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Il detective di polizia Sean Neeson sentì
squillare il proprio telefono nel preciso istante in cui era sul punto di
consumare il pranzo che si era portato da casa.
Per un poliziotto di quartiere assegnato alla
stazione principale del nono distretto, la più orrenda e malfamata fogna a
cielo aperto della città, la vita poteva essere già un inferno, e a casa la
situazione non era certo migliore.
Alle soglie della cinquantina il detective era da
poco uscito da una lunga causa di divorzio che gli era costata l’affidamento
dei figli, e anche se in quel particolare momento il lavoro era tutta la sua
vita quando anche quell’unico, piccolo piacere che era il cibo gli veniva a
mancare era segno che la giornata aveva davvero preso la piega sbagliata.
Sbuffando aprì la finestra di comunicazione, e come
vide comparire il volto di Vick la sua pelle nera si
fece per un attimo bianca come il latte.
«Owen!?» disse incredulo «Come hai avuto questo
numero?»
«Sean, tu devi aiutarmi.» rispose lui senza togliere
gli occhi dalla strada o le mani dal volante
«Che vuoi stavolta? Sei finito di nuovo nei guai?»
«Ho per le mani qualcosa di grosso, Sean. Di molto
grosso. E ho bisogno che tu mi aiuti.»
«Ah sì?» rispose sardonico Sean «Come quella volta
che hai piazzato quel ciarpame alla polizia criminale spacciandole per prove di
un caso irrisolto?»
«Sean, tu non capisci! Avevo appuntamento col
procuratore militare, e invece mi hanno mandato un sicario! Ho un assassino
alle costole, chiaro?».
Di fronte alla veemenza rabbiosa del giovane
truffatore il poliziotto cominciò a convincerci che stesse dicendo la verità.
«In che cosa ti sei cacciato?»
«Te l’ho detto, qualcosa di grosso. Di molto grosso.
Abbastanza da spingere chi rischio di mandare all’aria a togliermi di mezzo,
non importa come. Tu devi aiutarmi!
Vediamoci al museo della scienza e ti spiegherò
tutto».
Sean ci pensò un momento, e guardatosi attorno per
esser certo di non avere addosso occhi indiscreti si avvicinò ancora di più
allo schermo abbassando ulteriormente la voce.
«Senti, ora sono in servizio. Ti raggiungo appena
riesco a liberarmi.»
«Sean, io rischio di restarci secco, lo capisci?»
sbraitò Vick sempre più spaventato
«Un’ora, Vick. Un’ora al
massimo e sono da te».
Una chiamata del commissario per una riunione
interruppe in quella la conversazione.
«Ora devo andare Vick.
Ricorda, tra un’ora al museo.»
«D’accordo.» rispose rassegnato il giovane «Tra
un’ora».
Il museo della storia e della scienza in centro a Kyrador
poteva pure essere un tempio della meraviglia e delle infinite potenzialità del
genio dell’essere umano, ma per chi come Jason era costretto a lavorarci era
solo una enorme, immensa costruzione che ogni giorno doveva essere tirata a
lucido da cima a fondo.
Jason era solo uno dei tanti giovani arrivati dalla
campagna in cerca di fortuna nella città più avanti del mondo. Gli avevano
sempre detto che Kyrador era la terra delle
opportunità, dove servivano solo caparbietà e determinazione, il luogo dove
chiunque poteva emergere e diventare qualcuno, e lui dal canto suo aveva un
chiodo fisso: il chandra.
Oltre al fatto che, come molti giovani della sua
generazione, era sempre stato affascinato dallo sport più popolare di tutti,
quello che bramava davvero erano i soldi, la fama, il prestigio che ricopriva
letteralmente tutti i grandi campioni, a cominciare dalla indiscussa stella del
momento, la bella e letale Octavia.
E poi le ragazze. I chandristi
maschi erano una macchina attira prede come poche altre. Non che Jason avesse
problemi sotto questo aspetto, con quegli occhi azzurri e quel visetto gentile
che gli avevano fruttato conquiste a palate, ma un po’ di sana abbondanza era
sempre gradita.
Le speranze e l’ottimismo erano a mille il giorno in
cui aveva messo piede in città, invece dopo due anni tutto quello che era
riuscito ad ottenere era un precariato part-time da pochi spiccioli come
tuttofare al museo, e questo solo grazie all’intercessione del suo compagno di
stanza che gli aveva trovato quell’impiego, altrimenti sarebbe stato
disoccupato.
Accettare la realtà era stata dura, ed il pensiero
di poter un giorno dimostrare le proprie potenzialità realizzandosi come
sognava era l’unica cosa che gli aveva permesso di andare avanti, ingoiando
quella situazione per lui umiliante. Eppure, dopo tutto quel tempo, qualcosa in
lui sembrava essersi spento, quasi come se la solita routine quotidiana fatta
di pavimenti da lucidare, pattumiere da svuotare e bagni da pulire avesse
iniziato a prendere il sopravvento, spegnendo poco per volta il suo ardore
giovanile e tramutandolo in rassegnata e quotidiana monotonia.
I giorni passavano, e così i mesi, e l’occasione non
gli si era ancora presentata, al punto che, passato il momento iniziale, aveva
quasi smesso di affannarsi a cercarla, lasciando scorrere placidamente le
giornate divise tra il lavoro, qualche storia passeggera e tante serate spese
con gli amici e i colleghi a sbronzarsi in qualche bar.
A conti fatti, quella per lui era solo una giornata
come le altre.
Una giornata in cui niente sarebbe successo, e tutto
sarebbe rimasto come prima.
Mettendo piede per la prima volta nel museo della storia e della
scienza, Ally capì come mai Meracle
ne avesse sempre parlato con tanto entusiasmo.
Varcato il monumentale ingresso a forma di tunnel,
realizzato sì da rassomigliare ad una sorta di galleria del tempo, la bambina e
tutti i suoi compagni si ritrovarono immersi in un mondo tra realtà e fantasia.
Non soltanto il frutto di quattro secoli di storia
di Celestis, ma anche antiche testimonianze del
passato e della lunga epopea dell’Uomo sul suo pianeta natale erano ospitate
nelle innumerevoli sale che riempivano i cinque piani dell’edificio.
L’atrio principale aveva la forma di un tronco di
piramide rovesciato, ed il lato che guardava all’esterno era interamente
ricoperto di vetro, che unito all’assenza di edifici particolarmente alti nelle
immediate vicinanze grazie all’ampio cortile permetteva al sole di inondarlo di
luce.
Ad altezze regolari e sempre più protese verso
l’esterno, quasi a formare una imponente scala rovesciata, si stagliavano i
terrazzamenti dei piani superiori, e ovunque era un trionfo del verde grazie
alle innumerevoli aiuole, siepi e persino dei piccoli giardini pensili
ridondanti di piante e fiori.
Completava il tutto uno dei pezzi più famosi del
museo, raffigurato anche nei suoi volantini e depliant turistici, la parte
terminale del muso della nave coloniale Aurora, posizionato in verticale al
centro dell’atrio con accanto una targa commemorativa recante la frase che si
diceva fosse stata pronunciata dal suo comandante nel momento in cui mise piede
a Celestis.
In questo luogo e in
questo giorno
Inizia il secondo
capitolo della storia dell’Umanità
Ally e gli altri furono rapidamente travolti
dalla meraviglia, e al termine del lungo giro in compagnia dei maestri si
dispersero a piccoli gruppi per tutti gli angoli di quella specie di castello
delle favole, ansiosi di rivedere la cosa che li aveva maggiormente colpiti.
Dal canto suo Ally sapeva
esattamente cosa voleva rivedere, e assieme a Meracle
si diresse verso i sotterranei, dove, all’interno di una sala grande in sé come
un intero piano dell’edificio sovrastante, faceva superba mostra di sé in tutta
la sua imponenza una autentica ricostruzione dell’Aurora in scala uno a due.
Cinquecento metri di incalcolabile sapere
scientifico, realizzato combinando le più moderne, per quei tempi, conoscenze
in campo aerospaziale con la più grande quantità di sapere magico mai messa
insieme, al fine di realizzare la prima nave interstellare nella storia
dell’umanità, capace di percorrere i sessanta anni luce che separavano la Terra
da Celestis in soli cento anni.
A prima vista la sua linea appariva slanciata e
solenne, con quella forma a punta di freccia, le quattro potenti turbine, i
pennoni, ora ripiegati lungo la fusoliera, che ospitavano le vele solari, il
gigantesco anello stabilizzatore per la simulazione della gravità, e infine,
ben impressa su entrambe le fiancate, la raffigurazione del globo terrestre,
magnifico, con segnato ben in evidenza il punto da cui la nave era partita, nel
cuore della steppa russa, il tutto sovrapposto dalle lettere UN, a testimoniare
il carattere internazionale della missione, votata anzitutto al progresso e
all’avvenire dell’umanità.
Unica nota stonata, almeno secondo il personale
parere di Ally, quel muso squadrato e leggermente
sgraziato, che a suo dire toglieva armonia al tutto, oltre a quella colorazione
così scura, ma, stando ai cartelli informativi, indispensabile per consentire
alla nave di assorbire dalle stelle quanta più energia, indispensabile per
consentire il lungo viaggio altrimenti impossibile.
Ally, Meracle
e non solo loro si erano sentite crollare il mondo addosso quando, passando da
lì durante il giro, avevano trovato l’interno della nave chiuso al pubblico per
dei lavori di manutenzione, e la delusione divenne se possibile ancora più
grande quando, ritornate nella speranza di avere maggior fortuna, trovarono
invece la situazione ancora invariata.
«Io non mi arrendo.» esclamò Meracle,
che con passo deciso si avviò verso l’addetto che stava pulendo la scaletta
d’ingresso alla nave, un ragazzo sui venticinque anni dall’aria tutto sommato
amichevole, e per questo disposto a fare un favore a due bambine delle
elementari.
Sulla targhetta dell’uniforme aveva scritto il suo
nome, Jason.
«Mi scusi.» disse Meracle
sfoggiando tutta l’innocenza e l’amorosità infantile di cui era capace «Non è
che potremmo visitare l’interno della nave?»
«Non si può, mi dispiace.» rispose gentilmente ma
fermamente Jason
«La prego. Io e la mia amica ci tenevamo così tanto.
Non staremo dentro molto, glielo prometto».
Jason parve esitare, indeciso sul da farsi, e dopo
qualche attimo si guardò furtivamente attorno per accertarsi che non vi fosse
in giro nessuno dei suoi colleghi.
«D’accordo.» mugugnò «Ma solo per dieci minuti.»
«La ringrazio, signore. Lei è stato molto gentile».
Ally per la verità si
vergognava come una ladra al pensiero di dover fare una cosa del genere, ma
come Jason aprì il portello chiuso a chiave permettendo loro di entrare lo
stupore e la meraviglia si sostituirono a tutto il resto, tacitando sul nascere
la voce della coscienza.
L’interno era incredibile ed entusiasmante almeno
quanto l’esterno, con tutti quei corridoi scintillanti di bianco, quelle luci
incastonate direttamente nelle pareti, e quell’incalcolabile numero di capsule
lunghe e strette all’interno delle quali avevano viaggiato i loro antenati nei
cento lunghi anni che avevano impiegato a raggiungere Celestis.
Ce n’era una ogni cinque o sei metri, ogni singola
stanza ne era piena, e se davvero quella ricostruzione era così accurata come
si diceva dovevano essere almeno mezzo milione, per la maggior parte
concentrate nella grande stiva all’ultimo livello della nave, quella però al
momento assolutamente off-limits per via dei lavori che avevano richiesto la
chiusura.
Le capsule sembravano delle enormi bottiglie,
cilindriche e per buona parte in vetro, e alcune erano aperte, sì da mostrare
il complesso sistema di meccanismi e apparecchiature necessarie al
sostentamento di chi vi aveva dimorato nell’interminabile viaggio tra le
stelle.
Secondo quanto riportavano le guide la maggior parte
dei coloni erano rimasti lì dentro per tutta la durata del volo. Solo
l’equipaggio della nave era stato periodicamente risvegliato, una volta ogni
cinque anni, giusto il tempo necessario per ricontrollare la nave e assicurarsi
che fosse tutto in ordine prima di tornare a dormire.
«I nostri antenati sono rimasti davvero cento anni
chiusi qui dentro?» chiese Ally fermandosi assieme
all’amica accanto ad una delle capsule aperte
«Beh, stavano dormendo. Per la precisione erano in
animazione sospesa. Il loro corpo è invecchiato molto lentamente, tanto che in
cento anni di viaggio loro, nel momento in cui sono usciti, ne avevano perso
solamente uno».
Ally non riuscì a
resistere alla tentazione e vi si infilò dentro.
«È piuttosto stretto.» commentò guardandosi attorno
«Non avevano bisogno di spazio, dopotutto. E poi
erano oltre un milione. Non sarà stato facile far entrare tutte queste persone
in una nave infondo così piccola, non sei d’accordo?».
Dall’interno si poteva comprendere meglio la
struttura di una di quelle capsule. C’erano cinghie per sorreggere il corpo,
respiratori, cannule per la somministrazione di sostanze nutritive e una
infinità di apparecchi per mantenere il corpo in vita e assicurarne la salute.
«Quasi non riesco a credere che avessero tutte
queste conoscenze scientifiche quattrocento anni fa.»
«È incredibile, non è vero?» disse Meracle «Chissà, forse quando saremo grandi faremo anche
noi un viaggio così, chiuse dentro una di queste capsule.
Io ho sempre sognato di potere un giorno vedere la
Terra.»
«Ma la signorina Maifang
dice che nonostante siano passati quattro secoli con le nostre attuali
conoscenze ci vorrebbero ancora quasi cento anni per fare ritorno sulla Terra.
Questo vorrebbe dire che al tuo ritorno su Celestis sarebbero trascorsi duecento anni. Non troveresti
niente di quello che hai lasciato.»
«Sì, forse hai ragione.» rispose l’amica soppesando
questa eventualità «Ma sarebbe comunque una bellissima esperienza, non trovi?».
Inavvertitamente, in quel momento, Meracle toccò il pulsante che azionava il portello della
capsula, e da un istante all’altro Ally si ritrovò
chiusa dentro.
«Ally!»
«Meracle, che cosa hai
fatto?» disse spaventata Ally colpendo la superficie
vitrea «Fammi uscire!»
«Ci sto provando!».
Purtroppo i due comandi che permettevano alla
capsula di riaprirsi sia dall’interno che dall’esterno erano in alto, troppo in
alto per due bambine delle elementari, ed il portello era troppo duro perché
fosse possibile aprirlo manualmente.
«Aspettami qui, vado a cercare quel signore delle
pulizie. Torno subito».
Ally quindi rimase sola, e
per quanto i suoi genitori le avessero insegnato a controllare la paura
quell’ambiente così stretto ed angusto la metteva incredibilmente a disagio.
Per non farsi prendere dal panico la bambina cercò
di pensare ad altro, guardandosi attorno nel tentativo di dare un senso agli
innumerevoli circuiti, spinotti e apparecchiature che affollavano quella specie
di congelatore capace, a quanto si diceva, di conservare un corpo a decine di
gradi sotto zero, fino a che, aguzzando bene la vista, le parve di scorgere
qualcosa, qualcosa di insolito, appoggiato sul pavimento della capsula e
seminascosto dalla copertura del pavimento sotto la quale era quasi interamente
nascosto.
A prima vista sembrava una scaglia, un pezzo di
rivestimento staccatosi a causa del tempo e dell’incuria, ma quando lo prese
fuori si accorse che invece si trattava di un qualche accessorio per computer.
Una scheda di memoria probabilmente, di quelle che
si potevano infilare in ogni apparecchio informatico.
Incuriosita provò ad infilarla nel comunicatore, ma
tutto quello che apparve nello schermo fu una lunga lista di nomi, date e altre
informazioni per lei senza senso.
«Lo avrà perso qualcuno?» si domandò.
Qualche minuto dopo Meracle
tornò accompagnata da Jason, che azionata l’apertura della capsula poté
finalmente liberare la bambina.
«Ve l’avevo detto che poteva essere pericoloso.» le
rimproverò il giovane dopo averle condotte all’esterno «Avanti ora, tornate dai
vostri compagni.»
«Ci scusi ancora.» disse educatamente Ally, poi entrambe tornarono verso l’atrio dove il resto si
era nel frattempo ricomposta nei pressi del negozio di souvenir.
Giusto il tempo di comprare dei regalini per i
propri genitori, e nello stesso momento in cui Ally e
Meracle uscivano dal museo per la medesima porta
girevole vi giunse invece il detective Neeson, che
guardatosi un momento intorno scorse infine Vick
piegato in due su di una panchina dell’atrio, un po’ defilata rispetto al
centro.
Era pallido come la morte, e dalla sua espressione
Sean intuì che vi fossero molte altre cose a turbarlo, oltre al sicario al
quale era appena sfuggito. Gli andò incontro, sedendosi accanto a lui.
«Sono venuto appena possibile. Allora, che è
successo?»
«Sono morto.» mugugnò Vick
come se non lo avesse sentito
«Che cosa?»
«Io lo sapevo. Lo sapevo che non dovevo farmi
coinvolgere in tutta questa storia.»
«In che razza di casini ti sei cacciato, si può
sapere?».
Vick restò a lungo in
silenzio, poi si decise a parlare.
«Se ci pensi è ironico. Un truffatore incallito, uno
che si è fatto tre anni di galera, chiede aiuto allo stesso sbirro che l’ha
fatto finire dietro le sbarre.»
«Sì certo, è tutto molto ironico.» tagliò corto Neeson «Ora però fuori il fiato.»
A quel punto Vick raccontò
ogni cosa. Disse che qualche tempo prima un impiegato che lavorava negli uffici
della polizia di stato aveva trovato le prove di molti casi di corruzione e
malaffare tra i vari distretti della città, soprattutto in quelli più poveri e
degradati, inclusi i nomi delle mele marce e i numeri dei conti dove erano stati
depositati i soldi sporchi.
Poi, si accorse dell’espressione del detective, e
rise sotto i denti.
«È esattamente lo stesso modo in cui l’ho guardato
io quando me ne ha parlato.
Ma quando mi ha fatto vedere parte del materiale che
aveva raccolto, la mia espressione è cambiata dal giorno alla notte.»
«Cioè… tu lo hai visto?
Hai visto quel materiale? Nel senso, hai visto cosa conteneva?»
«Non tutto. Solo una parte. Per riuscire ad
esaminarlo tutto ci vorrebbero mesi. Ma credimi, quel poco che ho visto mi ha sconvolto.
Ce n’è abbastanza per scoperchiare il vaso di pandora.»
«Che vuoi dire?»
«C’è tanta gente in quella lista. Gente che conta.
Dai vigilanti di quartiere ai prefetti di polizia. Persino tuoi colleghi a
quanto ho avuto modo di vedere.»
«Che intendi con miei colleghi!?» esclamò sorpreso
il detective
«Gente del tuo distretto. Persone che chiami
abitualmente amici, e che si sono intascati un sacco di soldi sporchi proprio
sotto il tuo naso».
Sean deglutì, mentre il sudore gli rigava le tempie
scure.
«Non posso crederci. Non riesco a concepirlo. I miei
amici.» quindi guardò nuovamente Vick «Ma ne sei
sicuro? Non è che quel tipo ha cercato di tirarti un bidone passandoti delle
false informazioni?»
«Se solo tu lo avessi visto, Sean. Io l’ho guardato
negl’occhi, e ci ho visto una maledetta paura. Mi sono svenato per venire
incontro alle sue richieste, e subito dopo aver preso i soldi quel tipo è
sparito».
Il detective guardò il pavimento, trovando a stento
la forza di deglutire.
«E queste prove… le hai
qui con te?»
«È questo il problema, Sean. Sono sparite.»
«Che cosa!?»
«Non ho scelto a caso questo posto per incontrarci.
Non mi sentivo al sicuro nel tenerle in casa, così le avevo nascoste qui.
Contavo di dirlo al procuratore quando ci fossimo incontrati. Il fatto è che
sono appena andato dove le avevo lasciate, e non ci sono più.»
«Come sarebbe a dire non ci sono più?» replicò un
po’ arrabbiato Sean «E poi, che razza di idea venire a nasconderlo proprio qui.
Non ti hanno mai detto che per questo museo passa ogni giorno un fiume di
gente?»
«Avevo scelto il nascondiglio molto bene.»
«Evidentemente non troppo.
Vuoi sapere cosa penso? Se la storia che mi hai
raccontato è vera, e ti avviso che ho ancora qualche dubbio in merito, le
persone che rischiavi di distruggere hanno trovato i documenti, li hanno
distrutti, e ora vogliono mettere a tacere te.»
«Forse.» rispose Vick
senza guardarlo «Ma non sanno che io ho un asso nella manica.»
«Un asso? Che asso?»
«Dovresti conoscermi. Lo sai che ho sempre un piano
di riserva. Ho fatto una copia di quei documenti e ho nascosto anche quelli in
un altro luogo.»
«E dove?»
«Non lontano da qui. Se mi sbrigo dovrei poterli
andare a prendere, e poi vorrei che li portassi al procuratore. Io non mi fido
più ad agire personalmente.»
«Non credo che sarebbe una buona idea.»
«Per quale motivo?»
«Pensaci bene. Chi ti dice che anche il procuratore
non sia coinvolto? Avevi appuntamento con lui, e invece ti ha mandato un
assassino. Forse c’era anche il suo nome su quella lista, o è collegato a
qualcuno di loro, e così ha voluto tutelarsi.»
«Però è strano. Perché esporsi tanto? Poteva
benissimo comprare le mie informazioni e poi distruggerle. A che pro cercare di
eliminarmi?»
«Morto te, muore lo scandalo. Mi sembra ovvio. Non
importa che tu sappia o meno il contenuto di quei documenti, il solo fatto di
volerli smerciare ti rende pericoloso. Non vogliono correre rischi.»
«E allora cosa dovrei fare?».
Sean ci pensò qualche momento.
«Hai detto che lo scandalo coinvolge solo Kyrador. Conosco delle persone. Persone fidate,
appartenenti ad altre prefetture. Gente al di sopra di ogni sospetto e
assolutamente incorruttibile. Potresti darle a loro.»
«Bada però, che non faccio sconti. Ora come ora quel
materiale è tutto quello che ho. Sono rimasto senza niente per ottenerlo, e
voglio ricavarci quanto basta per sistemarmi a vita.»
«Non sono un contabile, e il mio portafogli non è
abbastanza grande.» lo ammonì il detective «Ma queste persone sono gente
potente. Sono sicuro che ti pagheranno bene. Soprattutto perché la rovina
d’altri sarebbe la loro fortuna».
L’orologio tridimensionale che sovrastava ogni cosa
batté l’una del pomeriggio.
«Ora devo tornare in centrale.»
«Aspetta, e i documenti?»
«Non posso restare lontano per troppo tempo, e ci
vuole parecchio a ritornare. Tu recupera il materiale, io intanto farò qualche
telefonata.»
«D’accordo, dove ci incontriamo?»
«Molo sei.» disse il detective dopo una breve
riflessione «All’una di notte. Davanti alla statua dell’esploratore.»
«Un luogo simbolico.» sorrise Vick
«Per tutti e due.»
«Vedi di non fare tardi. E guardati le spalle».