03 Smacco
A Lione la
luce era a dir poco abbagliante. Spike si pentì amaramente di non
essersi portato gli occhiali da sole e fu costretto a coprirsi gli
occhi blu con la mano destra, mentre con la sinistra si caricava in
spalla lo zaino con quella poca roba che gli sarebbe servita per
sopravvivere in quella città trentasei misere ore. Si guardò
intorno, cercando di interpretare i vari cartelli scritti in
francese: «Dobbiamo trovare un mezzo che ci porti in centro città».
Tyla si
passò una mano in mezzo ai capelli rossicci e si accese una
Marlboro: «Più che trovare un mezzo, bisogna scovare qualcuno, dato
che siamo d'accordo che dobbiamo spendere il meno possibile».
Inforcò gli occhiali da sole ed indicò due ragazze che stavano
caricando delle valigie in macchina: «Loro, per esempio».
Spike
arricciò il naso: «Credo che non sia una grande idea». Tyla lo
fissò stranito da dietro le lenti scure dei Ray Ban, aspirando
deciso dal filtro, in cerca di spiegazioni. «Insomma, metti che Leah
mi vede arrivare sotto il suo appartamento e scendo dalla macchina su
cui ci sono due ragazze, che figura ci faccio?».
Tyla sputò
il fumo ridacchiando e fece cadere a terra il mozzicone della
sigaretta: «La figura di quello che se la sa sbrigare e che sa fare
economia». Fece due passi, poi si voltò a guardare l'amico: «Vuoi
seguirmi oppure preferisci fartela a piedi fino in centro?».
Spike
abbassò lo sguardo e seguì lo sventolare ritmico della giacca
indaco dell'amico. Ripensò alla fatica che aveva fatto per
chiedergli di seguirlo in Francia; provava una vergogna infinita, si
sentiva debole e vulnerabile. Eppure, Tyla non aveva esitato ad
accettare.
♫♫♫
Quella
sera lui, Guy e gli altri Quireboys erano entrati al Dark Crimson
Velvet curiosi di vedere se sette mesi in Finlandia fatti di
registrazioni, pubblicazione di un album, un singolo in classifica e
concerti avevano cambiato l'atteggiamento dei loro amici Dogs.
“Secondo te si saranno montati la testa? Saranno cambiati tanto?”.
Spike osservava gli amici discutere fra loro senza spiccicare parola:
penso che se Tyla e gli
altri fossero cambiati, potrei veramente andarmene via sbattendo la
porta. È l'ultima cosa di cui ho bisogno ora.
Nel giro di pochissimo tempo erano già mutate troppe cose, ci
mancava solo che, oltre a Leah, anche Tyla si fosse allontanato da
lui. Possibile
che, quando tutto sembra andare perfettamente, sempre ed
immancabilmente, qualcosa debba incrinarsi o rompersi in modo
irrimediabile? Non sarebbe tutto più facile se ciò che ci fa star
bene fosse “immobile”? Sospirò
senza farsi sentire, percependo i propri occhi farsi più umidi; alzò
lo sguardo e si trovò di fronte all'ingresso del pub. Vide uno dopo
l'altro Guy, Chris, Nigel e Cozy entrare nel velluto cremisi e bearsi
dell'atmosfera che quel posto trasmetteva; lui, invece, rimase per un
attimo titubante attaccato al maniglione della porta in noce indeciso
sul da farsi. Si sentiva come il primo giorno di scuola di prima
elementare, quando il cuore gli batteva così forte che stava per
sputarlo in faccia alla maestra ed aveva pregato sua madre di
riportarlo a casa. Poi vide Julie andargli incontro con uno dei suoi
migliori sorrisi: «Ehi Jon, c'è Tyla che ha già chiesto di te.
Dice che vorrebbe fare una bella partita di biliardo come ai vecchi
tempi».
Spike,
un po' più sollevato, decise di dirigersi verso la “Pool room”
del Dark Crimson Velvet, dove poco prima erano entrati gli altri;
come aprì la porta, fu investito dal suono di risate e voci amiche.
Il primo che gli andò incontro fu Bam, che gli mollò una sonora
pacca sulla spalla: «Sempre smilzo come al solito, eh Spike?».
Tipica
frase di Bam;
il ragazzo sorrise e gli restituì il colpo: «Allora Cavernicolo?
Tutto bene?».
In
men che non si dica, Spike fu raggiunto anche da Jo Dog e Steve; ci
furono altri scambi di battute ed il ragazzo, lentamente, iniziò a
sentire la propria tensione sciogliersi. Ma i muscoli gli si
distesero totalmente quando vide una nuvoletta di fumo innalzarsi
verso la lampada centrale; Tyla era seduto sul bordo del tavolo da
biliardo con le gambe a penzoloni ed una bottiglia di whisky stretta
nella mano sinistra. Smise di respirare per un momento quando lo vide
alzarsi ed andare verso di lui. Quando gli arrivò a pochi
centimetri, Tyla alzò la mano destra in cui stringeva la sigaretta;
di riflesso Spike alzò la sua ed i due si scambiarono un cinque che
fece tremare i muri del locale seguito da un potente abbraccio. «Sei
sempre il solito bastardo!» si urlarono a vicenda, scrutandosi come
se fossero millenni che non si vedevano. Passarono tutta la serata
insieme a raccontarsi cosa avevano fatto in quei sette mesi che non
si erano visti, in modo particolare Tyla raccontò delle varie
avventure vissute in mezzo a renne, gelo e ragazze che parlavano una
lingua incomprensibile. Quando suonò la campanella dell'ultimo giro,
i ragazzi si salutarono ed iniziarono ad uscire dal pub; solo Spike
fu trattenuto da Tyla: «Oh, dobbiamo ancora farci la nostra partita.
Tua sorella mi ha detto che se ci tratteniamo qui anche dopo la
chiusura, finchè c'è lei, non ci sono problemi».
Così
i due scelsero le stecche, passarono il gesso sulle punte e
cominciarono la loro partita a Palla 8.
«Allora»
Tyla si accese l'ennesima sigaretta della serata mentre posizionava
le biglie al centro del tavolo «mi sembri un po' teso, Spike».
Il
ragazzo si chinò sulla sponda e spaccò il triangolo: «Si nota
tanto?»
«Abbastanza,
guarda che colpo da femminuccia che hai fatto» Tyla si scostò una
ciocca rossiccia studiando il tappetino verde «vediamo se riesco a
buttare la 2 in buca».
Spike
sospirò ed anche lui si accese una sigaretta: «Sai, non volevo
accennarti il discorso mentre c'erano qui anche tutti gli altri,
avrei rovinato la festa. Però... ho dei problemi con la mia ragazza.
Se n'è andata a Lione».
Tyla
grugnì per il tiro non andato a segno, poi guardò l'amico negli
occhi: «Se non me ne hai mai parlato, significa che con questa ci
esci da poco» fece una pausa per aspirare dal filtro «e se mi dici
che ci sono problemi, anche se non è molto che la vedi, vuol dire
che tu a lei tieni molto e lei non tiene per un cazzo a te».
Spike
sentì il proprio sangue ghiacciarsi; incredibile... anche a Tyla
non piace, pur non avendola mai vista. Possibile che io sia il solo
che vede del bello in lei? Iniziò a tremare per il freddo che
sentiva in sé, ma cercò in tutti i modi di non darlo a vedere. Si
chinò sul tavolo stringendo fra i canini la Lucky Strike e cercò di
deviare i suoi pensieri da Leah verso la biglia numero 10.
«Scommetto
che non vi sentite al telefono da giorni ormai. E tu non puoi
chiamarla perchè sei quasi a bolletta».
Spike
cominciò a sentire sempre più i nervi a fior di pelle mentre gocce
di sudore freddo prendevano ad inumidirgli la bandana legata in
fronte. Tranquillo Spike, tranquillo. Caricò il colpo.
Tyla
continuò il suo discorso con la violenza di un uragano: «Hai paura
che lei abbia un altro?».
Quelle
parole lo colpirono come lame affilate; Spike perse completamente la
concentrazione e strisciò per dieci centimetri la punta della stecca
sul tappetino verde, colpendo di sbieco la biglia.
«Oh,
cazzo! Hai rovinato il tavolo!» aveva starnazzato Tyla come una
gallina, ma Spike sembrò non preoccuparsene minimamente.
Lasciò
la stecca appoggiata alla sponda e con il capo chino si sedette sulla
panca appoggiata alla parete in legno. Fissava l'amico attraverso il
fumo della sigaretta che teneva fra le labbra; aveva un che di
mistico. Tyla riusciva sempre a capirlo facendogli una domanda sola,
secca e diretta. Lo studiò mentre spegneva il mozzicone nel
posacenere con quei capelli un po' castani ed un po' rossicci che si
muovevano rischiarati dalla luce giallastra della lampada centrale.
Spike sospirò, sentendo l'agitazione impadronirsi dei suoi muscoli:
«Tyla...»
«Non
possiamo non dirlo a tua sorella» l'amico scuoteva il capo guardando
il biliardo.
Il
ragazzo alzò gli occhi blu al soffitto: «Lascia perdere il
tappetino, cazzo! Non è fondamentale»; cercò di prendere fiato per
fargli la domanda. Aveva terrore di ottenere un rifiuto.
Ma
proprio mentre avvicinava il filtro alle labbra per infliggere il
colpo di grazia alla paglia al fine di darsi ancora un po' di
coraggio, Tyla gli disse lapidario: «Comunque ci sto, non importa se
dovrò rifare di nuovo le valigie. Fammi sapere quando puoi prenderti
dei giorni di ferie».
♫♫♫
E
così, circa una settimana dopo, erano finiti su quella Citroen, dove
le due ragazze avevano tentato di raccontar loro in un inglese
sgangherato che erano state in vacanza a Dresda per “studiare i
comportamenti dei tedeschi dell'est”. Spike seguiva la
conversazione con il massimo disinteresse, seduto sul sedile
posteriore e guardando fuori dal finestrino il paesaggio scorrere
veloce davanti agli occhi; ogni tanto annuiva o mugolava in segno di
assenso, ma più si avvicinavano al centro, più gli tremavano le
gambe e gli sudavano le mani. Aveva una voglia matta di vedere Leah,
di sentire la sua voce ed assaporare il suo profumo. Alla fine, le
ragazze li lasciarono in una piccola piazza adiacente all'indirizzo
che avevano loro dato e se ne andarono salutandoli con un fazzoletto
arancione.
«Molto,
molto carine» Tyla ammiccò da dietro le lenti scure, agitando
lievemente la mano in aria in direzione dell'auto.
Spike
non gli diede per nulla ascolto; fece scorrere il proprio sguardo
sulle pareti degli edifici che circondavano la piazza, finchè non
intravide il cartello che indicava la via dove si trovava
l'appartamento di Leah. Il numero 54 era situato piuttosto
all'inizio, fra un piccolo bar frequentato da universitari ed un
fiorista. Il ragazzo ripiegò il foglietto e se lo mise nella tasca
dei jeans, studiando le rose che facevano capolino dai vasi enormi
del negozietto.
«Se
vuoi fare una cosa dolce, comprale una rosa rossa» Tyla gli parlava
mentre si accendeva una sigaretta, studiando la facciata del palazzo
«una sola, non tre e nemmeno cinque. È un gesto molto
significativo, fidati».
Spike
abbozzò un sorriso: «Grazie» e setacciò le proprie tasche alla
ricerca di qualche franco da snocciolare al commesso per avere uno di
quei fiori.
Il
ragazzo lo vide rigirarsi fra le mani la rosa e poi aprire il portone
con fare titubante; gli alzò il pollice per rassicurarlo e tirò
l'ultima boccata alla sigaretta, guardandolo sparire su per le scale.
Spike
imboccò la rampa, annusando l'aria stantia e maleodorante di quel
posto rischiarato a malapena da una finestra grande quanto una
feritoia; era così teso che faceva fatica ad alzare le ginocchia per
salire gli scalini. A metà si fermò, cercando di rilassarsi e di
ricordarsi come si faceva a respirare, senza però ottenere risultati
apprezzabili. A che piano sarà l'appartamento? È l'unica
informazione che non c'è scritta sul foglietto. Riprese a salire
in punta di piedi, raggiungendo il primo pianerottolo: Potrei
suonare tutti i campanelli, ma che figura ci pianto? Non so una
parola di francese e...
Proprio
mentre la rosa stava per scivolargli via dai polpastrelli, talmente
erano sudati, una ragazza dai capelli neri, che stava per uscire
dall'appartamento di fronte a lui, lo bloccò: «Mais... tu es
Jean Charles!».
Spike
strabuzzò gli occhi e fissò la rosa rossa: non vorrà mica
rubarmi il fiore questa qui!
«Que
belle fleur!» La ragazza gli sorrideva sinceramente «Tu l'as
acheté pour Leah, c'est ça?».
Il
ragazzo rimase a fissarla con gli occhi fuori dalle orbite; aveva
detto Leah? Sì, con accento smaccatamente francese, ecco perchè
non ci sono arrivato subito. Doveva comunicare con la ragazza,
forse era la sua coinquilina; cercò di cavarsela con il linguaggio
dei gesti e l'unica parola che sapeva di quella lingua straniera:
«Leah... oui, oui»
«Oh,
merveilleux!» la bruna
prese Spike per il polso e lo scaraventò letteralmente dentro
l'appartamento, rischiando di farlo cadere con la faccia a terra
«Elle va arriver en
vingt minutes! Tu peux l'attendre ici!».
Non capiva una sola
parola di ciò che la ragazza gli stava dicendo, però era certo che
lei fosse la coinquilina della sua ragazza, quindi si limitò ad
annuire e a sorridere.
«Alors,
je m'en vais» la bruna
infilò le chiavi nella toppa «bonne
chance, Jean Charles! À bientôt».
Chiuse la porta con decisione e diede due giri di chiave.
Spike,
piuttosto frastornato, si ritrovò solo in una casa che non aveva mai
visto. Fissò per un secondo la rosa rossa che stringeva fra le dita
e poi, in punta di piedi, cominciò a girovagare per l'appartamento;
senza nemmeno farlo apposta, la prima porta che aprì fu proprio la
camera da letto. Nella luce morbida che penetrava dalle tende rosa
appena scostate, due letti sfatti erano posizionati l'uno di fianco
all'altro, separati da un piccolo comodino di legno chiaro. Sulla
moquette regnava il caos più completo: scarpe spaiate erano
accantonate l'una sull'altra, circondate da magliette spiegazzate,
braccialetti ed altra chincaglieria femminile. Spike aggrottò le
sopracciglia: sapeva che Leah non era esattamente ordinata, ma non si
aspettava che fosse così
incasinata. Studiò i
letti e cercò di capire quale fosse quello della sua ragazza; si
guardò le spalle per controllare che non ci fosse nessuno a spiarlo,
poi si chinò sul guanciale del letto di sinistra. Immerse il naso
nella federa e respirò a pieni polmoni; poteva sentire nitidamente
il profumo fruttato dei suoi capelli incastrato nelle fibre di
cotone. Di riflesso il suo cuore cominciò a palpitare; desiderava
incontrarla più di ogni altra cosa ed il fatto di doverla aspettare,
per non si sa quanto tempo, chiuso in quell'appartamento, lo faceva
uscire pazzo. Alzando gli occhi dalla federa, la sua attenzione fu
attirata da una chitarra classica appoggiata malamente al muro:
dev'essere dell'altra
ragazza... disordinata pure lei. Afferrò
lo strumento per il manico e lo studiò: tutto
sommato, ha solo bisogno di un'accordata.
Gli venne voglia di suonare per ammazzare il tempo. Si sedette a
gambe incrociate sul letto di Leah e, posata la rosa accanto a sé,
cominciò a girare le chiavi per tirare le corde. Era così preso a
intonare il sol, che non si accorse nemmeno che qualcuno era
rientrato ed era andato in cucina. Fu un lontano tintinnio di
stoviglie che copriva l'ondeggiare del nylon ad attirare la sua
attenzione; con il fiato sospeso e gli occhi blu spalancati bloccò
con la mano aperta la vibrazione dello strumento e si mise ad
ascoltare. Due voci provenivano dall'altro lato della casa; due voci
allegre. Una è quella di
Leah, ne sono certo.
L'avrebbe riconosciuta fra mille, era impressa a fuoco nella sua
mente. Spike rimise a posto la chitarra e prese la rosa; chiuse gli
occhi ed assaporò quella dolce melodia che ormai da giorni non gli
giungeva più all'orecchio. Era tenera e sensuale, perfino quando
parlava in francese; un
accento quasi perfetto, se non fosse che, ogni tanto, conserva ancora
quella sua tipica inflessione londinese.
Appena giunto in corridoio, però, si bloccò. La seconda voce che
arrivava dalla cucina era più scura e più rotonda; il sangue gli si
ghiacciò in un nanosecondo: un
maschio.
Strinse la rosa più forte, sentendo le spine recise dargli
fastidio alla mano,
ed in punta di piedi fece capolino
dallo stipite. Ciò che vide lo pietrificò: le pupille gli si
dilatarono a dismisura ed i muscoli gli diventarono di legno. Leah,
più bella che mai, era poggiata al lavello mentre stringeva fra le
mani una tazza fumante; i capelli mogano erano legati in uno chignon
disordinato ed i suoi occhi erano calamitati a quelli della persona
che le stava davanti e che le stava stringendo i fianchi. Un
ragazzo.
Un ragazzo completamente diverso da lui: biondo, con le guance rosee
e piene come quelle di un bambino e gli occhi castani. Le stava
parlando pericolosamente vicino al viso. Il primo impulso di Spike fu
quello di prenderlo per le spalle, sbatterlo a terra e gonfiarlo di
botte; ma il suo cervello lo bloccò e gli impose di stare a
guardare. Dopotutto, se quello si stava permettendo di comportarsi in
quel modo con Leah era perchè lei glielo stava concedendo; questo
era il particolare più agghiacciante. Lei non sembrava affatto che
lo stesse respingendo o che fosse infastidita dal fatto che lui la
stesse toccando. Continua
a sorridere e scherza... se solo capissi cosa si stanno dicendo!
Spike
si maledisse infinite volte per non essere mai stato in grado di
prendere una sufficienza in quella merdosa lingua straniera. Più
passavano i secondi e più il suo stomaco si faceva piccolo per il
nervosismo: adesso
mi sente.
Non era nel suo stile fare scenate di gelosia, Julie diceva che lui
era “un esserino gentile e pacato”; però Leah stava concedendo
troppa libertà a quello sconosciuto.
Ma proprio mentre stava per irrompere in cucina ed
iniziare ad urlare, ebbe un capogiro folle nel vedere il biondo
appoggiare le proprie labbra su quelle della ragazza.
Spike
si irrigidì di colpo: ti
prego Leah, spingilo via.
Invece lei sorrise, gli accarezzò il viso e lo baciò a
sua volta, cingendogli il torace con le sue braccia.
Il
ragazzo osservò la scena con gli occhi vacui, poi fece un passo in
avanti, uscendo dalla penombra del corridoio, continuando a stringere
la rosa. Dentro di sé sentiva sempre più prepotente il vuoto
avanzare; il cuore gli pompava lento nel petto, producendo un
frastuono che gli rimbombava violento nella testa. Avanzò ancora di
una falcata, con i muscoli che iniziavano a tremargli vistosamente, e
la chiamò a voce bassa con il suo nomignolo. Mi
dicevi sempre che io ero il tuo “piccolo Principe” e tu la mia...
«Volpe».
I
primi occhi che incrociò furono quelli del ragazzo; marroni,
inquisitori e paragonabili a due buchi neri. Lo stavano squadrando da
capo a piedi, stavano guardando con ribrezzo la sua bandana viola che
gli scendeva sulla spalla, la camicia nera con le maniche rivoltate
all'insù, gli stivali texani e la rosa rossa ormai rovinata per
essere stata strapazzata per troppi minuti.
«Qui
es-tu?»
gli vomitò addosso, visibilmente irritato per l'interruzione del
bacio.
Il
ragazzo corrugò le sopracciglia, rendendo i propri occhi blu di
ghiaccio; nonostante non sapesse il francese, aveva capito benissimo
cosa gli aveva chiesto. Gli rispose mantenendo la voce bassa e
graffiante; voleva ferirlo con le parole: «No,
dude: who the fuck are YOU?»
«Spike».
Leah pronunciò il suo nome sottovoce, lasciando che la
tazza le scivolasse di mano, sul tappeto, andando in piccoli
frantumi.
Il
biondo si voltò verso di lei, con un'espressione di disappunto
tatuata in viso: «Mais,
tu le connais?».
La ragazza non rispose alla domanda, si limitò a
portare una mano alla bocca e a fissare gli occhi blu di Spike.
«Alors?
Leah?»
il biondo si stava scaldando, la pelle gli era diventata di un bel
color peperone.
Leah
cercò di tranquillizzarlo: «Jean
Charles, s'il te plaît...»
«Diglielo pure che
io sono il tuo ragazzo» Spike gettò con forza la rosa rossa a
terra, ormai spappolata «o forse ero, dato il tuo atteggiamento».
Jean
Charles perse completamente le staffe: «Toi,
con, qu'est-ce que tu veux? Qui es-tu?»
«Silence!»
Leah gridò con tutto il fiato che aveva in corpo mentre allontanava
delicatamente il francese da sé.
Spike
fissò i suoi occhi blu in quelli castani di lei, percependo un
freddo glaciale fra di loro; la guardava come se la stesse vedendo
attraverso un iceberg. Non gli sembrava possibile che tutto il calore
che quella ragazza aveva saputo donargli in pochi mesi si era
tramutato improvvisamente in una pioggia di cristalli di ghiaccio
affilati come coltelli che gli si stavano conficcando nell'animo. Per
un attimo si guardò la mano che aveva gettato la rosa a terra e si
accorse che stava tremando sempre più forte; chiuse gli occhi e fece
un respiro profondo, stringendo le dita segnate dalle spine tagliate:
«Perchè?»
«Chi
ti ha fatto entrare?» la ragazza cercò di tastare il terreno.
«Una
tizia coi capelli neri» rispose Spike evasivo.
«Oh...
la mia coinquilina, Colette».
Spike
strinse i denti: «Non tergiversare. Perchè?»
Leah
non disse una parola, si prese solo la testa fra le mani.
«Non
ti ha fatto piacere questa sorpresa. Anzi... sembra proprio che io
abbia interrotto qualcosa che ti piaceva».
Di
nuovo, Leah non battè ciglio.
Risposta
fin troppo eloquente.
Spike sentì uno di quei cristalli attraversargli il torace con
violenza: «Allora tu... non mi ami, Leah?».
Sperava
di sbagliarsi; desiderava ardentemente che la sua ragazza gli si
buttasse fra le braccia e gli urlasse che lo amava, più di qualunque
altra cosa, perfino di più di quel francese che fisicamente
assomigliava tanto a quel bambino maledetto che conservava rose sotto
vetro, belle ed eterne. Non come quella che lui aveva appena gettato
sul pavimento.
Ti
prego, chiamami ancora Jonathan e dimmi che mi sto sbagliando.
Ma
la risposta che udì lo uccise: «Credo di non averlo mai fatto,
Spike».
Il ragazzo trasalì; in quell'istante potè percepire un
tonfo secco all'altezza dello sterno. It's over.
Leah continuò imperterrita, con tono di voce basso e
deciso: «Tu non mi hai mai capita fino in fondo, semplicemente
perchè non sei in grado di apprezzare quel libro. Tu hai sempre
detestato il Piccolo Principe. Io ci ho provato ad addomesticarti, ad
insegnarti che l'essenziale è invisibile agli occhi... ma non ha
funzionato».
Spike si sentì soffocare: «Quindi non mi hai mai
amato...»
«Pensavo di poterlo fare, ma mi sbagliavo»
«... solo perchè non mi piace quel libro di merda?».
Gli occhi di Spike presero fuoco; non poteva credere al mare di
stronzate che lei gli stava raccontando. Si prese il viso fra le
mani cercando di mostrare calma ostentata; credo di aver sentito
abbastanza: «Bene. Allora me ne vado»
«Sì, è meglio» Leah gli inflisse un'altra pugnalata
al cuore «in fondo è tutta colpa tua se non ha funzionato fra di
noi. Sei tu quello che si deve rimproverare, sei tu la causa del tuo
dolore».
Spike rimase immobile per un paio di secondi a guardare
il suo amore, poi una strana forza lo attirò verso la porta
d'ingresso. La vide allontanarsi da sé, dalla sua spalla su cui si
era addormentata tutte le volte che avevano fatto l'amore, dalle sue
mani che l'avevano accarezzata dolcemente, dal suo corpo, che lei
aveva detto più volte di trovare fantastico. Più lui retrocedeva,
più il francese alzava il suo braccio per cingerle le spalle. Ma non
voleva guardare, non avrebbe sopportato la vista di quella mano
sconosciuta che accarezzava centimetri di pelle che, fino a qualche
secondo prima, lui riteneva suoi. Come chiuse la porta alle sue
spalle, il mondo intorno a lui diventò sfocato e confuso: i colori
si mischiavano senza criterio ed i suoni arrivavano ovattati alle sue
orecchie; inoltre, la testa gli girava e sentiva di non poter
governare le sue membra. Tremavano così forte che nemmeno dei lacci
in acciaio avrebbero potuto tenerlo fermo. Senza che se ne rendesse
conto, si trovò di nuovo al piano terra, ad aprire la portineria e
ad uscire in strada. Si sentiva distaccato dalla realtà, come se
tutto quello che era appena successo fosse stato solo un incubo
orrendo. Eppure, qualcosa nella sua mente devastata sapeva che
avrebbe dovuto abituarsi a quella sensazione di merda che si stava
facendo largo dentro di lui. Ogni secondo che passava si sentiva
sempre più vuoto, come se si stesse vaporizzando progressivamente.
Chiuse gli occhi e rivide Leah, con quello chignon, che gli diceva
che era tutta colpa sua. Non poteva crederci. Non voleva crederci. Se
una situazione del genere va a puttane, la colpa non è mai di uno
solo. È di entrambi. Dalla palpebra chiusa, una lacrima scese ad
accarezzargli la guancia, come se volesse dargli conforto e dirgli
che, in fondo, lui non era l'unico responsabile.
«Ehi» una voce gli aprì gli occhi, facendolo
riemergere dal pozzo nero in cui stava precipitando; era Tyla. Lo
stava aspettando con la schiena appoggiata al palo della luce e
teneva in mano due bottiglie di birra. Sputò il mozzicone di
sigaretta che stringeva fra le labbra, poi gli si avvicinò, seguito
dallo sventolare della sua giacca indaco, e gliene porse una
rivolgendogli un sorriso amaro: «Torniamo a casa».
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