Quando, intorno al 1885,
Wilhelm Dörpfeld, già in odore
d’onorificenza ma non ancora Professore, iniziò i
suoi scavi intorno l’Acropoli di Atene, non immaginava di
rinvenire un simile reperto. Egli non era certo uno sprovveduto e
l’esperienza accumulata nei trascorsi anni, dapprima ad
Olimpia e poi con lo stesso Schliemann presso Hissarlik, gli avevano
insegnato che sotto la greve terra possonsi celarsi meraviglie
d’ogni sorta. Tuttavia, qualsiasi tesoro mitico in nulla
avrebbe rivaleggiato con le reliquie che rinvenne.
Era, per la precisione, il 16 maggio del 1885. Sulla Grecia
gravava ancora il pugno ottomano, benché il clima non fosse
dei più sottomessi. Un’ondata di patriottismo,
soffio identitario d’una nazione antica come
l’Occidente, invase la popolazione su tutti gli strati.
Ciò donò linfa e sostegno all’affamata
archeologia, pronta anch’ella a rinvigorire il proprio
spirito poco avvezzo alla pratica, non ancora scevro dai fantasmi dei
passati miti.
Quando Dörpfeld –come detto, non ancora professore-
s’accinse a scavare intorno quelli che individuò
subito quali i resti dell’Eretteo, il luogo in tutta
l’antica Atene più sacro, con grinta e parsimonia,
era circondato da pochi e stretti collaboratori.
Verso l’ora in cui i
buoi si sciolgono dal faticoso lavoro, incendiava il sole
l’occaso di baluginii porporini mentre l’oriente
già scuro mostrava le prime, timide stelle. Un cielo
sì splendente nel dì e nella sera Wilhelm se lo
sognava soltanto, nella fredda Germania; per questo a Dio fu dato dagli
antichi di quelle terre il nome di Zeus,
“splendente”.
Sbuffando negli impolverati abiti, il Nostro lavorava di spatola e
picchetto nella piccola stanza quadrangolare, poco più
grande d’un loculo, che più tardi
s’identificò quale tempio di Posidone Eretteo.
Lì si custodiva, in età dimenticate, la sacra
roccia ove il Dio infisse d’un colpo gagliardo il Tridente,
facendone scaturire una polla d’acqua salmastra, imbevibile,
qual dono agli ateniesi per chiedere i di questi favori. In quella
medesima roccia restò impressa l’impronta
dell’Arma divina e la fossa in cui l’acqua si
raccolse zampillando, a memoria dell’accaduto e venerazione
dei posteri... Di tutto ciò, però, non
v’era più traccia e nessuna fonte a noi pervenuta,
prima e dopo i fatti di questo racconto, ha mai rivelato il destino
ultimo di quelle sacre spoglie.
Fu in quel mentre che, scostando un grosso mattone di calcare
evidentemente fuoriposto, s’avvide della presenza
d’un foro nel terreno, non più largo
d’un capiente bollitore, dai bordi intonsi seppur levigati,
palese opera d’uno scalpellino distratto, scavato nella dura
roccia giallastra dell’Acropoli.
“Ecco” pensò con rigore scientifico,
“una fossa per i sacrifici o uno scolo per l’acqua
lustrale”.
Osservò con curiosità il foro, attratto dal vuoto
sul quale si spalancava. Il bagliore del giorno morente ormai non
bastava ad illuminare la cavità né la lampada
accesa che accanto posava al suolo. Sembrava inghiottire ogni luce.
Non seppe mai dire qual forza lo spinse incautamente, cosa lo attirava,
che sorta di curiosità s’era accesa nel suo petto
e scalpitando l’aveva piegato sul piccolo abisso, costretto a
distendere il braccio ed immergere nella fossa avventatamente la mano.
Col senno di poi si disse che poteva esservi qualsiasi cosa celata
lì dentro, una vipera, per esempio, o un insetto velenoso.
Ma sul momento non vi badò affatto.
La curiosità è causa di tutti i mali; non fosse
stato per lei, Pandora mai avrebbe aperto il vaso maligno o Ulisse
solcato i mari al confine del mondo trovando la morte, né
Eva assaggiato il frutto ferale del bene e del male.
Dörpfeld trasse fuori dal quel buco oscuro poche tavolette
d’argilla, alcune spezzate, altre integre ma delicate come
cristalli. (Il tempo è impietoso con tutto; Crono
divorò la sua stessa progenie e non n’ebbe
rimorso). Su ciascuna spiccava fitta un’iscrizione in
caratteri greci dall’aspetto arcaico, risalenti ai primordi
di quella lingua, madre di splendidi discorsi. Mosso da quel medesimo
spirito che l’aveva condotto al ritrovamento, Wilhelm con
naturalezza e gesto rapido fece scorrere le tavolette dentro la
bisaccia che portava seco, attento che nessuno lo notasse. E poi, con
nonchalance,
comunicò ai collaboratori ch’era giunta
l’ora del riposo; avrebbero ripreso i lavori la mattina
seguente.
Tutti si dileguarono rapidi come il fumo scosso dal vento, tutti
diretti ai propri alloggi, tutti carichi di stanchezza e sonno, eccetto
Dörpfeld. Egli stringeva con fare spasmodico la bisaccia,
accarezzandola di quando in quando, lungo il tragitto che lo portava in
albergo. Dentro di sé esultava, sentiva d’aver
trovato qualcosa di straordinario.
Non perse tempo prima d’esaminarle, con mani tremanti e fiato
corto; ogni qualvolta estraeva una tavoletta (una ad una con saporita
lentezza) il cuore veniva meno d’un battito. Le dispose
avanti a sé, sul tavolinetto; non sapeva quale cominciare a
leggere, doveva per prima cosa intuire l’ordine corretto e
quali frammenti mancavano e quali con altri s’appaiavano.
Questo fu un lavoro difficile.
Gli toccava tradurre almeno le prime due righe e le ultime due per
poter comprendere, e non era facile, vista e considerata
l’arcaicità del linguaggio e la scarsa
leggibilità delle incisioni, quali tavolette fra loro si
legavano. Ma tant’è, alla fine riuscì
nell’intento di metterne in fila tre parti.
E qui accadde la prima delle cose incredibili che circondarono questa
scoperta.
Perdonate l’imbarazzo in cui il Biografo di tale storia
incorre; fate conto che siate voi al suo posto. Se sapeste quel che
egli conosce, certamente qualche remora ve la porreste prima di narrare
quanto è dovuto, anzi, probabilmente rifiutereste di
credervi, scambiando il tutto per buffonerie fuoriposto. Ahilui, il
nostro caro Biografo non per sentito dire o dopo aver letto apprese i
fatti, bensì conobbe in anni giovanili il professor
Dörpfled medesimo ed assistette –sebbene non agli
accadimenti in oggetto- a quel che vi seguì e che non poteva
confermare nulla di diverso se non questo resoconto, raccolto dalla
bocca stessa del Professore in punto di morte.
Quella notte, il professore
in
nuce, per quanto vi provasse sforzando occhi e neuroni,
non riuscì a tradurre alcunché. Sapeva che non
v’era nulla di complesso in quelle frasi e chiunque
masticasse il greco poteva capirne l’argomento
principale… e tuttavia ogni parola sembrava letteralmente
sfuggirgli dal cervello. Appena credeva d’aver capito, subito
dimenticava qualche regola o qualche significato o la traduzione dei
passi stessi, e sembrava che quelle lettere antiche si prendessero
malignamente gioco di lui ruotando e scambiandosi di posto. Solo la
prima frase, incompleta giacché una frattura
n’aveva sbriciolato il margine restante, riuscì a
tradurre con ferma certezza. Due parole e una mezza:
Ἐγώ
εἰμί Κέ…
Per ore vi lavorò senza arrivare da alcuna parte. Fu
sull’orlo d’urlare per la frustrazione quando
decise che, probabilmente, questa misteriosa dislessia (tale la
considerò) doveva esser figlia della stanchezza.
Abbandonò sullo scrittoio le tavolette d’argilla
preferendovi –finalmente- l’abbraccio
più morbido del cuscino. Toccò il materasso con
languido piacere, lasciando che il peso d’una giornata non
priva di fatiche fisiche e mentali scivolasse lungo gli arti spossati
con un brivido. Il più profondo sopore di cui mai ebbe
memoria lo colse immantinente, e nel lasso breve d’uno
sbatter d’ali già aveva ceduto armi e scudo (o nel
suo caso spatola e picchetto) a Morfeo.
Ed ecco il momento che tanto si teme a narrare poiché
avvenuto nel mondo onirico –se non eccessivo peso ontologico
vogliamo dare alla famosa frase di Shakespeare “siamo fatti
della stessa sostanza dei sogni” traducendo così
le nostre vite in effimeri artifizi della fantasia di qualche celeste
divinità o della nostra mente- e non scevro è da
dubbi né diverso nella forma dai vaneggiamenti di un folle.
Solo un infermo di mente avrebbe mai potuto immaginare simili spettri
fargli visita notturna e darvi peso di realtà. E forse
Dörpfled era già folle per aver sognato la figura
mostruosa e antica d’un essere metà uomo e
metà serpente.
Si cruccia il Biografo non sapendo bene quale persona usare, se parlar
della creatura dicendo “Lui” o un più
inumano “Esso/a”. Era o non era umano? Si
può definire persona un siffatto scherzo della natura?
Se nell’ermafrodito convivono uomo e donna senza lotta,
ciò è dovuta alla natura umana d’ambo i
sessi che li accomuna e media fra loro. Ma in questo caso, nulla
v’era di simile fra le due metà che, in vero, si
mostravan già nell’immagine in perenne discordia;
se la parte superiore umana potevasi dir bella, potente nei muscoli
slanciati e tonici delle braccia e dell’addome, nel collo
poderoso come d’un toro, il viso dal cipiglio severo ma
saggio, lo sguardo antico, contornato da folti riccioli neri ed una
barba striata di grigio; la parte inferiore era assai orrida alla
vista, viscida, e irta di scaglie bitorzolute dal colore del fango.
S’attorcigliava su se stessa, non smetteva mai di muoversi e
tali erano i giri che compiva da render impossibile stabilirne la
lunghezza: in sé una sagoma terribile, un’ombra
chissà da quale recesso della mente sorta o
dall’Ade richiamata. Quale Dio insano aveva dato vita a
quell’abominio, chi era il padre e chi la madre
d’una simile aberrazione? Nemici al cielo e al suo santo
ordine dovevano essere per concepire una simile sconcezza.
In mano, s’accorse, il mostro reggeva uno specchio dal manico
d’osso lavorato; lo teneva basso, quasi nascosto
–forse paventava di scorgervi riflessa la propria
deformità?-.
Dörpfeld tentò di parlare, ma una misteriosa forza
gli teneva avvinte le labbra l’una all’altra.
Urlò, si sforzò di rompere quei legami
invisibili, ma non vi fu verso. Si sentì mancare e la rabbia
montò. Voleva scagliarsi contro il mostro,
sospettando ch’egli fosse la causa di quella malia. Voleva
abbatterlo prima che questi a sua volta potesse aggredirlo. Ma nulla di
tutto questo realizzò. Non poté: la creatura
cominciò a parlare.
«Duplice è la natura umana»
dichiarò con voce stranamente dolce per un mostro di tal
fatta, «in sé contraddittoria e litigiosa. Campo
di battaglia in cui s'oppongono due forze possenti: la prima terrigena
che traina verso il basso la misera creatura, e che striscia fra
polvere e limo, primitiva, s'aggroviglia in mille spire e mai conosce
requie. L'altra è uranica. Tira verso l'alto in moto
ascensivo. Non violenta e quieta per carattere, aspira solo
all'immobilità, cristallina e gelida. La prima si proietta
in avanti, la seconda s'avviticchia al passato. In mezzo, oggetti di
lor contesa ed unico giudice, sta il terzo spirito che voi chiamate
Anima.
Questa è la composizione dell'Uomo, teso fra l'alto e il
basso, fra il moto e la quiete. Come la freccia e la corda di lira,
vibra ad ogni scossone pronta al movimento, ma trattenuta. Combattuta,
indecisa, contesa e poi sfinita. Tale è la stirpe degli
uomini.»
“Anche i mostri, oggigiorno, filosofeggiano”, si
trovò a pensare il Nostro. Ma nulla profferì, non
potendo emetter sillaba (e s’anche avesse potuto, certo per
sé avrebbe trattenuto le parole, temendo
d’offendere la creatura).
Il mostro gli rispose.
«Nulla v’è di più filosofico
della Verità. Non esiste cosa che più in odio
possiede della Verità la filosofia. Chi acquisisce la
Verità diviene filosofo. Chi filosofeggia per tutta la vita,
dispregerà il Vero preferendo le mere fantasie. Se trovi
contraddizione nelle mie parole, dirò che hai vista lunga e
udito sottile. Il contrasto genera tutte le cose. La Guerra risiede in
tutte le cose. Tale è la stirpe degli uomini.
Se ancora t’agiti e ti domandi se mai ti farò
danno, chetati pure. Non sono qui per dolerti. Abbi timore
dell’uomo, non dello spettro. Che male può farti
quel che più non esiste?»
“Chi è costui che sa leggere gli altrui
pensieri?” si chiese stupito Wilhelm Dörpfeld che
mai aveva fatto sogni sì strani né mai creduto a
simili scempiaggini. “Come conosce le parole della mia mente
prima che le esponga?”
Non tardò la risposta.
«Io nulla conosco se non il passato. Un morto non sa niente.
Io sono morto.
Quello che dico non viene da me ma dal Dio che ogni cosa comprende. La
mia forma è esemplare, la mia bocca profetica, il mio
sguardo giudice. Eppure, nulla conosco che non provenga dai Numi, che
soli hanno la verità.»
“Perché, spirito mostruoso, invadi i miei
sogni?” pensò. Era quello, aveva capito, il solo
modo per comunicare con l’uomo-bestia.
«Non io ho scelto te, ma tu m’hai chiamato. Hai
aperto la mia tana e detto il mio nome, strappandomi ai Campi
d’Asfodelo e alle paludi di Lete. Hai invocato il Sacro
Serpente di Atene, l’Oracolo della Vergine che tutti
chiamavano Erittonio. Io sono costui e sono più antico di
lui; padre di molti re, giudice in divine contese e fondatore
dell’illuminata Polis. Altro è il mio nome, che tu
ben conosci ed Erittonio è solo la copia.»
E fu allora che Dörpfeld comprese chi aveva innanzi. Un moto
di referenza l’atterrì: era lo spirito di quel re
antico che sorse dalla terra, figlio di Gaia che mai ebbe padre. Il
valente sovrano che civilizzò l’uomo dalla
barbarie e che di sapienti popolò il mondo. Amato da Athena
e Posidone che, scesi a contesa, l’avevano chiamato giudice
di loro stessi. Atene bella ricevette il nome da quell’evento
e l’olivo sigillò come segno ai posteri
l’accadimento.
Wilhelm lo conosceva.
Riprese il Grande Re a dire: «La mia parola ascolta e
accogli. È il messaggio che mando agli alti uomini, io che
sono umano più di loro. Le vostre fattezze ingannano; in me
si palesa quel che in voi si nasconde. Non temete la vostra
natura, in sé bestiale e razionale. Divina e animale. Siete
polvere e fumo sulla pira, erba che cresce sul tumulo putrescente. Tale
è la stirpe degli uomini. Quale sono io: Cecrope.
La distinzione è follia, illusione d’un malevole
pensiero. È dalla Discordia che sorge l’unione e
fu Caos fautore del Cosmo. Come il fango non sarà mai sola
acqua o sola terra, ma entrambe nel suo essere mischiate e che da tale
mescolanza il fango può dirsi fango, così
l’uomo mai sarà sola Bestia o sola
Virtù poiché dall’una si ridurrebbe ad
animale e dall’altra a Dio, e non più quel che in
verità è. Siamo quello che siamo
nell’unione delle nostre parti. La distinzione è
follia. Chi null’altro vede se non la singola parte
è cieco e sciocco, destinato a perire in terribile sorte.
Accostati e osserva, se vuoi vedere il Dio che mi comanda, come io
stesso lo vidi, com’è per quel che è.
Vieni e osserva nel mio specchio.»
Quando il Professore narrò siffatti avvenimenti ormai giunto
nell’ora estrema, si dice c’ebbe un eccesso di
tosse ed un forte sussulto, come d’attacco epilettico di cui
le cause restano oggi ignote. Tuttavia a colpire grandemente gli
astanti fu il suo viso ricolmo di stupore come se proprio in quel
momento stesse tornando a scrutare nella fredda superficie dello
specchio di Cecrope.
«Io sono l’immagine e simbolo.» diceva
l’enigmatico Serpente, novella Sfinge.
Ancora una volta un rettile donò all’uomo la
Conoscenza di sé, e se il primo con la forcuta lingua
saettante spaccò il mondo a metà, in Bene e Male;
il secondo lo ricompattò.
E Wilhelm Dörpfeld vide nello specchio il suo volto, e quello
di suo padre, quello della madre, della moglie, dei figli futuri. Vide
i volti dei suoi assistenti. Tutti confusi al proprio che mutava e mai
stava fermo, dall’uno all’altro passando
senz’ordine. E divenne fiera, leone, aquila, balena. Fu
albero e sasso, fiume e rosa. Fu drago e fu Cecrope. Fu tutto e fu
nulla.
«Tale è la stirpe degli uomini. Tale sono io.
Questi sei tu. Questi è il Dio.»
E sull’eco di quelle parole, l’archeologo si
ridestò.
Si dice –voce non confermata dal protagonista- che a quel
punto, come un pazzo, si precipitò fuori dal suo alloggio e
correndo raggiunse la vetta dell’Acropoli; chi lo
incontrò, confermò lo sconvolgimento sul suo viso
e lo sguardo da folle, iniettato di sangue, che possedeva.
Nulla di tutto questo è stato detto da Dörpfeld.
Non smentì né confermò.
Rivelò soltanto d’essersi improvvisamente trovato
accanto ai resti dell’Eretteo, dal lato del loggione decorato
con figure di donna soprannominate Cariatidi.
Ai suoi piedi, una buca fresca d’escavazione e lì,
in bella mostra, delle vecchie ossa semipietrificate, ancora sporche di
terra e detriti. Era lo scheletro evidente d’un uomo di
statura enorme, vigoroso e possente; un uomo vissuto qualche migliaio
di anni prima.
In ciò il gentile lettore non vi potrebbe trovare nulla di
strano, se non fosse che quello scheletro non possedeva gambe, ma una
lunga fila di vertebre si dipartiva dal bacino, quasi continuazione
dell’osso sacro, più simile alle ossa molli
d’un grosso serpente. Era quella la tomba dello spettro che
l’aveva visitato. Era quella la dimora del riposo ultimo e
quello lo scheletro del re Cecrope, il Serpente Sacro.
Ἐγώ
εἰμί
Κέκροψ
Conclusione.
Di quelle ossa non si seppe più nulla. Si dice che il
Professore le celò assieme alle tavolette
d’argilla in qualche magazzino segreto
dell’Istituto Archeologico Tedesco di Atene, cui fu secondo
segretario dopo i lavori nell’Acropoli. Taluni dicono che,
preso dall’orrore, distrusse i ritrovamenti quella notte
stessa.
Il professor Dörpfeld continuò il proprio mestiere
di archeologo raggiungendo fama internazionale e, successivamente,
passando alla storia egli stesso come fondatore del metodo scientifico
archeologico. Mai fece parola di quanto accaduto, se non in punto di
morte. Si spense, tuttavia, con serenità, sebbene
l’ombra di quella notte ne offuscasse sempre una parte del
viso.