vita di giovane figlia di un importante comandante dell’aviazione per girare l’America.
Quando l’abbraccio si sciolse, lei mi sorrise, con amore come sempre. Mi baciò la guancia, sporcandola di quel rosso che io stessa portavo, e mi strinse le mani, in un moto di contentezza infinito.
<< Mio Dio Emily, era così tanto che ti volevo rivedere! >>
<< Oh Mary, non dirlo a me! Ti ho ammirato e pensato ogni giorno, e le tue cartoline mi hanno messo tale emozione nel cuore che non potevo non seguirti! >>
<< Vieni! >> Disse, mentre prendevo la mia grossa valigia su, ed entravamo nella hall dell’hotel, dove ci aspettava una giovane e distinta signora, che si chiamava Francine. L’avevo conosciuta anni addietro, quando venne ad insegnare musica nella mia scuola: era strano rivederla ora con i capelli bianchi, ma con quei grandi occhi azzurri che mi accolsero con familiarità infinita.
<< Quale piacere rivederti, Emily. >>
<< Piacere mio, mi creda. >> Dopo un breve inchino, salii nella stanza con Mary. Saremmo partiti pochi giorni dopo per la città degli angeli e, con mio sommo piacere, guardai finalmente la vita prospettarsi d’innanzi ai miei occhi.

Il viaggio fu divertente e non troppo lungo. Nella corriera che ci portava i canti di ogni genere s’intonavano, ed io ero ben felice di impararli con loro: le ragazze, bene o male, tutte giovani come me, che volevano fuggire da una realtà troppo mediocre per loro, mi avevano ben accettata ed anzi, mi chiedevano spesso consigli di trucco e vestiti, visto il mio stile.
Alloggiavamo in centro alla città. Io, dalla camera dell’albergo, ero persa a fissare quelle costruzioni bianche, le strade che brulicavano di persone: vi erano i musicisti, con le chitarre rotte sulle spalle. Vi erano i Salary Man, con le loro ventiquattro ore che correvano per strada. Vi erano le casalinghe, che portavano in grosse borse gli acquisti del giorno. Vi erano le pin up, che leggevano i giornali su cui, molto spesso, esse stesse posavano. Vi erano i bambini, che guardavano con meraviglia quel mondo che avrebbe rivoluzionato per sempre il futuro, vi erano i giovani che, con i loro canti per le strade, i loro jeans e la loro musica, stavano scrivendo inconsapevolmente la storia. Era lì, un insieme di persone che non avevano nessun collegamento tra loro che, in semplici scambi di sguardi, diventavano complici per sempre: Los Angeles era così. È un modo di essere vivere qui, con le sue grandi strade bianche, le sue spiagge cristalline e i suoi locali. Era il centro del mondo, il centro della cultura, e di essa ne brulicava ovunque, negli angoli della strada.
Mi persi per almeno venti minuti a fissare quel posto spettacolare. Intonavo una di quelle canzoni che avevo imparato nel viaggio, mi muovevo a ritmo delle onde che poco lontano da me s’infrangevano sulla banchina e immaginavo già la mia vita, in quel posto così nuovo e diverso. Mary, che era alle mie spalle, rideva sommessamente, ed accompagnava il mio canto: saltava in piedi, mi prendeva le mani e ballava con me. Poi tornava a sedere, leggeva sulle riviste i suoi articoli. Poi accendeva la radio, urlava nel sentire alcune canzoni e poi nuovamente tutto fiondava nel silenzio.
Era così, quella città. La città dei contrasti, delle speranze, di tante giovani vite che s’intrecciavano nella ricerca di un futuro migliore. Tutti, a Los Angeles, erano venuti per vivere. Ed io ne ero probabilmente l’esempio migliore.
<< Stasera! >> Annunciò Mary, distraendomi dai miei meri pensieri. << Abbiamo un appuntamento poco distante da qui! >>
<< Abbiamo? >> La guardai accigliata e lei sorrise, annuendo.
<< Eccome! Mia sorella è qui con suo marito e il piccolo! Visto che anche le altre andranno al club, tu mi accompagnerai da lei, non è vero? >>
Quale rovina, quella serata. Non avrei mai immaginato che, in pochi secondi, tutto sarebbe cambiato, nella mia vita: per una mera coincidenza, fortuna potrei dire, o sfortuna, in base ai punti di vista. Non avevo mancato a prepararmi riccamente, quella sera: avevo preso il mio abito bianco, di quelli dalla gonna ampia e il corsetto stretto, di un bellissimo nero a contrasto. Indossai un paio di alti tacchi neri come il corsetto, acconciai perfettamente i capelli e, con abbondante eye liner e rossetto rosso, scesi con le altre in strada. Eravamo in dieci, la metà del grosso gruppo corista: camminavamo nei grandi marciapiedi e ci sentivamo indistruttibili, invincibili, come le star di quei film in bianco e nero che tanto amavamo. Ci sentivano delle star, perché a Los Angeles non puoi non sentirti così: chiunque, a Los Angeles, è una star. Alcune sono star decadute, e le vedi, perché sono quelle dai grandi occhi gonfi dalle troppe lacrime scese. Alcune sono star nascenti, perché nei loro volti leggi la speranza ed hanno quello sguardo sempre puntato al futuro. Alcune sono star arrivate, di quelle che ti giri per strada a fissare, quelle fotografate ad ogni loro passo, a cui la gente aspira ad assomigliare.
E poi c’eravamo noi. Dieci stupide ragazze di provincia, che cercavano un futuro a loro ancora sconosciuto. Con la speranza nel cuore, camminavamo attirando lo sguardo della gente, e sentivamo in noi l’emozione crescere. Entrammo nel grande Roxy, il pub probabilmente più grande e famoso della città: si trovava vicino alla Baia di Santa Monica, ed i suoi arredi assomigliavano a quelli dell’interno di una nave, con i camerieri vestiti da marines, i banconi di legno chiaro e le corde che pendevano dal soffitto. Grossi timoni finti poggiavano sulle pareti, le poltrone rosse spiccavano nella luce prettamente soffusa nei momenti come quelli, dove la musica accompagnava i balli scatenati dei giovani: era l’odore di vita, quella che amavo della città.
Camminammo fino al balcone, ordinammo da bere ad un bel ragazzo biondo che ci sorrise, e poi iniziammo a guardarci in giro: alcuni giovani ad un tavolo ci osservavano, ed alcune delle ragazze parlottavano tra loro e poi con noi, ridacchiando.
<< È molto carino quello dai capelli rossi! >> Annunciò poi una di loro, mentre un giovane dai riccioli color carota si era alzato, e sembrava avvicinarcisi con estrema sicurezza: aveva grandi occhi azzurri, una camminata ciondolante ma corretta, come quelle che s’insegnavano nella marina. Rimasi per un attimo a fissarlo e, quando mi sorrise, ebbi finalmente il ricordo del nome che mi stava assillando la mente.
<< Frenk! >> Dissi infine, mentre il grosso irlandese rideva sommessamente, annuendo con la testa.
<< Per un attimo pensavo non ti ricordasti di me, Emily! >>
<< Come dimenticarti, hai passato anni in casa mia! >> Ci scambiammo un abbraccio fraterno, ed ebbi un colpo al cuore nel notare quanto era cambiato, dopo quei cinque anni.
Frenk Sullivan era irlandese, ma viveva a Milwaukee da quando aveva otto anni. Suo padre, un giovane marines che aveva lavorato col mio, era venuto in città per affari, e morì misteriosamente una notte. Frenk, in balia del mondo, fu preso da mio padre, che ne divenne tutore legale: ricordo ogni attimo delle nostre giornate insieme e, soprattutto, ricordo quando, cinque anni prima, era dovuto partire per fare il marines su una barca. “Amo la mia patria e questo è mio dovere” diceva sempre, nelle notti in cui io piangevo sommessamente per quel distacco.
Ed ora era un uomo. Aveva tratti marcati, la pelle chiara aveva lasciato posto ad un rossore leggero, segno delle giornate passate in mare. Le lentiggini gli riempivano il volto curioso e divertente. La sua altezza era cresciuta molto, come anche il fisico. Era magnifico il mio fratellone.
Si sedette con noi, e le ragazze non avevano che occhi per lui: tentavano di approcciarsi in ogni maniera, dalla più estroversa alla più timida. Lui mi guardava e rideva a quei comportamenti, mentre passava la grossa mano tra i capelli, e beveva il suo whisky.
<< Tuo padre ha accettato di farti venire qui, finalmente? >> Domandò dopo un po’, con pura curiosità, e il mio volto furbo gli consigliò la risposta. << Sei fuggita?! >>
<< Oh no! >> Risposi subito a quel suo sguardo terrorizzato, rendendolo poi confuso. << Me ne sono andata, semplicemente. Ero partita con Rogers, ma a Frisco mi sono unita a loro. >>
<< E come mai? >>
<< Rogers… ha dovuto riportare a casa Emma. >>
<< Capisco! Bhé, al nostro incontro! >> Disse, alzando il bicchiere, facendo un brindisi con tutte noi.
Fu in quel momento che sentimmo la musica nell’aria. Quei ritmi incalzanti, potenti, che io e Frenk conoscevamo bene, perché mia madre e mio padre ballavano sempre, in casa: fu per quello che sentii la sua mano prendere la mia, stretta come una morsa d’acciaio, e portarmi in pista, sorridendo. Il Boogie Woogie. Quella musica, quel modo di ballare, ha segnato la mia infanzia e tutta la mia vita, in verità. Per quanto io amassi cantare, il ballo era tutta un’altra cosa: era qualcosa d’innato nel mio cuore, quei movimenti veloci, quella precisione dei passi, quell’essere tutt’uno col tuo partner, mi rendeva euforica come poche. La musica partì, ed eravamo cinque coppie a ballare: posso ricordarlo come ora, perché solo Frenk sapeva ballare in quel modo che, per me, era unico. Sembrava volare, sebbene il suo fisico non fosse più quello più quello di un ragazzino, ma di un uomo: si muoveva così bene che tutti pensavano che sapesse volare ed io stessa, che mi ritenevo brava, faticavo a volte a seguirlo. E lui era lì, che ti teneva la mano, ti rassicurava di ogni cosa. Ti faceva sentire viva, fino a fondo.
Furono tre minuti di pazzia, di quella che a Los Angeles si viveva ogni sera: la gente si era alzata ed applaudiva, incoraggiando queste cinque giovani coppie a continuare. Fuori il vento spirava forte, segno di una tempesta imminente, ma eravamo troppo persi in quell’attimo d’allegria per pensarvi: finimmo fortunatamente nel momento in cui mi sentii il fiato mancare. Frenk, con l’ultimo colpo di braccio, mi tirò a sé e, per mia somma felicità, potei riposarmi appoggiata a lui.
<< Dio, sono morta. >> Annuncia semplicemente, provocando le sue risate, prima di distaccarmi dal suo petto ed incontrare quegli occhi, che mi uccisero per sempre.
Quella sera ancora non lo sapevo, ma quello sguardo l’avrei imparato a conoscere bene, un giorno: mi avrebbe perseguitato nei miei incubi, mi avrebbe visto in vesti che non avrei io stessa immaginato. Fu probabilmente lo stesso per lui, perché lessi quel momento di perdita totale, quell’attimo in cui senti che tutto intorno a te è sparito e che ci siete solo noi: in quel secondo in cui senti il suo respiro sul tuo viso, quel caldo e rassicurante corpo affianco al tuo, e le vostre mani che quasi si sfiorano. È quell’attimo si mera felicità che tende a spezzarsi in pochi secondi, quando la cruda realtà ti riporta a terra e ti colpisce con uno di quei colpi che ti distrugge il cuore.
Lo capii subito, quando vidi Mary abbracciare la donna affianco a lui, portandola poi verso di me, mentre quei due grandi occhi azzurri ancora si perdevano nei miei: capii il mio errore, la mia terribile perdizione, quando Mary mi sorrise e, segnando la coppia, me la presentò.
<< Emily, loro sono Anita ed Andrews, mia sorella e suo marito! >> E Mary se ne accorse. Già. Non capisco ancora ora il motivo, ma la vidi sbiancare, in quell’attimo che guardò me e poi lui: fissava la mia mano e quella della sorella che si stringevano e poi le nostre, quasi timide, imbarazzate, che facevano lo stesso, con sguardi fugaci lontani da lì.
Forse lo capì perché è facile leggere negli occhi la felicità che sparisce, e la morte che ne prende posto.

   
 
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