CAPITOLO 5
Il giorno appena successivo Agamennone convocò il consiglio
degli anziani, dopodiché chiamò tutti gli Achei
in
assemblea.
Era una mattina fresca e arieggiata, le nuvole nell'alto dei cieli
erano continuamente plasmate e rimodellate dal vento. Mi chiesi se Eolo
si stesse divertendo a modulare le loro forme come più gli
piaceva.
Osservavo, ferma sulla riva del mare, le miriadi di soldati che
camminavano verso il centro dell'accampamento, chiedendosi l'un l'altro
cosa mai avesse spinto Agamennone a convocarli. La maggior parte di
loro, probabilmente, non aveva mai visto il volto del loro comandante.
Achille, come mi aspettavo, non si presentò.
"Salute, mia dea", esclamò qualcuno alla mia sinistra. Non
ebbi
bisogno di voltarmi per capire a chi apparteneva quella voce.
"Salute a te, figlio di Laerte".
"Questa assemblea non mi convince", affermò Odisseo.
"Perché mai Agamennone dovrebbe convocarci tutti solo per
organizzare un attacco? Non si è mai visto nulla di simile.
C'è sotto qualcosa, lo sento".
"Sono d'accordo con te", risposi. L'assemblea generale non
convinceva nemmeno me. Quale diavoleria si sarebbe inventato
Agamennone, questa volta? "Restami vicino durante l'adunata. Sono
sicura che ci sarà bisogno della tua famosa astuzia".
Odisseo aveva fatto bene a sospettare di Agamennone. Il generale,
infatti, aveva chiamato l'intero esercito per mettere alla prova la
fedeltà dei suoi soldati. Fece loro credere che la guerra
fosse
finita, che avrebbero potuto tornarsene alle loro case. Nessuno di loro
stava combattendo quella guerra per interessi personali o per servire
qualcuno a cui erano devoti: tutti quanti corsero verso le navi,
impazienti di lasciare quell'inferno. Per un momento, Odisseo
fissò la folla in corsa spaventato, impotente. Per fortuna,
fu
solo un attimo.
"Forza, Odisseo", lo incitai. "A te daranno ascolto. Fermali!".
Non ci fu bisogno di Agamennone e degli anziani: Odisseo seppe fermare
la folla con le sole proprie parole. Nemmeno il mio aiuto
fu necessario. Osservai quell'uomo, incredula: giovane ma scaltro e
pronto a tutto, capace di compiere con le parole quanto i
più
non riescono a portare a termine con la spada. Già altre
volte
il re di Itaca si era distinto fra i suoi compagni, ma mai quanto quel
giorno. Una volta calmata l'onda furiosa degli Achei, Odisseo fu capace
anche di stroncare le lamentele di uno sgradevole soldato di nome
Tersite, famoso nell'esercito per il suo cattivo carattere.
Sorrisi: qualche soldato dotato di buon senso era rimasto.
Quasi a farlo apposta, voltandomi verso il mare potei vedere Achille
che osservava la scena da lontano, seduto su un gruppo di scogli
percossi dalle onde. Riuscivo a scorgere i dettagli del suo viso:
guardava nella direzione mia e di Odisseo con un'espressione di
indefinibile serietà.
I giorni successivi passarono come in uno strano sogno di attesa. Ero
diventata la consigliera di guerra di Odisseo: lo aiutavo in ogni
scontro, e parlare con lui era sempre interessante. Vedere come la
mente di un mortale potesse escogitare piani come i suoi mi
affascinava. Era un uomo serio e responsabile, che dava tutto se stesso
all'esercito e alla buona riuscita della spedizione. Tuttavia, non
passava un giorno senza che mi parlasse della sua patria, la rocciosa
Itaca, di suo figlio Telemaco e di sua moglie. Si chiamava Penelope, ed
era la cugina di Elena di Troia.
"E tu hai preferito Penelope a sua cugina?", gli chiesi la prima volta
che mi parlò di lei. "La donna più bella del
mondo?".
Odisseo sorrise:
"Elena sarà anche la donna più bella del mondo.
Ma Penelope è la donna più bella del mio mondo.
Elena avrà i capelli d'oro, gli occhi verdi e il corpo
simile a
quello di Afrodite, ma non vedo in lei la luce di Penelope. Potrei
avere mille altre donne durante la mia vita, ma nessuna di queste
potrebbe competere con Penelope, anche se più belle di lei".
Da un uomo saggio come lui non avrei potuto aspettarmi altro che una
risposta simile, e ne fui profondamente felice. Fui felice per
Penelope, compagna di vita di un uomo intelligente e saggio, e fui
felice per loro figlio Telemaco.
Cercavo sempre di non guardare nella direzione delle tende dei
Mirmidoni, e se possibile ne stavo alla larga. Ma qualche volta, solo
qualche volta, mi lasciavo prendere dalla debolezza. Allora mi
sollevavo in alto nel cielo, con le mie ali da civetta, e passavo in
volo sopra l'accampamento di Achille.
Capitava che non lo vedessi da nessuna parte, e allora tornavo
indietro. Altre volte, invece, lo vedevo giocare al lancio del disco
con Patroclo, e una parte di me sorrideva alla vista dei due cugini e
del profondo affetto che li legava, un affetto che probabilmente andava
oltre l'amicizia.
Infine, c'erano le volte in cui Achille sedeva da solo in riva al mare,
e allora mi fermavo a volare in cerchio sopra di lui, cercando di non
farmi vedere.
Scrutava sempre l'orizzonte. Forse pensava a sua madre Teti, ninfa
marina. Forse pensava ai suoi compagni che, nel frattempo, stavano
combattendo. Forse sperava, preoccupato, che non succedesse nulla a
Patroclo mentre lui non c'era. Avrei potuto ascoltare i suoi pensieri
se lo avessi voluto, ma non lo facevo mai. Vedevo la cosa come una
mancanza di rispetto, non sarei mai entrata nella testa di nessuno.
Forse, mi ritrovavo ogni volta a sperare, stava pensando alla dea
Atena, che si era dichiarata delusa da lui. E allora venivo assalita da
un moto di tristezza mista ad indignazione: se solo fosse stato
responsabile e saggio come Odisseo, invece che capriccioso e volubile.
La sua impulsività gli avrebbe portato
solo danni nella sua breve vita.
Ogni volta, appena arrivavo a questo punto di pensieri, Achille
sollevava la testa di scatto e mi notava, come se l'avessi chiamato.
Non c'erano mai parole tra di noi, ma lui ogni volta capiva che ero
lì, e che - stavo quasi imparando ad ammetterlo a me stessa
-
non ero preoccupata solo per la sorte dell'esercito: ero preoccupata
anche per la sua.
L'altro pensiero ricorrente di quei giorni erano gli altri dei: dopo la
visita di Hera non avevo più avuto contatti con nessun'altra
divinità, e mi chiedevo quando e come li avrei rivisti.
La risposta arrivò il giorno del duello.
Sembrava una battaglia come le altre: ormai non c'era più
tensione fra i soldati, non c'era più paura. Ognuno di loro
aveva assimilato la consapevolezza di poter morire da un momento
all'altro, e questo mi spaventava più di qualsiasi scontro.
Quel giorno, nessuno dei due eserciti accennava a compiere alcuna
mossa: le due fazioni erano schierate l'una di fronte all'altra, ferme. Io, come sempre, ero sul campo
insieme agli Achei.
Ad un tratto, un troiano si
fece avanti, uscendo allo scoperto di
fronte agli avversari. Era giovane e bellissimo, gli occhi neri grandi
ed
espressivi come quelli di un cerbiatto. Sembrava ancora più
un
ragazzino che un uomo, e le sue membra perfette erano ricoperte, oltre
che dall'armatura, da una pelle di leopardo.
Paride.
Un mormorio indistinto percorse l'intero esercito acheo. Lanciai
un'occhiata in direzione di Menelao, che stava nelle prime linee sul
suo carro, poco lontano da me. Al contrario del fratello, lo vedevo
sempre combattere. Forse, era l'unico che ancora credeva in quella
spedizione. Alcune ciocche di capelli biondi che gli uscivano dall'elmo
rilucevano al sole, e teneva lo sguardo fisso su Paride, le
sopracciglia agrottate. Lui sì che, al contrario del principe
avversario, aveva l'aspetto di un uomo.
"Chi ne ha il coraggio", esordì Paride, cercando di fare la
voce
grossa, "si faccia avanti e venga a combattere. Io sono il principe
Paride, io vi ho rubato Elena! Se potete, venite a punirmi!".
Percepii un forte tremito nella sua voce. Intenzioni buone, ma mancanza
di coraggio. Mi domandai dopo quanto tempo sarebbe fuggito a gambe
levate. Odisseo, accanto a me, sembrava starsi chiedendo le stesse cose.
Menelao invece non se lo fece ripetere due volte: immediatamente
balzò
a terra e corse verso il suo rivale con la velocità e la
ferocia
di un leone all'attacco. Paride, che probabilmente tutto si sarebbe
aspettato fuorché questo, spalancò gli occhi e,
con
un'espressione di terrore, scappò verso il suo esercito fino
a
raggiungere suo fratello Ettore in prima linea. Menelao si
fermò, furioso, e gli Achei si guardarono l'un l'altro con
incredulità. Io, invece, non ero affatto sorpresa.
Ettore rimproverò duramente il fratello con aspre parole.
Lui,
sì, che aveva tutto l'aspetto di un principe. Non doveva
avere
molti anni in più del fratello, ma fra i due sembrava quasi
intercorrere un'intera generazione. Vidi
Paride annuire più volte, e alla fine annunciò
che
avrebbe combattuto in duello contro Menelao: chi avrebbe vinto si
sarebbe preso Elena, e la vittoria sarebbe stata sua.
Dubitavo fortemente che le cose sarebbero andate come Paride aveva
appena annunciato. Nonostante entrambi gli eserciti fossero
visibilmente entusiasti della decisione presa - tutti avrebbero
finalmente potuto tornare a casa dalle loro famiglie - a me sembrava
tutto troppo... facile. Scontato. Troppo veloce. Qualcosa non sarebbe
andato secondo i piani, e io lo sapevo.
Il duello ebbe inizio. Menelao, a causa della sua
impulsività, in
breve rimase disarmato: la sua asta era conficcata nello scudo di
Paride, la spada frantumata nel tentativo di rompergli l'elmo. Il re di
Sparta, però, non si diede per vinto: come una furia si
avventò su Paride e lo prese per l'elmo, tirandolo a
sé
fino quasi a strozzarlo. Era molto più grande e muscoloso
del
giovane avversario, e riuscì a trascinarlo a forza verso
l'esercito
Acheo, mentre i Troiani osservavano la scena con gli occhi sbarrati.
Ettore in particolare aveva la bocca semiaperta e un'espressione di
totale disperazione e smarrimento sul volto.
Improvvisamente una figura bianca ed eterea arrivò volando,
luminosa come una cometa. Conoscevo quel fulgore, conoscevo quella
grazia: Afrodite. Fu improvvisa, velocissima: prima ancora che mi
rendessi conto della situazione aveva slacciato la cinghia dell'elmo di
Paride, facendo cadere a terra il principe e lasciando in
mano a Menelao l'elmo vuoto. Afrodite avvolse Paride in una nuvola di
nebbia
che si dissolse dopo un attimo: il figlio di Priamo era sparito.
Menelao si guardava intorno senza capire. Lui non poteva vederla: era
alta nel cielo, bianca e luminosa, i capelli d'oro
a circondarle il viso su cui era stampata una decisa ed irritante
espressione di sfida. E i suoi occhi guardavano esattamente nella mia
direzione.
"Atena, era da tanti giorni che non ti vedevo", esclamò, un
sopracciglio alzato. "Nostro padre ti ha forse proibito di tornare?".
"Paride è fuggito e Menelao ha vinto", diceva nel frattempo
Agamennone. "Rendetegli Elena e le sue ricchezze!".
"Che cosa hai fatto?!", gridai volando alta verso di lei. "Disgraziata!
Hai interrotto un duello!".
"Così voleva il Fato", rispose lei in tutta calma,
sorridendo. Nessun soldato poteva più vederci.
"Storie! Sei stata tu a volerlo! Sapevi che Paride sarebbe stato
sconfitto!".
"Ora i tuoi Greci hanno avuto la loro vittoria, non sei contenta?".
"Sai benissimo che non è così! Ora uno dei due
eserciti
attaccherà l'altro e la sconfitta di Troia sarà
ancora
rimandata! Lo sai fin troppo bene!".
Proprio in quel momento un grido di Menelao richiamò la mia
attenzione sull'esercito. Una freccia troiana l'aveva colpito alla
gamba. Il silenzio più totale piombò sui due
eserciti.
"Certo che lo so". Afrodite sorrise di nuovo. "Buona battaglia, Atena!".
Ritornai in picchiata sul campo. Scoppiò il
pandemonio. Avevo avuto ragione a
sospettare: eravamo
di nuovo immersi nell'ennesimo scontro cruento. Avevo perso di vista
Odisseo, ma ero sicura che il re di Itaca sarebbe stato capace di
cavarsela da solo. Come ogni volta che mi
trovavo in un combattimento, smisi di ragionare e lasciai che fosse la
Guerra a guidarmi, con i suoi clangori e i suoi scintillii di armature.
Vidi Diomede che, veloce, mi si avvicinava con il suo carro maestoso.
D'istinto, con un balzo vi fui sopra. Gli occhi mi lacrimavano per la
polvere e per il vento, i cavalli correvano veloci come i fulmini di
mio padre Zeus.
"Sei tu, mia signora?", mi urlò Diomede in mezzo al fragore,
guardando fisso verso la mischia davanti a sé. "Atena
Glaucopide?".
Mi affiancai a lui e per tutta risposta gli corressi la posizione del
braccio prima che lanciasse l'asta, aiutandolo a colpire un arcere
troiano che mirava proprio a lui.
Vedemmo in lontananza Afrodite, e feci in cenno a Diomede con la testa.
Il figlio di Tideo ordinò all'auriga di
dirigersi in quella direzione. Non
aspettai che prendesse un'altra asta: senza pensarci gli misi in mano
la mia, forgiata personalmente da Efesto, d'oro e avorio. Di nuovo gli
sostenni il braccio e glie lo portai all'altezza giusta. Non
all'altezza per uccidere, no, ma a quella per ferire.
Diomede scagliò l'asta e colpì di striscio
Afrodite,
che emise un grido di dolore e immediatamente si
voltò a
guardarmi negli occhi. Aveva un taglio
sul braccio, non profondo ma lungo, che sanguinava.
"Questo Zeus lo saprà", mi gridò la dea
dell'Amore, una
luce negli occhi che non potrei mai dimenticare. "E tu davvero non
rivedrai mai
più l'Olimpo! Mai più!".
Come se questo avesse fatto qualche differenza, pensai con rabia: ero già
stata condannata a non vedere più la mia casa! Afrodite mi
guardò in silenzio per un altro secondo come un animale
ferito,
poi svanì in una nuvola simile a quella con cui aveva fatto
scomparire Paride, e io cercai di tornare nell'irrazionalità
della mischia. Non volevo ritrovarmi ad affrontare il fatto che avevo
appena indirettamente colpito Afrodite. Non volevo ricordare i suoi
occhi e la loro espressione tradita, non volevo sentire la colpa, non
in quel momento.
La Guerra si impossessò definitivamente di me, impedendomi
di
provare qualsiasi sentimento. Ero diventata l'anima stessa della
battaglia, la mente di ogni attacco, la legge fisica dietro ogni
lancio. Ero diventata la strategia,
una strategia che parlava chiaro: mettere fuori gioco chiunque aiutasse
i nemici. Non avevo più un corpo, ero solo uno spirito
iridescente e impetuoso, ponto a compiere il suo dovere.
Mi infilai nel corpo dell'auriga e guidai il carro di Diomede
attraverso la confusione, il sangue e le punte acuminate. Una violenza
soprannaturale regnava sulla battaglia: Ares combatteva con i Troiani.
Lo vidi da lontano, imponente e violento, sterminare chiunque gli si
trovasse davanti. Dietro di lui combatteva Apollo. Immediatamente feci
galoppare i cavalli nella loro direzione, con tanta foga che il carro
quasi si ribaltò. Tutto era sempre più veloce,
più
forte, più vicino. Diomede si reggeva in piedi in perfetto
equilibrio, tenendo l'asta in posizione di lancio.
Il dio della Lotta mi riconobbe, e vidi i suoi occhi scintillare di un
rosso cupo da sotto l'elmo.
Fu una frazione di secondo.
"Lancia!", gridai con tutte le mie forze, e un attimo dopo l'arma di
Diomede aveva scalfito la pelle di Ares, facendolo sanguinare
esattamente come Afrodite. Diomede aveva preso un'altra
lancia e l'aveva già sollevata, pronto a scagliarla verso
Apollo, ma il dio del Sole fuggì.
Lo vidi prendere il volo e scappare verso l'alto, e ben presto la sua
capigliatura dorata diventò tutt'uno con l'astro nascente.
La furia di Diomede cessò quando si trovò di
fronte a
Glauco, un guerriero troiano a lui legato da antichi vincoli di
ospitalità. L'eroe smise di combattere, e con la sua furia
svanì anche il mio ardore di guerra, e tornai me stessa.
Diomede
non aveva più bisogno del mio aiuto, così presi
il volo e
sorvolai la battaglia, cercando con gli occhi qualche acheo in
difficoltà da soccorrere. Davanti a me si ergeva Troia in
tutta
la sua magnificenza, una città che tendeva verso l'alto e
culminava con lo splendente palazzo di Priamo, come la vetta innevata
di un monte.
E ora, invece,
è annerito e mangiato dal tempo, abitato solo dalle anime
dell'antica polvere.
I
miei occhi furono
attirati da due figure alla base della città, alle porte
Scee.
Socchiusi le palpebre: erano un uomo e una donna, ed ero più
che
certa che l'uomo fosse Ettore, il valoroso principe troiano.
Incuriosita, mi feci trasportare dal vento verso le porte, e ben presto
piume di civetta mi ricoprirono le braccia. Riuscivo ancora a vedere la
battaglia, ma un'immensa curiosità mi spingeva verso le
porte Scee.
In breve mi ritrovai a volare sopra gli enormi battenti storti di
Troia. Ettore parlava con una bellissima donna dai lunghi ricci castani
che il vento gonfiava. In braccio alla madre stava un neonato che si
guardava intorno sbigottito, senza capire dove fosse capitato.
"Se tu muori, di me non resterà che polvere!", diceva la
donna,
piangendo. "Tu sei per me sei
sia il padre che la madre, sei i miei fratelli e il mio sposo, e sei il
padre di mio figlio".
Ettore sospirò. Non vidi lacrime sulle sue guance, ma dentro
di sé quell'uomo era frantumato dal dolore, e una parte di
lui urlava in silenzio.
"Andromaca, sai che non voglio per nostro figlio il destino di un
orfano. Ma, se non andassi a combattere, non potrei più
ripresentarmi come principe di Troia: chiunque, vedendomi, riderebbe di
me e della mia vigliaccheria". Parole che mi sembrava di avere
già sentito. "So bene che Ilio cadrà, e non posso
accettare l'idea che tu diventerai la schiava di qualche acheo". A
questo punto Andromaca cominciò a singhiozzare. "Quindi,
spero
di essere morto prima che questo accada, non potrei sopportarlo".
Ettore si avvicinò al figlio per prenderlo in
braccio, ma
il piccolo si ritrasse con un gemito di paura. Il padre sorrise e si
tolse
l'elmo, e questa volta suo figlio lo riconobbe. Con il neonato in
braccio, Ettore dedicò una preghiera a Zeus sotto la luce
accecante di
quel sole, poi rivolse alla moglie l'ultimo saluto:
"Non ti affliggere: se morirò, sarà
perché il Fato vuole così".
Si guardarono negli occhi per un istante lungo decenni, e probabilmente
si raccontarono in uno sguardo quanto non erano riusciti a dirsi in
anni e anni. Infine, Ettore diede un bacio al figlio, lo rimise in
braccio alla moglie e si allontanò verso la
battaglia, lasciando Andromaca nella disperazione. Una disperazione
ormai priva di speranza.
Andromaca rimase ferma a guardare il marito che si allontanava, le
vesti mosse dal vento, infine rientrò a passo lento in
città e sulla soglia delle Scee non
rimase più nessuno. Ero sola con il sole e il vento.
Ero profondamente colpita. Il silenzioso grido di dolore di Ettore mi
rimbombava ancora in testa. Avevo visto negli occhi suoi e di Andromaca
una luce che io non
avevo mai realmente sperimentato. Avevo percepito nelle loro voci una
nota diversa. Non ero mai stata come Artemide, che volutamente aveva
sempre rifiutato ogni forma di amore, corporale o spirituale. Io,
semplicemente, non me ne ero mai interessata. Avevo sempre avuto
pensieri più urgenti. Avevo passato i miei anni scrutando le
profondità dei cieli notturni e scoprendo nuove saggezze
nelle
leggi fisiche che governano il moto dei pianeti. Avevo sperimentato
livelli di astrazione superiori, avevo affinato i miei sensi. Non mi
ero mai innamorata, ma non avevo mai sentito la mancanza di un
sentimento del genere. Non l'avevo ripudiato, non l'avevo cercato.
Qualcuno l'aveva cercato in me, ma evitavo sempre di pensare a quel
giorno, o meglio, quella notte.
Le poche parole che i due amanti si erano scambiati avevano portato con
loro, oltre alla malincionia, dei pensieri che avevano
cominciato
a martellarmi la testa. Pensieri sconosciuti ma, lo sapevo, infidi.
Pericolosi. Se avessi abbassato la guardia, si sarebbero insinuati
nella mia mente, e questo non doveva assolutamente accadere.
Mi voltai nuovamente verso la piana della battaglia, in modo da non
vedere più le Scee. Mano a mano che planavo verso i soldati
in
guerra riacquistavo la mia forma umana, e quando toccai terra ero di
nuovo una giovane donna dagli occhi azzurri, armata e pronta a
combattere.
Come ogni giorno, all'imbrunire venne sancita la tregua, e iniziarono i
rituali di sepoltura per i morti.
Le pire ardevano in lontananza, tingendo d'arancio il cielo color
pervinca del tramonto. I loro fumi si fondevano con le nuvole,
amalgamando il colore del sole e quello dei fuochi. Il mare rifletteva
le tinte, increspandole e facendole risplendere. Se non avessi
conosciuto
la morte e la desolazione che accompagnavano quei colori, avrei detto
che era uno spettacolo meraviglioso.
Tirava una brezza leggermente pungente, tipica delle prime sere
d'estate: di giorno il sole arde e scalda, ma appena il carro dorato
sparisce oltre l'orizzonte, la sera raffredda improvvisamente il mondo,
facendolo respirare.
Camminavo sul bagnasciuga, osservando l'accampamento poco
lontano. Non passò molto tempo prima che mi ritrovassi
davanti
alle tende dei Mirmidoni. Non mi nascondevo più. In una sola
giornata avevo vissuto anni e
anni, e forse tutto quello che mi serviva era parlare con
qualcuno. Non con l'ardore di Diomede o con la macchinosa astuzia di
Odiesso: avevo bisogno di umanità, pura e difettosa
umanità.
Achille, come mi aspettavo, era seduto in riva al mare, lo sguardo
fisso verso l'esplosione del tramonto. Lo raggiunsi lentamente e mi
sedetti accanto a lui, sulla sabbia grezza della costa di Troia.
"Atena Glaucopide", disse Achille, spostando lo sguardo su di me.
"Achille Pelide", risposi.
Poi, entrambi tornammo a concentrarci sulle violente pennellate del
tramonto miste al fumo delle pire. Colori che riflettevano lo scontro
di poco prima.
"Sono passati giorni dall'ultima volta che abbiamo parlato",
constatò.
"Per questo sono qui, figlio di Peleo".
Lo udii sogghignare piano, poi parlò:
"Mi dispiace, mia signora, ma non ho cambiato idea riguardo
all'argomento delle nostre ultime discussioni".
"La mia intenzione non era di parlare di questo, infatti".
"Allora a cosa devo l'onore della tua visita, mia signora?".
Sospirai. "A volte bisogna raccontare, parlare".
"Mi trovi d'accordo".
"Oggi in battaglia ho colpito Afrodite", cominciai, e le parole mi
uscirono incontrollate come un fiume in piena. Achille si
voltò
a guardarmi incuriosito, le sopracciglia agrottate. "E Ares. E ho messo
in fuga Apollo. In realtà è stato Diomede figlio
di Tideo
a colpirli, ma io guidavo il suo carro. Io. Anche se siamo sempre state
opposte, Afrodite è come una sorella per me. In pochi giorni
mi
sono resi nemici quasi tutti gli dei, quelli che avevo sempre
considerato la mia famiglia. Solo Hera è rimasta dalla mia
parte. Mi
chiedo se rivedrò mai più l'Olimpo, se mio padre
mi
riaccoglierà mai. Vorrei poter tornare da tutti loro, anche
solo
una volta. Nella mia vita ho avuto contrasti con molte
divinità,
ma ora è come se nulla di questo importasse più.
Al tempo
stesso, però, non posso abbandonare il campo di battaglia.
Ho
promesso che vi avrei aiutati, e il mio ruolo, il mio dovere
è
questo. Ma non smetto di farmi domande. Poco fa ho visto il Principe
Ettore dire addio a sua moglie prima della battaglia, e ho capito che
c'è qualcosa che mi manca. Non saprei spiegarlo.
C'è
qualcosa che non ho mai conosciuto, e che ho bisogno di conoscere.
Davvero l'amore è così importante?". Feci una
pausa.
"Ti porgo le mie scuse, figlio di Peleo. Non avrei dovuto dirti tutto
questo. So che non è proprio
di una divinità parlare
così di se stessa, ma anche una dea, delle volte, ha bisogno
di
riflettere sulle
proprie azioni. Anzi, io lo faccio piuttosto spesso. Troppo, forse".
"So bene che un dio
riflette esattamente come un essere umano, anzi, molto di
più", mi rispose lui a voce bassa.
"Vorrei farlo anche io. Temo di fermarmi troppo poco a pensare. Ho il
dubbio di stare
sbagliando. Negli ultimi giorni ho cercato di dedicarmi al pensiero
più che a ogni altra cosa, ma ogni riflessione mi riportava
sempre, inesorabilmente alla guerra". Scosse la testa. "Hai chiesto se
l'amore è davvero così importante, figlia di
Zeus?
Purtroppo non sono la persona più adatta per risponderti. Ho
una
moglie, a Ftia, ma non sono sicuro di amarla. Penso che amare sia una
parola molto complicata, e forse è meglio non usarla mai.
Prendi
Patroclo, mio cugino: l'affetto che nutro per lui è di gran
lunga superiore rispetto a quello che provo per mia moglie, e penso sia
il sentimento più forte che provo. Ma non avrei un nome da
darvi. A me basta che esista. Non so se davvero l'amore
è così necessario, ma non penso che sia una
questione da
porsi. Se si è soddisfatti della propria vita, vuol dire che
la
si sta vivendo nel modo giusto per
se stessi amore o non amore. Ma se si ha la sensazione
che qualcosa manchi, allora la risposta è chiara".
Non seppi rispondere e rimasi in silenzio a guardarlo. Quell'uomo non poteva essere
lo stesso che da giorni aveva deciso di non combattere a causa di un
capriccio. Lo
scrutavo senza dire una parola, e i miei pensieri, poco alla volta e
contro la mia volontà, iniziarono a viaggiare lungo il corso
dei
suoi neuroni. Per la prima volta, alla luce infuocata di quel tramonto,
non vidi l'eroe, non vidi il semidio: vidi la persona. Vidi la
complessità della psiche, vidi i contrasti e le armonie,
l'imperfetta perfezione della mente umana, quello che avevo sperato di
trovare quando mi ero seduta accanto a lui.
Ma subito tornai in me e riacquistai lucidità.
"Ti ho offesa con la mia risposta, mia signora?", chiese Achille
guardandomi negli occhi. "Ti delusa ancora di più di quanto
non abbia già fatto?".
"No", risposi. "No. Niente affatto".
Il tramonto faceva risplendere dei fuochi nell'oceano dei suoi occhi, e
lo rendeva simile ad una rilucente statua di bronzo. Se qualcuno ci
avesse visti dall'esterno avrebbe detto che lui era una
divinità, e io una donna qualsiasi.
"Passa una notte tranquilla, Pelide", gli augurai alzandomi. Gli
rivolsi quello che avrebbe potuto assomigliare ad un sorriso timido e
mi allontanai da lui di qualche passo, verso il bosco delle civette.
"Atena Glaucopide!". Al suono della mia voce mi voltai di nuovo a
guardarlo. Aveva sul viso un'espressione preoccupata. "Davvero non ti
ho offesa?".
Questa volta gli rivolsi un sorriso sincero, sincero in ogni
particella, e non ebbi bisogno di rispondergli.
Il bosco mi aspettava. Potevo sentire i richiami delle civette fin
dalla spiaggia, striduli suoni nel buio.
NDA:
La lunghezza di questi capitoli cresce con andamento esponenziale,
aiuto.
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