Storie originali > Epico
Segui la storia  |       
Autore: silencio    11/10/2013    0 recensioni
Alle belle dee che siedono sul monte Elicona dedico il canto. Levo la prece e la cetra depongo ai piedi in attesa dei loro favori, sì che versino nel mio orecchio le voci di quegli spiriti dolenti la cui sorte nel mondo fu avversa, e avverso l'animo. Non di eroi, ma dei vinti io reco le storie, di quanti soffersero e mali portarono sulla vasta terra che oltre lo sguardo si stende. Di belve e orrori, terribili a vedersi.
Muse dal candido piede, che al Cronide dedicate e danzi e cori, compagne d'aedi e di sovrani vincitori, di bende il mio capo avvolgete ed un ramo d'alloro donatemi così che la vostra arte io tenga senza fallo e onta al vostro nome.
La presente altri non è che una modesta raccolta di racconti brevi e storie autoconclusive (one-shot) ispirate ai miti greci, in particolare alle figure mostruose che li popolano. A mio modo intendo rivisitarle, cercando d'osservare le cose sotto luci nuove.
(Ho cambiato il titolo alla storia, sì che fosse più confacente ai racconti in essa presenti che, come al solito, si scrivono piuttosto autonomamente e non seguono i dettami originali)
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Serpente



Tutto degenera nelle mani dell’uomo. L’uomo costringe una terra a nutrire i prodotti di un’altra, un albero a portare i frutti di un altro albero. Capovolge ogni cosa, sfigura tutto, ama i mostri e le difformità. Non vuole nulla secondo natura, nemmeno l’uomo. Se così non fosse, andrebbe ancora peggio; la nostra specie non vuol essere forgiata a metà.
(J.J. Rousseau, Emilio)


Quando, intorno al 1885, Wilhelm Dörpfeld, già in odore d’onorificenza ma non ancora Professore, iniziò i suoi scavi intorno l’Acropoli di Atene, non immaginava di rinvenire un simile reperto. Egli non era certo uno sprovveduto e l’esperienza accumulata nei trascorsi anni, dapprima ad Olimpia e poi con lo stesso Schliemann presso Hissarlik, gli avevano insegnato che sotto la greve terra possonsi celarsi meraviglie d’ogni sorta. Tuttavia, qualsiasi tesoro mitico in nulla avrebbe rivaleggiato con le reliquie che rinvenne.
Era, per la precisione, il 16 maggio del 1885.  Sulla Grecia gravava ancora il pugno ottomano, benché il clima non fosse dei più sottomessi. Un’ondata di patriottismo, soffio identitario d’una nazione antica come l’Occidente, invase la popolazione su tutti gli strati. Ciò donò linfa e sostegno all’affamata archeologia, pronta anch’ella a rinvigorire il proprio spirito poco avvezzo alla pratica, non ancora scevro dai fantasmi dei passati miti.
Quando Dörpfeld –come detto, non ancora professore- s’accinse a scavare intorno quelli che individuò subito quali i resti dell’Eretteo, il luogo in tutta l’antica Atene più sacro, con grinta e parsimonia, era circondato da pochi e stretti collaboratori. Verso l’ora in cui i buoi si sciolgono dal faticoso lavoro, incendiava il sole l’occaso di baluginii porporini mentre l’oriente già scuro mostrava le prime, timide stelle. Un cielo sì splendente nel dì e nella sera Wilhelm se lo sognava soltanto, nella fredda Germania; per questo a Dio fu dato dagli antichi di quelle terre il nome di Zeus, “splendente”.  
Sbuffando negli impolverati abiti, il Nostro lavorava di spatola e picchetto nella piccola stanza quadrangolare, poco più grande d’un loculo, che più tardi s’identificò quale tempio di Posidone Eretteo. Lì si custodiva, in età dimenticate, la sacra roccia ove il Dio infisse d’un colpo gagliardo il Tridente, facendone scaturire una polla d’acqua salmastra, imbevibile, qual dono agli ateniesi per chiedere i di questi favori. In quella medesima roccia restò impressa l’impronta dell’Arma divina e la fossa in cui l’acqua si raccolse zampillando, a memoria dell’accaduto e venerazione dei posteri... Di tutto ciò, però, non v’era più traccia e nessuna fonte a noi pervenuta, prima e dopo i fatti di questo racconto, ha mai rivelato il destino ultimo di quelle sacre spoglie.  
Fu in quel mentre che, scostando un grosso mattone di calcare evidentemente fuoriposto, s’avvide della presenza d’un foro nel terreno, non più largo d’un capiente bollitore, dai bordi intonsi seppur levigati, palese opera d’uno scalpellino distratto, scavato nella dura roccia giallastra dell’Acropoli.
“Ecco” pensò con rigore scientifico, “una fossa per i sacrifici o uno scolo per l’acqua lustrale”.
Osservò con curiosità il foro, attratto dal vuoto sul quale si spalancava. Il bagliore del giorno morente ormai non bastava ad illuminare la cavità né la lampada accesa che accanto posava al suolo. Sembrava inghiottire ogni luce.
Non seppe mai dire qual forza lo spinse incautamente, cosa lo attirava, che sorta di curiosità s’era accesa nel suo petto e scalpitando l’aveva piegato sul piccolo abisso, costretto a distendere il braccio ed immergere nella fossa avventatamente la mano. Col senno di poi si disse che poteva esservi qualsiasi cosa celata lì dentro, una vipera, per esempio, o un insetto velenoso. Ma sul momento non vi badò affatto.
La curiosità è causa di tutti i mali; non fosse stato per lei, Pandora mai avrebbe aperto il vaso maligno o Ulisse solcato i mari al confine del mondo trovando la morte, né Eva assaggiato il frutto ferale del bene e del male.
Dörpfeld trasse fuori dal quel buco oscuro poche tavolette d’argilla, alcune spezzate, altre integre ma delicate come cristalli. (Il tempo è impietoso con tutto; Crono divorò la sua stessa progenie e non n’ebbe rimorso). Su ciascuna spiccava fitta un’iscrizione in caratteri greci dall’aspetto arcaico, risalenti ai primordi di quella lingua, madre di splendidi discorsi. Mosso da quel medesimo spirito che l’aveva condotto al ritrovamento, Wilhelm con naturalezza e gesto rapido fece scorrere le tavolette dentro la bisaccia che portava seco, attento che nessuno lo notasse. E poi, con nonchalance, comunicò ai collaboratori ch’era giunta l’ora del riposo; avrebbero ripreso i lavori la mattina seguente.
Tutti si dileguarono rapidi come il fumo scosso dal vento, tutti diretti ai propri alloggi, tutti carichi di stanchezza e sonno, eccetto Dörpfeld. Egli stringeva con fare spasmodico la bisaccia, accarezzandola di quando in quando, lungo il tragitto che lo portava in albergo. Dentro di sé esultava, sentiva d’aver trovato qualcosa di straordinario.
Non perse tempo prima d’esaminarle, con mani tremanti e fiato corto; ogni qualvolta estraeva una tavoletta (una ad una con saporita lentezza) il cuore veniva meno d’un battito. Le dispose avanti a sé, sul tavolinetto; non sapeva quale cominciare a leggere, doveva per prima cosa intuire l’ordine corretto e quali frammenti mancavano e quali con altri s’appaiavano.
Questo fu un lavoro difficile.
Gli toccava tradurre almeno le prime due righe e le ultime due per poter comprendere, e non era facile, vista e considerata l’arcaicità del linguaggio e la scarsa leggibilità delle incisioni, quali tavolette fra loro si legavano. Ma tant’è, alla fine riuscì nell’intento di metterne in fila tre parti.
E qui accadde la prima delle cose incredibili che circondarono questa scoperta.
Perdonate l’imbarazzo in cui il Biografo di tale storia incorre; fate conto che siate voi al suo posto. Se sapeste quel che egli conosce, certamente qualche remora ve la porreste prima di narrare quanto è dovuto, anzi, probabilmente rifiutereste di credervi, scambiando il tutto per buffonerie fuoriposto. Ahilui, il nostro caro Biografo non per sentito dire o dopo aver letto apprese i fatti, bensì conobbe in anni giovanili il professor Dörpfled medesimo ed assistette –sebbene non agli accadimenti in oggetto- a quel che vi seguì e che non poteva confermare nulla di diverso se non questo resoconto, raccolto dalla bocca stessa del Professore in punto di morte.  
Quella notte, il professore in nuce, per quanto vi provasse sforzando occhi e neuroni, non riuscì a tradurre alcunché. Sapeva che non v’era nulla di complesso in quelle frasi e chiunque masticasse il greco poteva capirne l’argomento principale… e tuttavia ogni parola sembrava letteralmente sfuggirgli dal cervello. Appena credeva d’aver capito, subito dimenticava qualche regola o qualche significato o la traduzione dei passi stessi, e sembrava che quelle lettere antiche si prendessero malignamente gioco di lui ruotando e scambiandosi di posto. Solo la prima frase, incompleta giacché una frattura n’aveva sbriciolato il margine restante, riuscì a tradurre con ferma certezza. Due parole e una mezza: Ἐγώ εἰμί Κέ
Per ore vi lavorò senza arrivare da alcuna parte. Fu sull’orlo d’urlare per la frustrazione quando decise che, probabilmente, questa misteriosa dislessia (tale la considerò) doveva esser figlia della stanchezza.  
Abbandonò sullo scrittoio le tavolette d’argilla preferendovi –finalmente- l’abbraccio più morbido del cuscino. Toccò il materasso con languido piacere, lasciando che il peso d’una giornata non priva di fatiche fisiche e mentali scivolasse lungo gli arti spossati con un brivido. Il più profondo sopore di cui mai ebbe memoria lo colse immantinente, e nel lasso breve d’uno sbatter d’ali già aveva ceduto armi e scudo (o nel suo caso spatola e picchetto) a Morfeo.
Ed ecco il momento che tanto si teme a narrare poiché avvenuto nel mondo onirico –se non eccessivo peso ontologico vogliamo dare alla famosa frase di Shakespeare “siamo fatti della stessa sostanza dei sogni” traducendo così le nostre vite in effimeri artifizi della fantasia di qualche celeste divinità o della nostra mente- e non scevro è da dubbi né diverso nella forma dai vaneggiamenti di un folle. Solo un infermo di mente avrebbe mai potuto immaginare simili spettri fargli visita notturna e darvi peso di realtà. E forse Dörpfled era già folle per aver sognato la figura mostruosa e antica d’un essere metà uomo e metà serpente.
Si cruccia il Biografo non sapendo bene quale persona usare, se parlar della creatura dicendo “Lui” o un più inumano “Esso/a”. Era o non era umano? Si può definire persona un siffatto scherzo della natura?
Se nell’ermafrodito convivono uomo e donna senza lotta, ciò è dovuta alla natura umana d’ambo i sessi che li accomuna e media fra loro. Ma in questo caso, nulla v’era di simile fra le due metà che, in vero, si mostravan già nell’immagine in perenne discordia; se la parte superiore umana potevasi dir bella, potente nei muscoli slanciati e tonici delle braccia e dell’addome, nel collo poderoso come d’un toro, il viso dal cipiglio severo ma saggio, lo sguardo antico, contornato da folti riccioli neri ed una barba striata di grigio; la parte inferiore era assai orrida alla vista, viscida, e irta di scaglie bitorzolute dal colore del fango. S’attorcigliava su se stessa, non smetteva mai di muoversi e tali erano i giri che compiva da render impossibile stabilirne la lunghezza: in sé una sagoma terribile, un’ombra chissà da quale recesso della mente sorta o dall’Ade richiamata. Quale Dio insano aveva dato vita a quell’abominio, chi era il padre e chi la madre d’una simile aberrazione? Nemici al cielo e al suo santo ordine dovevano essere per concepire una simile sconcezza.
In mano, s’accorse, il mostro reggeva uno specchio dal manico d’osso lavorato; lo teneva basso, quasi nascosto –forse paventava di scorgervi riflessa la propria deformità?-.
Dörpfeld tentò di parlare, ma una misteriosa forza gli teneva avvinte le labbra l’una all’altra. Urlò, si sforzò di rompere quei legami invisibili, ma non vi fu verso. Si sentì mancare e la rabbia montò.  Voleva scagliarsi contro il mostro, sospettando ch’egli fosse la causa di quella malia. Voleva abbatterlo prima che questi a sua volta potesse aggredirlo. Ma nulla di tutto questo realizzò. Non poté: la creatura cominciò a parlare.
«Duplice è la natura umana» dichiarò con voce stranamente dolce per un mostro di tal fatta, «in sé contraddittoria e litigiosa. Campo di battaglia in cui s'oppongono due forze possenti: la prima terrigena che traina verso il basso la misera creatura, e che striscia fra polvere e limo, primitiva, s'aggroviglia in mille spire e mai conosce requie. L'altra è uranica. Tira verso l'alto in moto ascensivo. Non violenta e quieta per carattere, aspira solo all'immobilità, cristallina e gelida. La prima si proietta in avanti, la seconda s'avviticchia al passato. In mezzo, oggetti di lor contesa ed unico giudice, sta il terzo spirito che voi chiamate Anima.
Questa è la composizione dell'Uomo, teso fra l'alto e il basso, fra il moto e la quiete. Come la freccia e la corda di lira, vibra ad ogni scossone pronta al movimento, ma trattenuta. Combattuta, indecisa, contesa e poi sfinita. Tale è la stirpe degli uomini.»
“Anche i mostri, oggigiorno, filosofeggiano”, si trovò a pensare il Nostro. Ma nulla profferì, non potendo emetter sillaba (e s’anche avesse potuto, certo per sé avrebbe trattenuto le parole, temendo d’offendere la creatura).
Il mostro gli rispose.
«Nulla v’è di più filosofico della Verità. Non esiste cosa che più in odio possiede della Verità la filosofia. Chi acquisisce la Verità diviene filosofo. Chi filosofeggia per tutta la vita, dispregerà il Vero preferendo le mere fantasie. Se trovi contraddizione nelle mie parole, dirò che hai vista lunga e udito sottile. Il contrasto genera tutte le cose. La Guerra risiede in tutte le cose. Tale è la stirpe degli uomini.
Se ancora t’agiti e ti domandi se mai ti farò danno, chetati pure. Non sono qui per dolerti. Abbi timore dell’uomo, non dello spettro. Che male può farti quel che più non esiste?»
“Chi è costui che sa leggere gli altrui pensieri?” si chiese stupito Wilhelm Dörpfeld che mai aveva fatto sogni sì strani né mai creduto a simili scempiaggini. “Come conosce le parole della mia mente prima che le esponga?”
Non tardò la risposta.
«Io nulla conosco se non il passato. Un morto non sa niente. Io sono morto.
Quello che dico non viene da me ma dal Dio che ogni cosa comprende. La mia forma è esemplare, la mia bocca profetica, il mio sguardo giudice. Eppure, nulla conosco che non provenga dai Numi, che soli hanno la verità.»
“Perché, spirito mostruoso, invadi i miei sogni?” pensò. Era quello, aveva capito, il solo modo per comunicare con l’uomo-bestia.
«Non io ho scelto te, ma tu m’hai chiamato. Hai aperto la mia tana e detto il mio nome, strappandomi ai Campi d’Asfodelo e alle paludi di Lete. Hai invocato il Sacro Serpente di Atene, l’Oracolo della Vergine che tutti chiamavano Erittonio. Io sono costui e sono più antico di lui; padre di molti re, giudice in divine contese e fondatore dell’illuminata Polis. Altro è il mio nome, che tu ben conosci ed Erittonio è solo la copia.»
E fu allora che Dörpfeld comprese chi aveva innanzi. Un moto di referenza l’atterrì: era lo spirito di quel re antico che sorse dalla terra, figlio di Gaia che mai ebbe padre. Il valente sovrano che civilizzò l’uomo dalla barbarie e che di sapienti popolò il mondo. Amato da Athena e Posidone che, scesi a contesa, l’avevano chiamato giudice di loro stessi. Atene bella ricevette il nome da quell’evento e l’olivo sigillò come segno ai posteri l’accadimento.
Wilhelm lo conosceva.
Riprese il Grande Re a dire: «La mia parola ascolta e accogli. È il messaggio che mando agli alti uomini, io che sono umano più di loro. Le vostre fattezze ingannano; in me si palesa quel che in voi si nasconde.  Non temete la vostra natura, in sé bestiale e razionale. Divina e animale. Siete polvere e fumo sulla pira, erba che cresce sul tumulo putrescente. Tale è la stirpe degli uomini. Quale sono io: Cecrope.
La distinzione è follia, illusione d’un malevole pensiero. È dalla Discordia che sorge l’unione e fu Caos fautore del Cosmo. Come il fango non sarà mai sola acqua o sola terra, ma entrambe nel suo essere mischiate e che da tale mescolanza il fango può dirsi fango, così l’uomo mai sarà sola Bestia o sola Virtù poiché dall’una si ridurrebbe ad animale e dall’altra a Dio, e non più quel che in verità è. Siamo quello che siamo nell’unione delle nostre parti. La distinzione è follia. Chi null’altro vede se non la singola parte è cieco e sciocco, destinato a perire in terribile sorte.
Accostati e osserva, se vuoi vedere il Dio che mi comanda, come io stesso lo vidi, com’è per quel che è. Vieni e osserva nel mio specchio.»
Quando il Professore narrò siffatti avvenimenti ormai giunto nell’ora estrema, si dice c’ebbe un eccesso di tosse ed un forte sussulto, come d’attacco epilettico di cui le cause restano oggi ignote. Tuttavia a colpire grandemente gli astanti fu il suo viso ricolmo di stupore come se proprio in quel momento stesse tornando a scrutare nella fredda superficie dello specchio di Cecrope.
«Io sono l’immagine e simbolo.» diceva l’enigmatico Serpente, novella Sfinge.
Ancora una volta un rettile donò all’uomo la Conoscenza di sé, e se il primo con la forcuta lingua saettante spaccò il mondo a metà, in Bene e Male; il secondo lo ricompattò.
E Wilhelm Dörpfeld vide nello specchio il suo volto, e quello di suo padre, quello della madre, della moglie, dei figli futuri. Vide i volti dei suoi assistenti. Tutti confusi al proprio che mutava e mai stava fermo, dall’uno all’altro passando senz’ordine. E divenne fiera, leone, aquila, balena. Fu albero e sasso, fiume e rosa. Fu drago e fu Cecrope. Fu tutto e fu nulla.
«Tale è la stirpe degli uomini. Tale sono io. Questi sei tu. Questi è il Dio.»
E sull’eco di quelle parole, l’archeologo si ridestò.
Si dice –voce non confermata dal protagonista- che a quel punto, come un pazzo, si precipitò fuori dal suo alloggio e correndo raggiunse la vetta dell’Acropoli; chi lo incontrò, confermò lo sconvolgimento sul suo viso e lo sguardo da folle, iniettato di sangue, che possedeva.
Nulla di tutto questo è stato detto da Dörpfeld. Non smentì né confermò.
Rivelò soltanto d’essersi improvvisamente trovato accanto ai resti dell’Eretteo, dal lato del loggione decorato con figure di donna soprannominate Cariatidi.
Ai suoi piedi, una buca fresca d’escavazione e lì, in bella mostra, delle vecchie ossa semipietrificate, ancora sporche di terra e detriti. Era lo scheletro evidente d’un uomo di statura enorme, vigoroso e possente; un uomo vissuto qualche migliaio di anni prima.
In ciò il gentile lettore non vi potrebbe trovare nulla di strano, se non fosse che quello scheletro non possedeva gambe, ma una lunga fila di vertebre si dipartiva dal bacino, quasi continuazione dell’osso sacro, più simile alle ossa molli d’un grosso serpente. Era quella la tomba dello spettro che l’aveva visitato. Era quella la dimora del riposo ultimo e quello lo scheletro del re Cecrope, il Serpente Sacro.
                                                                                                Ἐγώ εἰμί Κέκροψ


Conclusione.
Di quelle ossa non si seppe più nulla. Si dice che il Professore le celò assieme alle tavolette d’argilla in qualche magazzino segreto dell’Istituto Archeologico Tedesco di Atene, cui fu secondo segretario dopo i lavori nell’Acropoli. Taluni dicono che, preso dall’orrore, distrusse i ritrovamenti quella notte stessa.
Il professor Dörpfeld continuò il proprio mestiere di archeologo raggiungendo fama internazionale e, successivamente, passando alla storia egli stesso come fondatore del metodo scientifico archeologico. Mai fece parola di quanto accaduto, se non in punto di morte. Si spense, tuttavia, con serenità, sebbene l’ombra di quella notte ne offuscasse sempre una parte del viso.


   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Epico / Vai alla pagina dell'autore: silencio