Atto IV°
(L’essenza delle cose)
Kurt baciava da dio. Blaine baciava
da dio. Stavano andando
avanti da… da quanto? Non lo sapevano. E, sinceramente, non
aveva nemmeno tutta
questa importanza. Era solo… così bello. Tutto.
Labbra. Lingua. Denti ogni
tanto. Mani. Gambe. Capelli sotto le dita. Volevano solo che
continuasse.
Ancora. E ancora. Giusto due o tre secondi per riprendere fiato. E poi
ancora.
- Che cosa siamo noi due? –
riuscì a dire Kurt alla fine,
mentre Blaine si lasciava andare nell’incavo del suo collo;
una ciocca di
capelli scomposta gli solleticava il mento.
- Tu cosa vuoi che siamo? –
gli chiese Blaine di rimando
aggrappandosi un po’ più forte a lui, temendo un
possibile, prossimo distacco.
- Un qualcosa. Un qualcosa che noi
possiamo definire.
- Io non voglio definire nulla.
- Perché?
- Perché…
perché ho paura – rispose Blaine e, da come
tremava, sembrava essere davvero terrorizzato.
- Come puoi avere paura se lo stiamo
vivendo adesso? – Kurt
prese il volto del ragazzo tra le mani e lo sollevò cercando
i suoi occhi.
- Appunto perché lo stiamo
vivendo qui, in questo momento,
come un qualcosa che ancora ci sfugge ma che ci ha afferrati. In questo
momento
mi sento bene, come non credo di essermi mai sentito prima. Mi sembra
che ogni
fibra del mio corpo sia stata moltiplicata per mille. Ho come una
cascata
rovente dentro che mi fa desiderare solo la tua vicinanza che non mi dà
sollievo ma mi alimenta ed io non posso farne a meno. Come una droga.
Tu… non
provi anche tu queste sensazioni?
- Se non le provassi credi che sarei
qui con te, adesso? –
Kurt lo avvicinò nuovamente a sé, baciandogli gli
occhi e leccando una lacrima
scivolata lungo la guancia di Blaine – Ma non possiamo
restare in questo stato
di inconsapevolezza. Rischieremo di perderci e poi di soffrire. Forse
dovremo
fermarci per un po’ e riflettere, da soli, ognuno per conto
proprio.
- Vuoi andartene? –
gemé Blaine dolorosamente stringendosi a
Kurt ancora più forte.
- No, non me ne vado – Kurt
si liberò dalla sua presa e lo
afferrò per le spalle con decisione – Qualunque
cosa accada tra noi, positiva o
negativa che sia, non ti lascerò. Non ci separeremo. Per me,
ora, siamo “uno in
due”. Abbiamo una vita in comune e questo non lo
potrà cambiare niente e
nessuno. Lasciamoci solo per adesso. Riflettiamo su quanto ci
è successo. E
quando penseremo di averlo capito, verremo a dircelo. In ogni caso, ci
incontreremo ancora. Ci saremo sempre l’uno per
l’altro.
E Kurt firmò quelle sue
parole con un bacio, tenero e lieve
ma pieno di quel sentimento che loro avrebbero già
desiderato chiamare per
nome. Blaine avrebbe voluto morire con quel bacio sulle labbra.
Quando Kurt uscì dalla sua
stanza, dove si erano rifugiati,
Blaine si lasciò andare con la testa contro la parete,
esalando un sospiro che
gli scosse il petto. Adesso a solcargli le guance c’erano due
lacrime. E la sua
bocca era già pronta a dire quello che sia lui che Kurt
smaniavano di dire e
sentire in cuor loro.
* * *
Andare a chiedere consiglio sui
compiti ad un insegnante era
una cosa che Kurt non aveva mai fatto; andare a chiedere consiglio per
un
problema personale ad un insegnante era una cosa che gli era capitato
di fare
un paio di volte e non era mai stato per sua iniziativa. Quella era la
prima
volta che chiedeva ad un’insegnante un consiglio su un
problema personale che
era in parte connesso ad un compito assegnato da quella stessa
insegnante.
Quando si diceva “c’è una prima volta
per ogni cosa”.
Lo studio della professoressa
Isabelle Plessis era come Kurt
lo aveva immaginato. Era quasi una stanza, c’era solo una
libreria per i
documenti e i libri di testo, poi sulla scrivania, sulle varie mensole
e su un
piccolo pianoforte c’erano tante foto incorniciate: persone
che forse erano
parenti o amici della Plessis, luoghi lontani, la stessa Plessis nelle
varie
fasi della sua vita, nella gioventù e nella
maturità, con abiti d’epoca (forse
per uno spettacolo teatrale), esotici o di taglio maschile se la
fotografia era
stata scattata in un paese straniero, fino a quelle più
semplici, che quasi non
si notavano. C’erano, poi, statuine e soprammobili vari e un
autentico tappeto
persiano sul pavimento.
- Mi spiace di non poter invitarla a
sedersi, signor Hummel
– disse la Plessis dopo che ebbe fatto entrare Kurt
– Purtroppo, quando ho
terminato di arredare questo studio mi sono resa conto che non
c’era spazio per
più di una sedia. Se per lei è lo stesso,
può accomodarsi sullo sgabello del
piano.
- La ringrazio, professoressa
– rispose Kurt – Non vorrei
trattenermi a lungo – ma si sedette ugualmente su quello
sgabello; voleva
evitare di tremare o far notare un’emozione troppo forte,
restando in piedi.
- In cosa posso aiutarla, Hummel?
– chiese la professoressa
Plessis, appoggiandosi alla scrivania e incrociando le mani in grembo.
- Si tratta del compito che lei ci ha
assegnato.
- Non concedo deroghe né
giustificazioni, dovrebbe saperlo.
- No, no, non sono qui per questo.
Sono venuto da lei per…
ehm… come posso dire…
- Con parole semplici, suggerirei,
data la difficoltà in cui
la vedo – gli venne incontro la Plessis con la sua
caratteristica ironia.
- Ecco, io avrei bisogno di chiederle
un consiglio di
carattere personale.
- E questo cosa ha a che vedere con
il compito che vi ho
assegnato?
- Si può dire che tutto
è “partito”, se posso usare questo
termine, proprio dal vostro compito.
- Curioso –
sogghignò la donna, divertita – Sembro aver
fatto più danni in poche ore con un solo atto da insegnante
che in quarant’anni
di vita indipendente.
Non capendo cosa avesse voluto dire
la professoressa, Kurt
iniziò a torturarsi le mani, sentendo l’ansia
crescergli dentro. Quando vide lo
sguardo della Plessis posarsi nuovamente su di lui, riprese sperando di
essere
più diretto.
- La cosa riguarda me e Blaine
Anderson – mise le carte in
tavola – In questi ultimi giorni ci siamo avvicinati molto.
Non che prima
fossimo distanti, anzi. Lui è stato il primo vero amico che
ho avuto qui alla
Dalton; è stato l’unico ad accorgersi che non
stavo bene, quando ero ancora
nella mia vecchia scuola. Mi è stato vicino come nessun
altro ha mai fatto,
tranne mio padre. E accanto a lui ho capito tante cose: che una persona
non
deve essere per forza perfetta per entrarti nel cuore; che la vera
gelosia può
ucciderti come una tenaglia rovente nello stomaco; quanto una sincera
amicizia
possa farti stare bene; quanto possa essere grande un sentimento e
quante
emozioni esso comporti. Non credevo che una persona potesse farmi
capire tante
cose, né che io fossi capace di aiutare, sostenere, dare
forza a qualcuno a mia
volta.
Si sentì più
libero e leggero quando ebbe finito quel
discorso; era sembrato tanto difficile all’inizio ma, a mano
a mano, le parole
gli erano uscite con una tale facilità da sembrare pronte da
tempo.
- Be’, è stata
una confessione molto accorata – disse
Isabelle Plessis, nascondendo un lieve sorriso – ma non
capisco cosa centri
tutto questo con il mio compito.
- Glielo ho detto: le cose hanno
iniziato a prendere una
piega diversa da quando lei ci ha chiesto di
“vivere” le emozioni presenti in Romeo
e Giulietta.
- Il fatto che lei la pensi in questo
modo, Hummel, mi
lusinga molto ma io non centro nulla con tutto questo. E’ una
cosa che riguarda
unicamente lei e Anderson. Voi due vi siete conosciuti, voi due da soli
avete
costruito la vostra amicizia; voi due avete fatto in modo che questa
amicizia
diventasse qualcosa di più profondo. Avete fatto tutto voi.
Non esistono
insegnamenti scolastici, compiti per casa in grado di far capire a due
persone
di provare dei sentimenti forti l’un per l’altro.
Qual’è dunque il problema,
signor Hummel?
- Il problema sta proprio nel fatto
che io e Blaine abbiamo
creato questa amicizia così bella che, arrivati ad un certo
punto, potremmo
temere di rovinarla o anche di distruggerla se le cose tra noi non
funzionassero.
- E’ solo questo il
problema? – chiese stupita la Plessis;
aveva abbandonato la sua vena ironica e gli stava parlando come una
madre
avrebbe parlato al proprio figlio – La paura? Ma la paura
c’è sempre quando ci
troviamo davanti a qualcosa di nuovo, come quando andiamo per la prima
volta a
scuola, o iniziamo a guidare. Ma la paura non ci frena; guai se lo
facesse. La
paura di ciò che è nuovo è quasi
sempre il preludio di un’avventura e l’amore
non fa eccezione.
Quando ebbe finito di parlare,
un’ombra scura cadde sul viso
della donna che si alzò dalla scrivania, la
aggirò e andò a sedersi sulla sedia
dietro di essa. Sembrava essere sul punto di appassire lì,
in quel momento; i
suoi occhi divennero completamente rossi, come se traboccassero di anni
e anni
di lacrime; rughe, che prima non c’erano, le solcarono la
fronte e gli angoli
delle labbra sottili. Kurt temette che si stesse sentendo male e fece
per
alzarsi, per chiederle se le occorreva qualcosa, ma lei lo
fermò con un gesto
della mano, che andò poi a posare sugli occhi e infine su
una foto sulla
scrivania. La Plessis la prese e la guardò a lungo. In quel
momento Kurt
avrebbe potuto leggere tante e tante emozioni racchiuse in una; avrebbe
voluto
vedere chi o cosa era rappresentato in quella foto e quale significato
avesse
per lei.
- So di non aver alcun diritto per
dirle certe cose, ma
vorrei avvalermi lo stesso del mio ruolo di educatrice per farlo
ugualmente –
disse la professoressa, con voce bassa e grave –
L’amore è la cosa più bella
che esista ma va trattato con molta attenzione perché
è fragile, come sono
fragili coloro che amano; se tante storie, come quella di Romeo e
Giulietta, si
concludono con un finale triste, è proprio per questa
fragilità. Lo si può
rendere meno fragile con anni ed anni di nutrimento ed evoluzione; si
può
riuscire a mantenerlo vivo per sempre se si è forti
abbastanza, altrimenti
l’amore viene sostituito dalla paura di rimanere soli o,
peggio,
dall’abitudine. Se così deve andare a finire,
tanto vale rimanere da soli
perché l’amore già è morto.
Lei, Hummel, cosa vorrebbe dire al signor Anderson
riguardo ai vostri sentimenti?
Preso in contropiede da quella
domanda, Kurt aprì e chiuse
la bocca, non sapendo che dire.
- Non dica “quella
parola” se non è sicuro al cento per
cento – lo prevenne la Plessis.
- Vorrei dirgli – rispose
Kurt, alla fine – che assieme a
lui mi sento felice. E che voglio provare ad essere ancora
più felice felice
assieme a lui.
- Allora corra da lui a dirglielo
– disse la Plessis,
tornando a guardare la foto. Poi la rimise al suo posto sulla
scrivania; adesso
Kurt riuscì a vedere chi vi era raffigurato: c’era
la professoressa Plessis
molto più giovane (doveva avere tra i venti e i
trent’anni), il volto pieno e
tondo e le labbra a bocciolo, i capelli le ricadevano lunghi e ondulati
sulle
spalle, il fisico sempre magro e minuto; dietro di lei, a cingerle la
vita,
c’era un uomo alto e ben piazzato, un gigante in confronto a
lei, riccioli
chiari gli incorniciavano il volto, non bello ma simpatico e
rassicurante.
Sembravano due persone all’apice della felicità
– Michael – disse la
professoressa lasciando che un sorriso la illuminasse – Si
chiamava Michael, ma
io mi divertivo a chiamarlo Michel, alla francese, e lui mi ricambiava
chiamandomi Elizabeth. Ci siamo conosciuti quando eravamo due studenti;
lui era
venuto in Francia dall’America per continuare i suoi studi ed
è stato… non dico
un colpo di fulmine, ma è stato un risveglio alla vita; di
quelli che capitano
una sola volta nella vita. Alla mia famiglia non stava bene che io mi
perdessi
dietro uno “zotico yankee”, come loro lo
chiamavano. E visto che io e Michael
eravamo in quella fascia d’età in cui si
è quasi sempre pazzi, non trovammo
altra soluzione che fuggire, via, in giro per l’Europa, con
pochi soldi in
tasca, facendo lavori occasionali per sbarcare il lunario, molte volte
recitando in piccole compagnie teatrali. Vivere all’avventura
come facevamo
noi, col tempo, avrebbe dovuto farci perdere la passione iniziale e
farci
ritornare alla monotona vita di una volta; ma non fu così,
anzi il sentimento che
ci legava si fece di giorni in giorno, mese in mese, anno in anno
più forte e
duraturo. E così, quando alla fine giungemmo qui in America,
ci sentivamo ormai
pronti a fare il grande passo e a creare una famiglia tutta nostra. Ma
in
quello stesso anno, Michael venne chiamato al fronte, in Vietnam.
Questa foto
l’abbiamo scattata proprio il giorno prima che partisse.
Tacque. La sua voce, sebbene
traboccante di emozioni, era
rimasta ferma e senza incrinature. Solo un leggero tremito della mano
la
tradiva mostrando la sua debolezza in quel momento.
- Cosa gli accadde? – si
azzardò a chiedere Kurt, con un
filo di voce, pur credendo di sapere già la risposta.
- Le guerre non si dovrebbero mai
fare – rispose la Plessis
con voce fredda, passandosi una mano sul lato del viso dove era
scivolata una
ciocca di capelli – Vada da Anderson. Non sprecate un solo
momento che la vita
ha deciso di concedere a tutti e due.
Kurt non avrebbe voluto fare altro in
quel momento: uscire
da quella stanza, correre (quella volta avrebbe corso lui) fino alla
porta
della stanza di Blaine, aprirla senza nemmeno bussare e stringere,
baciare il
ragazzo che la abitava, dirgli tante cose, fino al giorno seguente e
quelli che
sarebbero venuti. Ma a frenare il suo entusiasmo c’era la
mano bianca e
tremante di Isabelle Plessis, fragile come mai avrebbe creduto di
vederla. Si
sentiva in colpa per essere giovane e sul punto di scoppiare dalla
felicità
mentre quella donna, che lo aveva aiutato a togliersi un velo dagli
occhi, no.
- Vada – disse lei
nuovamente, più decisa e Kurt si sollevò
a fatica dallo sgabello e, cercando di non camminare in maniera rigida,
uscì
chiudendosi la porta alle spalle. Rimase fermo per un po’,
aspettando che il
suo respiro ritornasse regolare, come anche la sua circolazione. Troppe
confidenze da entrambe le parti.
Poi la sentì, dietro la
porta chiusa: una nota seguita da
un’altra e poi da un’altra fino a formare una
vecchia melodia densa di
rimpianti e nostalgie. Adesso sì che Kurt trovò
la forza di andarsene per non
immischiarsi nel mondo privato di Isabelle Plessis; c’era
spazio solo per lei,
il pianoforte, le fotografie e tutto quello che significavano. Poco
prima di
voltare l’angolo gli sembrò di sentire una parola
persa nella musica.
Ecoutes
* * *
Uscito fuori dal raggio
d’azione della zona professori, Kurt
aumentò il passo, lanciando qualche sporadico saluto a chi
incrociava per i
corridoi. Arrivò a contare i numeri sulle porte delle stanze
a mano a mano che
sapeva di avvicinarsi, fino a ritrovarsi davanti alla stanza di Blaine;
la
colpì solo una volta con le nocche per poi aprire subito
dopo ed entrare per
gettarsi su di lui, come per fargli una sorpresa. Ma la sorpresa
l’ebbe lui
stesso quando si rese conto che la stanza era vuota.
Senza starci troppo a pensare,
uscì dalla stanza e si mise a
correre a rotta di collo per i corridoi.
Non sapeva che Blaine stava facendo
la stessa identica cosa,
nello stesso momento: era andato a cercarlo nella sua stanza e, non
trovandolo,
era corso via per ritrovarlo. Entrambi a scivolare sul parquet o sul
marmo
(dipendeva da dove si trovassero) dei pavimenti, come gabbiani privi di
un’ala,
bloccati in un elemento non loro, bisognosi l’uno
dell’altro per poter volare
via. Il loro pezzo mancante.
Tra corridoi labirintici si
allontanavano e si avvicinavano
e si riallontanavano e si riavvicinavano senza mai incrociarsi, e il
filo che
li univa si riduceva ad ogni centimetro percorso. Si ritrovarono, alla
fine, al
centro di quel filo, dove il cuore pulsava come un piccolo nervo; in
poche parole,
a metà strada. Avevano percorso su e giù
l’intero dormitorio per ritrovarsi a
poca distanza dai loro rispettivi punti di partenza. E si erano
ritrovati l’uno
tra le braccia dell’altro, ma più per la rincorsa
che per vere intenzioni.
- Ti stavo cercando – disse
Kurt.
- Ed io stavo cercando te –
disse Blaine di rimando, non
riuscendo a trattenere una breve risatina.
- Blaine – riprese Kurt
– Blaine, io devo…
- No, ti prego, prima io –
lo interruppe Blaine
stringendogli le braccia – O non credo che riuscirei
più a dire nulla. Kurt,
sei tu. La persona “più particolare” sei
tu. Quello che cercavo in ogni ragazzo
che incrociavo senza mai trovarlo. Mi hai conquistato dalla prima volta
che ti
ho visto, ti ho voluto bene dal primo istante in cui ho iniziato a
conoscerti.
Sei l’amico che sognavo di avere quando ero piccolo. Ed ora
sei tutto quello
che ho sempre desiderato. Non so come esprimermi. Tu mi hai toccato
l’anima.
Non voglio forzarti a fare qualcosa, a intraprendere una storia seria
se non
vuoi, mi basterà sapere che ci saremo sempre l’uno
per l’altro, come hai detto
tu. Ma dovevo dirtelo anch’io.
Rimasero in silenzio per un tempo che
a Blaine sembrò non
finire mai; già si stava maledicendo per non aver saputo
esprimersi meglio, per
essersi sbottonato in quel modo. Sicuramente Kurt avrebbe detto di no,
avrebbero cercato di rimettere insieme quella loro strana amicizia,
avrebbero
dovuto dimenticare tutto quello che era stato e che sarebbe potuto
essere. Ma
tutti quei pensieri, accavallatisi in due secondi, vennero smentiti
dallo
stesso Kurt che gli gettò le braccia al collo e lo
baciò con la stessa forza di
quella mattina e la stessa delicatezza di quando si erano lasciati
qualche ora
fa.
- Blaine, sei tu – disse
Kurt, staccandosi da lui ed
emozionandolo coi suoi limpidi occhi verde azzurri.
Stavano iniziando ancora, proprio in
quel momento.
Tenendosi per mano, entrarono nella
stanza più vicina
(quella di Blaine). Si stesero sul letto e ripresero da dove si erano
interrotti, senza più interrogativi o incertezze o timori a
porre freni a
quella felicità e a quell’appagamento che ora li
avvolgeva. L’unica cosa
negativa (se così si può dire) fu che per quella
giornata dimenticarono
completamente lo studio. Ah sì, anche di mangiare.
Si addormentarono quando la luce
conciliò loro un rilassante
languore. Il primo a risvegliarsi, quando il sole stava tramontando, fu
Kurt;
dopo essersi tenuti stretti a lungo, si erano lasciati, permettendo che
fossero
solo i loro respiri, le loro labbra divise da un leggero filo
d’aria a
sfiorarsi. Non accontentandosi di quel poco, Kurt baciò le
labbra di Blaine che
respirò a pieni polmoni il fiato che quel bacio si
lasciò dietro, sorridendo
nel sonno.
Voltandosi, Kurt prese il suo
cellulare, appoggiato sul
comodino, e mandò un messaggio a Mercedes; voleva concludere
così questo
prologo prima dell’inizio vero e proprio.
Io e Blaine abbiamo scelto di provarci.
E Mercedes gli rispose:
Sono sicura che non ve ne pentirete ; ) Un bacio
<3
Con un sorriso, Kurt rimise il
cellulare sul comodino,
quando sentì una dolce stretta decisa cingerlo per il petto,
un bacio sul collo
e la voce di Blaine nell’orecchio.
- Benedetto
pugnale
– declamò silenziosamente – Questa è la
tua guaina.
- Qui resta
–
continuò Kurt voltandosi verso di lui e baciandolo ancora e
ancora e ancora.
Per la prima volta, due sorrisi uniti in uno.
- Qui resta…
e
fammi vivere.
Fine
anzi
no
Inizio
Note
dell’autore:
Ok, vi prego di non uccidermi.
Lo so, avrei dovuto dire che questo
sarebbe stato l’ultimo
capitolo e sicuramente avrò fatto un errore chiudendola qui,
ma quando sono
arrivato a questo punto ho capito di aver già detto tutto e
che aggiungere
altro sarebbe stato inutile: questo era l’inizio di Kurt e
Blaine nella
versione “secondo me”. Non sono Blaine Anderson
quindi con le dichiarazioni
sono negato, specialmente dopo quella della 5x01; temo che ora avremo
tutti
degli standard troppo alti XD
Spero comunque di avervi fatto
emozionare almeno un po’.
Per quanto riguarda Thad e
Sebastian… ho preferito lasciare
un finale aperto per loro, anche perché, se notate bene, mi
sono mantenuto sul
massimo realismo, evitando di far correre gli eventi, anche per quanto
riguarda
Kurt e Blaine che non si dicono “ti amo”
né fanno l’amore. Ho preferito
riservare lo stesso trattamento anche per Thad e Sebastian. Comunque
vada,
nella mia testa, anche loro adesso stanno “thogeter &
happy”.
E poi non dimenticate che questa era
una mini-long.
Con Isabelle Plessis mi auguro di
aver fatto un buon lavoro;
ho voluto mostrare anche questo aspetto di lei per non farla rimanere
semplicemente nel ruolo comico tipo Sue Sylvester, per dare anche lei
una
dimensione. Per la canzone, se volete sentirla, è questa,
cantata da Isabelle
Huppert, alla quale ho pensato per il personaggio della professoressa,
nel film
“8 donne e un mistero”: http://www.youtube.com/watch?v=gD_8MbEx90Q
E anche questa fanfiction
è conclusa. Al momento ho lasciato
per un po’ Glee e sto scrivendo una fanfiction semi originale
ispirata ad una
fiaba classica, e ci sto investendo molto.
Se volete rimanere informati su
questo prossimo lavoro (o
disastro, dipende dai punti di vista) vi rimando alla mia pagina: https://www.facebook.com/pages/Lusio-EFP/162610203857483
E per qualsiasi domanda: http://ask.fm/LusioEFP
Concludo ringraziando e mandando un
abbraccio fortissimo a
tutte le persone che mi hanno seguito anche con questa mini-long, che
l’hanno
inserita tra le seguite, le ricordate e i preferiti (non ci contavo
neanche) e
hanno anche trovato il tempo per farmi sapere cosa ne pensavano J
Vi voglio bene.
Alla prossima.
Ciaooooo
Lusio
|