Dovete
sapere che nella giovinezza patii una rara malattia per cui due volte
all’anno, una settimana ognuna, la mia forza calava così tanto che
potevo soltanto muovermi in una piccola stanza per poco tempo, e se
esageravo rischiavo di svenire.
In
quelle due settimane venivo inviata dalla mia villa all’ospedale
della Corona, il migliore mai costruito, e lì venivo controllata dai
dottori più bravi grazie alla rendita di mio padre.
Fatto
sta che, sei anni fa, come penso voi ricordiate, giunse la grande
epidemia: un’ondata di malattia che non compariva con così forza
da almeno tre secoli. Ovviamente i miei genitori spinsero affinchè
per me ci fosse il miglior trattamento ma quando arrivai all’ospedale
preferii, a loro insaputa, trasferirmi in una stanza comune,
lasciando la più lussuosa a chi ne aveva davvero bisogno. Fu così
che mi stabilii nella camera 208. Vi parrà strano, ma la prima cosa
che notai fu che la stanza di fronte alla mia non era, come di
consuetudine, la 209, ma era targata 213, come se avessero sbagliato
a sistemare le stanze nel corridoio e le porte dalla mia parte
fossero in ritardo, o quelle dall’altra in anticipo.
Mi
avevano avvisato che la mia nuova dimora era una stanza comune sia ai
maschi che alle femmine e che garantivano la massima discrezione; per
questo non ero preoccupata ma rimasi lo stesso sorpresa vedendo,
entrando, il mio nuovo compagno di stanza.
Era
un giovane di venticinque anni pallido come un cadavere, aspetto
accentuato dai capelli neri e dalle occhiaie dello stesso tono di
colore, e aveva occhi di carbone che sembravano essere stati decisi,
un tempo, ma che in quel momento erano solamente vuoti. Notai in un
secondo tempo che le sue mani e i suoi piedi erano legati al letto,
ma mi sembrò un fattore non importante quanto la vacuità di quello
sguardo. Non riuscii a staccare gli occhi da lui mentre degli
infermieri portavano i miei bagagli nella stanza, azione che avrei
fatto volentieri io se ne avessi avuto le forze.
Mi
stabilii sul letto con una leggera camicia da notte e mi venne detto
che il medico sarebbe arrivato solo dopo mezz’ora per causa
dell’avvento di altri malati: io risposi che avrei aspettato di
più, se qualcun altro avesse avuto bisogno del dottore. Così,
quando rimasi nella stanza sola col mio silenzioso compagno, iniziai
a guardarmi intorno: notai che il letto alla mia sinistra, quello
vicino alla finestra, era lindo come se fosse vuoto da tempo, ma
accanto era posato un quaderno medico; così conclusi che forse
sarebbe arrivato un nuovo compagno e mi prefissi di chiederlo al
dottore per pura curiosità. Vidi che la luce del sole filtrava
piacevolmente dalla finestra, che le nuvole si stavano addensando nel
cielo e che gli armadi della stanza erano quasi vuoti.
Mi
volsi verso il mio compagno e iniziai a studiare anche lui. Il suo
sguardo era ancora perso, ma non più vuoto: sembrava immerso in
pensieri reconditi e immensi, come se cercasse di vedere qualcosa ma
non potesse perché era troppo lontano.
Improvvisamente
voltò la testa verso di me. Non sembrava sorpreso dal fatto che lo
stessi guardando, pareva essersene accorto sin da subito.
Mi
osservò per qualche istante e io per rompere il silenzio decisi di
presentarmi, ma lui mi anticipò.
-Se
una persona ti aspettasse, tu andresti da lei?-
Io
lo guardai sorpresa, non pronta a sentire posta una domanda. Capendo
che il giovane era serio, riflettei per qualche secondo e risposi:
-Sì,
certo, se lei mi attende con tutto il cuore.-
-Anche
se fosse nel luogo più lontano dell’universo?- domandò ancora il
giovane. Io lo guardai, riflettendo ancora:
-Ovviamente.-
Comparve
una smorfia disperata sul volto del giovane, e mi spaventai vedendo
ciò che lo dominava: tristezza, incurabile tristezza.
-Anche
gli altri hanno risposto così, sai? Allora perché non mi lasciano
andare da Isabelle? Lei è lontana, ma la posso raggiungere
velocemente. Perché non me lo permettono?-
Distolse
lo sguardo dal mio volto e si perse con gli occhi nell’azzurro del
cielo, con la mente oltre, verso le nuvole, verso Isabelle. Vedete,
io sono sempre stata empatica verso ogni forma di sofferenza; penso
sia stato per questo che capii subito cosa aveva distrutto il
giovane. Isabelle era lontana e lui voleva raggiungerla, ma tutti
glielo impedivano. È così ovvio, non credete?
-Ho
tentato di ammazzarmi due volte.- annunciò con tono neutro e non
spostando gli occhi dal cielo e dalle nuvole –Dopo la seconda mi
hanno legato. Ho provato un’altra volta, ma ho fallito.-
-L’ho
notato.- replicai. Non riuscivo a non sentirmi affascinata da quel
giovane che amava ancora così tanto una donna da volerla raggiungere
anche nel posto dove si pensava fosse impossibile arrivare. Aveva una
disperazione strana negli occhi, una disperazione folle, è vero, ma
quella era la conseguenza della sua prigionia. No, non era folle. Era
solo frustato perché non poteva tornare da Isabelle.
In
quel momento sentii delle voci di alcune persone che si avvicinavano
alla nostra stanza. Il giovane spostò gli occhi su di me, poi disse:
-Comunque,
io sono Thomas. Thomas Drimles.-
-Elizabeth
Albergail.- risposi. Ero abituata a ricevere sguardi sorpresi,
impauriti o adoranti quando le persone sentivano il mio nome, ma non
fui stupita quando lui replicò soltanto:
-È
stato piacevole parlare con te, grazie di avermi ascoltato. Molti non
lo fanno.-
-Grazie
a te di avermi parlato.- dissi con un sorriso. Mi piaceva, sentivo
che sarebbe stato un buon compagno.
Entrò
nella stanza il dottore, un uomo di quarant’anni con lo sguardo
deciso e le spalle larghe come se dovesse sostenere un’enorme
responsabilità. Capii che era un brav’uomo solo vedendo come
camminava, con un passo stanco ma allo stesso tempo sicuro, come se
fosse stremato dal suo compito ma volesse comunque continuare a
farlo, come un vero eroe.
-Buongiorno,
signorina Albergail.- mi salutò appena mi vide. Notai un guizzo
divertito nei suoi occhi mentre diceva con tono stanco:
-Mi
perdoni se non le reco i giusti convenevoli, ma sono alquanto
stremato.-
-Dottore,
mi offenderei se occupasse il tempo a recarmi i giusti convenevoli
non curando le persone.- replicai con un sorriso. Odiavo –e odio
tuttora- essere di peso alla gente, quindi cercai di mettere subito
in chiaro che non doveva perdere tempo con me. Il dottore sorrise,
l’ironia scomparsa dal suo sguardo:
-Grazie,
signorina. Io sono Samuel Smith, suo dottore. Cercherò di occuparmi
di lei durante il suo soggiorno, anche se c’è l’epidemia.-
-Si
preoccupi per prima cosa dei veri malati, Dottor Smith.- dissi io
sorridendo tranquilla –Io sto bene, mi basta non alzarmi troppe
volte.-
Il
dottore mi fece un leggero inchino con la testa:
-La
ringrazio ancora, signorina. Ora,- fece lui volgendosi verso Thomas –
temo che dovrò occuparmi di lei, signor Drimles. Come si sente?-
-Vivo.-
rispose l’interpellato con un tono che dimostrava il suo desiderio
di essere tutt’altro che vivo. Il dottore sorrise con calma, come
se fosse abituato al palese astio del giovane:
-Dio
ci perdoni per questo, signore mio. Allora le corde funzionano bene?
Ottimo.-
-Per
lei.- mormorò Thomas con tono sofferente. Il dottore si volse verso
di me e mi disse volendomi rassicurare:
-Non
la disturberà, non è malvagio, odia solo i dottori.-
-Mi
tenete prigioniero.- osservò Thomas. Il dottore gli lanciò
un’occhiataccia quasi paterna:
-È
per il suo bene, non lo dimentichi.-
Il
dottor Smith si diresse verso la porta e disse per salutarci:
-Passerò
domani mattina a chiaccherare ancora con voi.-
Quando
lui se ne fu andato io osservai il mio compagno di stanza, pensosa.
Lui se ne accorse e mi chiese:
-C’è
qualcosa che ti turba?-
-Perché
li odi?- chiesi non riuscendo a capacitarmi del suo sentimento –Loro
tentano di aiutarti.-
-C’è
un solo modo per aiutarmi.- replicò subito lui. Io scossi la testa:
-Ma
loro pensano che questo sia il modo migliore. Non dovresti provare
così tanto astio per loro, non vogliono il tuo male, anzi.-
Thomas
fece spallucce:
-Se
non riescono a capire che questa non è la cura giusta per me, allora
non sono degni dottori capaci di curare davvero le persone.-
Non
seppi cosa ribattere.
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