È
più facile mentire
«Ebbene, sei completamente
solo contro noi due».
Sotto
il tono vellutato e noncurante di C-17, era in guardia la
minaccia.
Il
cyborg studiò con voluta lentezza il ragazzino che gli
stava davanti, soffermandosi sui suoi capelli biondi e sui suoi occhi
verde acqua.
«Non
hai paura?» domandò poi, pigramente.
Gohan
spostò il proprio peso sul piede sinistro, sentendo il
cuore rimbombare nelle orecchie.
Sapeva
perfettamente di essere in netta inferiorità, e non
perché i suoi avversari erano due e lui era da solo.
«No»
rispose comunque, sforzandosi di suonare
deciso e convincente.
In
fondo, ammettere che sì, aveva paura di loro al punto da
avere la gola secca, sarebbe stato ancora più difficile.
Difficile
come guardarsi attorno e vedere le macerie che un tempo erano
una tranquilla cittadina.
«Sei
un moccioso impertinente!»
C-18
scattò senza preavviso. Il suo aspetto angelico stonava
profondamente con i suoi occhi freddi e la distruzione che li
circondava, ma Gohan non ebbe tempo dedicarvi una riflessione.
La
mano di lei agguantò violentemente il colletto della sua
tuta, per poi sbattere il ragazzino contro uno dei pochi muri ancora in
piedi.
All’impatto
col corpo del giovanissimo saiyan, la parete
sembrò frantumarsi.
A
quel colpo, i capelli biondi di Gohan tornarono neri come la pece e
l’aura dorata del super saiyan scomparve; subito dopo, il
ragazzino venne scaraventato a terra.
Il
petto gli doleva e le orecchie gli rintronavano; fu solo
all’ultimo momento che si rese conto del fatto che, dietro di
lui, il cyborg numero 17 si stava preparando a scagliargli addosso una
sfera d’energia.
Facendo
appello alle forze che gli erano rimaste, il ragazzino
riuscì a scansarsi in extremis, scattando verso destra e
nascondendosi dietro le macerie di un’abitazione
L’esplosione
fu così potente da far crollare il
muro dietro il quale si era riparato.
Gohan
si rannicchiò a terra, proteggendosi il capo con le
braccia, e lasciò che i mattoni gli cadessero addosso.
Sentiva
sulle labbra il sapore del sangue.
Mentre
serrava i denti, desiderò con tutto il cuore non
trovarsi lì, ma a casa – sui Paoz, con sua madre.
Oppure,
avrebbe voluto non essere lì da solo, ma con i suoi
compagni.
Con
suo padre.
Ma
suo padre era morto. Così come Piccolo, Yamcha, Crilin,
Vegeta e tutti gli altri.
I
guerrieri erano stati uccisi dai cyborg ed era rimasto solo lui. E
qualcuno… qualcuno doveva pur caricarsi della
responsabilità di difendere il pianeta da quei terribili
robot.
Quando
i calcinacci smisero di piovergli addosso, Gohan non si mosse,
ma attese pazientemente, il cuore che gli martellava tra le costole.
Era
snervante non poter percepire l’aura dei suoi avversari.
Gli
pareva quasi un handicap fisico: come doversi allacciare una scarpa
con una mano sola.
Il
ragazzino deglutì, sforzandosi di rimanere immobile.
Aspettò
ed aspettò ancora, e si tirò
in ginocchio soltanto quando gli parve che fosse trascorsa
un’eternità.
Era
completamente ricoperto di polvere, ma non vi badò,
alzandosi cautamente in piedi.
All’erta,
si guardò attorno… ma
fortunatamente dei cyborg non c’era più traccia.
Sentendo
la stanchezza attanagliargli le membra, Gohan
abbassò lo sguardo sulle proprie braccia ricoperte di tagli.
Cercò
di non badare al bruciore insopportabile che gli
provocavano, e si alzò lentamente in volo. Una volta che si
ritrovò sospeso in aria, fissò lo sguardo sulla
città distrutta.
Il
suo intervento non era servito a nulla.
La
nausea gli salì alla gola, costringendolo a portare gli
occhi davanti a sé.
Aveva
imparato a volare quando aveva solo cinque anni, ma di colpo
l’altezza gli sembrava insopportabile… Di colpo,
gli sembrava di soffrire di vertigini.
Chiudendo
le mani a pugno, Gohan iniziò a volare in
direzione della Città dell’Ovest.
Uno
spiazzo arido circondava la Capsule Corporation, là dove
un tempo c’era stato un giardino verdeggiante.
Quando
Gohan atterrò, i suoi piedi sollevarono due nuvolette
di polvere.
Il
ragazzino si guardò attorno con aria intristita, quasi
sofferente, cercando di non pensare a quando tutto era più
vivo. Per un istante, gli sembrò che nell’aria
aleggiasse la voce svampita della madre di Bulma che gli offriva una
fetta di torta.
Cacciando
indietro i propri ricordi, il ragazzino si diresse verso la
porta, premendo debolmente il dito sul campanello.
Gli
sembrava di avere le gambe malferme. Probabilmente, le sue
ginocchia avrebbero ceduto da un momento all’altro.
Fortunatamente,
il ragazzino non dovette attendere molto prima che la
porta venisse aperta, rivelando il volto di Bulma.
La
donna aveva un’aria provata. I suoi capelli erano raccolti
in una coda di cavallo, ma nonostante ciò alcuni ciuffi
ribelli le ricadevano sul volto. I suoi stanchi occhi azzurri si
sgranarono nel posarsi sul ragazzino.
«Gohan!»
esclamò, e nella sua voce
c’era una traccia di sgomento. «Santo Cielo! Che ti
è successo?!» E subito dopo, poiché
cos’era successo doveva averlo capito da sola:
«Come ti hanno conciato!»
Il
ragazzino annuì, cercando di non tremare per la
stanchezza. «Mi… Potresti prestarmi del
disinfettante?» domandò, quasi battendo i denti.
Non
capiva nemmeno lui se quei brividi fossero dovuti al freddo, alla
paura o alla rabbia.
Bulma
sbatté le palpebre. «Certo» si
affrettò a dire, mettendosi poi da parte per permettergli di
entrare. «Anzi» aggiunse, con inappellabile
decisione, «vieni con me, ti medico io».
Gohan
annuì nuovamente, questa volta con sollievo.
Dentro
di sé, era felice che Bulma non gli avesse domandato
perché si era presentato lì invece di andare a
casa sua, sui Paoz. Anche se una parte di lui anelava a rifugiarsi tra
le braccia di Chichi, sapeva che lei avrebbe sofferto nel vederlo
ridotto in quella maniera.
E
sua madre aveva già sofferto abbastanza.
Perciò,
obbediente, Gohan seguì Bulma dentro alla
Capsule Corporation. La donna lo guidò in cucina, dicendogli
che per il momento era l’unica stanza in cui fosse acceso il
riscaldamento.
Mentre
entravano, Gohan si guardò attorno.
La
stanza era piuttosto spoglia, ma comunque confortevole.
Trunks,
il figlio di Bulma, era seduto al tavolo, davanti ad una
scatola piena di biscotti. Il bambino li stava divorando con
l’appetito degno della sua natura saiyan, e quando si
girò verso la porta rivolse a Gohan un sorriso con la bocca
sporca di cioccolato.
«Ciao»
lo salutò, con voce infantile.
Il
figlio di Goku si sforzò di sorridere, ma non ebbe tempo
di rispondere: Bulma lo fece accomodare con decisione su uno sgabello
vicino al termosifone; dopodiché si armò di
disinfettante e di cotone idrofilo e tornò verso di lui,
iniziando a pulire i tagli del ragazzino. Un paio di volte
utilizzò una veemenza eccessiva, alla quale Gohan
reagì con qualche smorfia e con un gemito.
«Hai
la tuta a brandelli» constatò poi
la donna, non appena ebbe pulito anche l’ultimo graffio.
«Sarà meglio che io vada a vedere se ho qualcosa
da farti indossare».
Gohan
la guardò, un po’ imbarazzato dal disturbo
che le stava arrecando. «Grazie» mormorò.
Bulma,
però, agitò la mano e replicò:
«Figurati».
Quindi
si diresse velocemente verso la porta, uscendo dalla cucina.
Quando
la donna se ne fu andata, Gohan abbassò lo sguardo
sulle proprie mani e sospirò.
Lentamente,
si lasciò scivolare giù dallo
sgabello, sino a ritrovarsi seduto sul pavimento, con la schiena
appoggiata al termosifone.
Se
Piccolo fosse stato ancora vivo, avrebbe sistemato la sua tuta in un
istante. Ma se il namecciano non fosse stato ucciso, molte cose
sarebbero state diverse.
Anche
se le Sfere del Drago non sarebbero servite a nulla per suo
padre, avrebbero potuto riportare in vita gli altri combattenti.
Immerso
in quei pensieri, Gohan si rabbuiò, e il piccolo
Trunks iniziò ad agitarsi. Sua madre l’aveva
sistemato su una sedia davvero troppo alta per un bambino della sua
età, e lui prese a guardarsi intorno con fare smanioso,
finché non trovò il punto più adatto
per guadagnare il pavimento.
Arraffò
un biscotto e scese dalla sedia con una certa
goffaggine.
Quindi,
con un’andatura un po’ caracollante, si
diresse con decisione verso Gohan, il quale, trovandoselo davanti,
sussultò e si riscosse dalle proprie riflessioni.
Lui
era seduto e il bambino era in piedi, e in tal modo i loro visi
erano esattamente alla stessa altezza.
Trunks
fissava Gohan con insistenza, come se attendesse che fosse il
ragazzino a fare la prima mossa, come se si aspettasse che fosse lui a
mostrargli ciò che doveva essere fatto.
Notando
quello sguardo, Gohan sentì un groppo alla gola.
A
lui piaceva passare del tempo in compagnia di Trunks. Gli piaceva
farlo ridere e giocare.
Un
giorno, Bulma aveva osservato che il bambino doveva vedere in lui un
vero e proprio punto di riferimento.
E
a Gohan sarebbe piaciuto… Lui avrebbe voluto essere in
grado di guidare quel bambino, ma al momento si sentiva solo un
ragazzino sperduto, e non aveva idea di come fare.
La
morte di suo padre e l’arrivo dei cyborg avevano
completamente ribaltato il suo mondo.
Tanti
anni prima, Piccolo gli aveva insegnato come cavarsela da solo,
ma adesso gli pareva di dover imparare da capo come fare a vivere.
E
i suoi poteri, la responsabilità del destino del mondo che
gravava sulle sue spalle… Erano un peso, un macigno che
minacciava di schiacciarlo da un momento all’altro.
Trunks
lo studiava in silenzio con gli occhi azzurri. Non disse niente,
ma tese la mano verso Gohan, offrendogli il biscotto che aveva preso
dalla scatola.
Gohan
trasalì appena. Quasi con titubanza,
accettò quel dono, e il figlio di Vegeta parve notare la sua
incertezza, poiché si sentì in dovere di
specificare: «È buono».
A
quelle parole, Gohan annuì, stringendo il biscotto nel
pugno.
Un
attimo dopo, poi, si sporse in avanti ed abbracciò
Trunks, attirandolo verso il proprio petto. Il bambino non
capì a cosa fosse dovuto quel gesto d’affetto, ma
lo ricambiò, appoggiando la testa sulla spalla di Gohan.
Quest’ultimo
strinse i denti, sentendosi come se tutta la
stanchezza accumulata negli ultimi anni gli fosse crollata addosso di
colpo. «Come si fa a fare la cosa giusta, quando tutto
è sbagliato?» sussurrò, con forza,
quasi Trunks potesse davvero dargli una risposta.
Il
bambino non rispose, ma Gohan lo sentì muoversi appena,
irrequieto, e sciolse l’abbraccio, lasciandolo andare.
Trunks
lo guardò in faccia, quindi propose: «Ti do
un altro biscotto?»
A
quella domanda, Gohan dovette sorridere. «No,
grazie» rispose, ma improvvisamente si sentì
meglio. «Mangio questo» aggiunse, addentando quello
che il bambino gli aveva già dato.
In
un certo senso, il piccolo gli aveva dato la soluzione. Era
così che si faceva la cosa giusta: continuando a offrire il
proprio aiuto agli altri, senza arrendersi, senza desistere nemmeno se
loro sembravano non volerlo.
Trunks
sorrise a propria volta, mostrando i dentini da latte. Poi,
però, un’espressione seria si dipinse sul suo
visetto tondo, e il bambino domandò: «È
brutto, il mondo?»
Gohan
deglutì, inghiottendo il boccone. I suoi occhi neri
evitarono quelli limpidi di Trunks, e il ragazzino rispose in tono
piatto: «No. Non è affatto brutto».
Certe
volte, mentire era più facile.
Spazio dell’Autrice:
Oggi è il quinto anniversario della mia iscrizione su EFP :D
Così, anche se in questi giorni ho un mucchio da fare
(AIUTO), volevo pubblicare qualcosa… ed ho riesumato questa
storia dalla mia cartella.
Spero vi sia piaciuta!
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