PREMESSA:
sono in vena di esperimenti, perciò eccomi qui, a confrontarmi con il mostro
sacro della mia infanzia, l’anime che più di qualsiasi altro mi ha appassionata
e che ancora mi emoziona moltissimo. E questi due personaggi hanno sempre avuto
un sapore eterno che ho amato visceralmente.
CENTOMILA FIORI
Hyoga del Cigno
ammirava l’orizzonte monocromo con gli occhi di chi vede sempre la stessa,
meravigliosa fotografia di tutta una vita. La sua terra, sua per forza e per
vocazione, sempre uguale a se stessa, sempre immobile e brillante, gli
restituiva miriadi di immagini riflesse, moltiplicando il suo sguardo e i
bagliori del sole fra i suoi capelli fra le mille facce di diamante dei suoi
ghiacci senza tempo.
C’era un bel sole
terso e chiarissimo nel cielo, e un vento sostenuto, né troppo intenso e né
debole, che spazzava le dune di neve e le onde del mare con la sua eleganza
algida. Hyoga accarezzò lo stelo del fiore che aveva colto solo pochi minuti
prima, lo stesso, semplice, sacro fiore di sempre.
Era da lì che si
tuffava, da quella riva ghiacciata e anonima. La nave che faceva da scrigno al
bellissimo corpo di sua madre si trovava esattamente sotto di lui, a portata
delle sue braccia, e a lui non restava che concentrarsi un momento, raccogliere
tutta l’energia che aveva, e riempire il petto dell’aria ghiacciata di quella
terra bianca, e poi avrebbe potuto rivederla, salutarla, farle compagnia nel
suo silenzio acquatico e pacifico, una volta ancora, una volta di più.
Espirò
completamente, e chiuse gli occhi.
- Hyoga. –
Hyoga si voltò di
scatto, trasalendo per lo spavento. Non era da lui non accorgersi che qualcuno
si avvicinava, anche in un frangente simile. Sentì un cosmo familiare urtarlo
delicatamente, e un momento dopo lui apparve, chiuso in un cappotto pesante che
lo rendeva goffo e impacciato.
- Stavi per
tuffarti? -
Hyoga non amava le
domande ovvie, non le aveva mai amate. Ma a voler ben guardare, la sua non lo
era poi così tanto.
- Quell’acqua
dev’essere molto fredda. –
- Shun. –
Shun di Andromeda
osservò con attenzione la pozza gelata che si distendeva davanti a loro,
innaturalmente immobile se non per le carezze irregolari del vento, che di
tanto in tanto glissavano la sua superficie.
- Che cosa ci fai
tu qui? –
Shun accennò ad un
sorriso assorto, e si chinò sul bordo della lastra di ghiaccio che sorreggeva
entrambi, sporcandosi le ginocchia di neve.
- La tua mamma è là
sotto, vero? –
Hyoga si irrigidì
suo malgrado. Sentire nominare la propria madre da una bocca che non fosse la
sua gli aveva sempre fatto un effetto strano e pungente. Qualcosa che si poteva
chiamare gelosia, forse, gelosia per un ricordo prezioso, per un simulacro da
difendere persino dalle parole.
- Non mi hai
risposto. –
- E tu non hai
risposto a me. –
Hyoga arricciò il
naso, un po’ stizzito. – Sono stato io a farti la domanda per primo. –
- Non è vero. Tu
non mi hai ancora detto se intendi tuffarti. –
Hyoga guardò Shun
negli occhi, guardò il fiore che teneva nella mano sinistra, guardò di nuovo
Shun.
- Naturalmente. –
- Non dovresti. –
- Che cosa? –
- Hyoga, c’è troppo
gelo laggiù. Troppo gelo. –
Hyoga strinse il
pugno destro fino a farlo tremare. Quello sinistro, no, mai. Reggeva il fiore
per sua madre, il delicatissimo fiore per colei che lo legava al ricordo più
bello e disperato che aveva.
- Hyoga, non
buttarti in acqua. –
- Che ne vuoi
sapere, tu? –
- Ti prego. –
Hyoga aprì la
bocca, fece per rispondere qualcosa di duro, qualcosa che voleva ferirlo, e lo
vide.
Nel senso più vero
e pregnante, lo vide per ciò che era realmente davanti ai suoi occhi.
Shun tremava, aveva
le labbra screpolate dal vento gelido, le guance arrossate e bruciate dal sole,
e lo stava pregando, in piedi davanti a lui, con le mani nascoste per
proteggerle dalla temperatura insopportabile.
Con quei suoi occhi
chiari, lucidi, così sinceri da sembrare nudi.
- Shun. –
Hyoga non aveva
molte altre parole da aggiungere. Shun lo stava costringendo ad una scelta
tanto precisa quanto terribile e definitiva, ma il suo sguardo era quello di
chi sta provando con tutte le sue forze a salvare qualcuno, e Hyoga si sentiva
travolto dalla forza impressionante del suo amore per la vita.
- Non dovresti
preoccuparti per me. Sono abituato ad immergermi a queste temperature, non mi succederà
niente. –
- Non è vero. Sei
tu che sbagli, perché io non mi preoccupo per il tuo corpo, ma per il tuo
cuore. –
Di nuovo. Hyoga lo
vide di nuovo per ciò che era, ragazzino tanto fragile quanto forte, e anche
qualcosa di più.
Vivo. Vivo e tangibile
più di un corpo protetto dal ghiaccio. La pelle di porcellana di sua madre,
l’aveva toccata molte volte, e nel suo amare innocente non si era mai reso
conto di quanto fosse fredda. Era normale, per lui, che la sua mamma sembrasse
al tatto una lastra di vetro gelido, perfetta e morta.
Non aveva mai
pensato che un corpo avesse il diritto di essere caldo.
- Forse non accadrà
niente alle tue braccia, o alle tue gambe, ma ogni volta che scendi là sotto il
tuo cuore si gela un po’ di più. Io non voglio che diventi di ghiaccio. Non
voglio. –
Hyoga guardò Shun
negli occhi, guardò il fiore che teneva nella mano sinistra, guardò di nuovo
Shun.
E arretrò verso di
lui di un passo.
- Non andare,
Hyoga. Lascia che lei riposi in pace. –
Ogni sua parola era
un po’ come una freccia nel petto, era vero, ma per dio, quando la punta gli si
conficcava nel sangue lo faceva scorrere, lo scaldava, e gli apriva gli occhi
inesorabilmente, delicatamente.
- Che cosa sei
venuto a fare, qui, Shun? –
- Io volevo
soltanto vedere come stavi. Solo questo. È molto tempo che non scrivi nemmeno
una lettera. –
- Sei venuto fin
qui solo per me? –
Shun fece un
sorriso semplice, uno dei suoi. – Non avrei saputo trovare un motivo più
valido. –
Gli occhi di Hyoga
si riempirono di lacrime, e fu strano, molto, perché nonostante l’aria gelida,
nonostante la neve e il ghiaccio, erano calde, abbastanza da sembrare una
carezza.
- Non andare là
sotto, rimani qui con me, Hyoga. Per favore. –
Hyoga tirò su con
il naso e si strofinò energicamente la faccia, sentendosi un po’ stupido, ed
allo stesso tempo immensamente sollevato, e libero.
Lo specchio d’acqua
ghiacciato lo chiamava alla morte, Shun lo chiamava alla vita, e ora i suoi
occhi erano abbastanza aperti da capire che cosa fosse davvero quella nave
ferma sul fondo del mare, che ogni giorno lo aspettava, lo accoglieva e lo
ospitava.
- Sì, rimango qui.
Tu stai gelando. –
Shun mostrò la
punta della lingua e ridacchiò. – Non sono abituato a questo freddo tremendo,
nemmeno sull’isola di Andromeda si stava così male! –
Nient’altro che una
bellissima tomba sommersa.
- Vuoi che ti
accenda un fuoco? Ti sentirai meglio. –
- Lascia stare, so
accenderlo da me, ma non mi serve. Sono un Saint anche io! –
Vedeva anche il
sorriso di Shun per ciò che era. Un cosmo, un cosmo magnifico e dolce, che si
schiudeva per lui in mille stelle, e gli tendeva la sua mano, promettendogli
una pace nemmeno mai sognata.
- Sciocco, guarda
che lo vedo che stai tremando. Dai, vieni qui, prima di trasformarti in un
ghiacciolo. –
Shun si lasciò
abbracciare sospirando di sollievo, e affondò il viso quanto più potè
nell’incavo della spalla di Hyoga.
- Sei buffo con
questo cappotto enorme addosso. Ti impaccia e non ti scalda nemmeno un po’. –
- Hai ragione. Sei
più caldo tu. –
Hyoga si ritrovò ad
affrontare un’inedita sensazione di calore alle guance, un calore endogeno,
rilassante e spaventoso allo stesso tempo.
- Ti batte forte il
cuore. – mormorò Shun.
- Già. E non riesco
a controllarlo. –
- Ed è piacevole? –
- Non lo so. Credo
di sì. –
Hyoga si assicurò
che la testa di Shun non potesse sollevarsi dalla sua spalla per nessun motivo
al mondo. La mano sinistra si alzò fino a raggiungere l’altezza dei suoi occhi,
mostrando con orgoglio quasi trepidante il suo preziosissimo tesoro.
- Sai, ogni volta
che mi immergo, le porto un fiore come questo. Nella stanza dove giace ce ne
saranno centomila, ormai. –
Hyoga si rigirò lo
stelo delicato fra le dita. E lo porse un poco, esitando, verso Shun.
- Non si regalano
fiori ad un ragazzo, non lo sai? – sorrise mitemente lui.
- Lo so. Ma sarei
felice se tu lo accettassi. –
Shun piegò la testa
vero l’alto per poterlo guardare, e gli fece un sorriso che valeva un universo
intero.
- E’ la prima volta
che regali un fiore ad una persona viva, non è così? –
- E’ vero, è il
primo fiore. Ma chissà, se te ne regalerò uno al giorno, prima o poi riuscirò a
donare centomila fiori anche a te. –
- Sarebbe come
pareggiare i conti. –
- Sì. Sarebbe il
mio… -
Hyoga reclinò il
volto verso la sua spalla, e con la mano libera dal fiore scostò una ciocca di
capelli dalla guancia di Shun.
- … Il mio
riscatto. –
Si dice sempre che
non ci si rende conto di ciò che si ha finché non lo si perde. Hyoga invece
capì soltanto in quel momento, baciando per la prima volta Shun, di quanto
avesse da sempre avuto bisogno di quel contatto, del calore morbido di una
bocca che rispondeva al suo bacio, di un respiro che si infrange sulla guancia
facendolo rabbrividire. Quantificò tutto ciò che aveva perduto fino a quel
momento, in nome di niente, di un legame sacro ma infantile, che a lungo andare
era diventato una gabbia, una via di fuga spiraliforme e cieca.
Shun, invece, Shun
era solido, era materia morbida che scorreva fra le sue dita, e per una volta
tanto il suo sapore era diverso da quello del mare, era dolce e sensibile, era
come il profumo di quei fiori, che nelle acque andava perduto, sprecato,
buttato via.
- Dimmi una cosa,
Hyoga. Tu lo hai mai sentito il rumore di una stella che si schianta? –
- No, mai. Ma dimmi
che non lo hai mai sentito nemmeno tu. Dimmi che lo cercheremo insieme. –
- Allora tornerai
in Giappone con me? –
- E’ una promessa.
–
Shun annuì appena,
chiuse gli occhi e si zittì, assaporando la pace di quei ghiacci solenni, e il
contrasto con l’emozione di vivere un abbraccio che sapeva tanto di casa.
In quel momento,
erano perfetti. Erano vivi, erano abbracciati, erano insieme.
- Hyoga? –
- Cosa? –
- Ti ringrazio per
il fiore. È bellissimo. –