04 Apatia
Guy aprì la porta
dell'appartamento aiutandosi con il gomito destro e rischiando di
rovesciare il pranzo sul pavimento. Diede
un'occhiata al corridoio; era vuoto.
«Spike!».
La
risposta fu un silenzio immobile. Guy scosse la testa e sospirò,
sconsolato; lasciò il fish and chips sul tavolo della cucina ed andò
a bussare alla porta della stanza dell'amico strisciando gli stivali:
«Bello, ho comprato da mangiare. Ci sono delle patatine fritte
galattiche...»
doveva
cercare di suonare molto più convincente
«...
e se le mangi fredde fanno schifo».
Di
nuovo non udì la voce di Spike.
Guy si
alterò; tentò di abbassare la maniglia, ma la porta era chiusa a
chiave dall'interno: «Senti, sono giorni che sei tappato nella tua
stanza e ti rifiuti di collaborare con il mondo esterno. Non so
nemmeno se sei vivo o morto, cazzo!».
Il
ragazzo rimase con il fiato sospeso, in attesa di una qualsiasi
risposta; anche solo un vaffanculo. Ti
prego Spike, mandami a fare in culo.
Era da quando era tornato da Lione che si nascondeva fra quelle
quattro mura; metteva il naso fuori dalla stanza solo per andare in
bagno e, saltuariamente, per rubare i McVitie's dalla dispensa.
Ma non
era il fatto di non trovare più biscotti in cucina che lo mandava in
bestia; ciò che lo faceva partire per la tangente era essere certi
che il proprio amico stava così male per colpa di una per cui lui
aveva perso la testa e che l'aveva piantato in asso senza remissione.
Io ti avevo avvertito diverse
volte Guy
si tastò le tasche alla ricerca di una graffetta anzi,
tutti ti avevamo detto di lasciar perdere, che quella era una
stronza, che non ci piaceva per svariati motivi e
sbuffò per aver trovato solo qualche moneta da un penny ma
tu, proprio, zero.
Improvvisamente, il chitarrista sentì scattare la
serratura e la porta si aprì leggermente; rimase con la bocca aperta
quando di fronte a sé vide Spike spettinato, con la barba incolta di
almeno quattro giorni, gli occhi stanchi ed arrossati, circondati da
occhiaie profonde, e la sigaretta stretta fra le dita tremanti. «Non
importa se fredde faranno schifo» parlava con voce roca e bassa e il
suo alito sapeva pesantemente di alcol «lasciale pure sul tavolo
della cucina. Ora non ho fame».
Guy
lo fissò preoccupato: l'amico stava in piedi per miracolo, attaccato
alla porta come se fosse la sua ancora di salvezza. Si vedeva lontano
miglia che erano giorni che non riusciva a dormire, che non faceva
altro che bere, fumare, mangiare qualche briciola ogni tanto e
pensare ininterrottamente a quella
stronza. L'incazzatura gli salì alle
stelle, ma tentò comunque di tenerla per le briglie, mostrando una
calma ostentata: «Oggi abbiamo le prove» si allungò verso di lui
per mettergli una mano sulla spalla; poteva sentire sotto il palmo i
muscoli tesi del cantante «c'è bisogno di te».
Spike gettò il proprio sguardo sul pavimento seguito,
poco dopo, dalla sigaretta. La guardò rotolare sulle piastrelle e
spegnersi nel giro di pochi secondi. Si rivide in quel mozzicone; si
sentiva spento, freddo, inutile. Da quando Leah l'aveva lasciato per
quei motivi futili, si sentiva privato di ogni motivazione possibile
per andare avanti. «Guy» fece un respiro profondo, passandosi una
mano sulle palpebre «credo che, d'ora in avanti, dovrete cercarvi un
altro cantante e chitarrista»
«Stai scherzando?» il chitarrista rimase intontito
dalla frase dell'amico, come se avesse appena ricevuto una bastonata
in testa. Sperava con tutto se stesso di aver capito male; ma Spike
scosse il capo, continuando a tenere lo sguardo basso.
A quel punto Guy sentì di aver raggiunto il limite di
sopportazione: «No, no, NO! Tutto tranne questo» spalancò la porta
con un pugno facendo perdere l'equilibrio a Spike. Lo fissava con gli
occhi iniettati di sangue: «Non vuoi più suonare la chitarra? Beh,
ci posso anche stare; non perchè tu non sia bravo, ma perchè già
canti. Ma un cantante no, un altro cantante NON-LO-VOGLIO». Il
chitarrista gli diede uno spintone e lo fece cadere come un sacco di
patate sul letto, pieno di pacchetti di Lucky Strike vuoti e tappi di
bottiglie di whisky: «Vedi di non fare il cazzone, che nessuno canta
come te. E tutta questa voglia di mollare per cosa? EH?»
Spike lo fissò per qualche secondo con gli occhi blu
vuoti, incapace di reagire, poi si girò verso la parete, dandogli le
spalle: «Per favore, lasciami solo».
Guy lo guardò con il sangue che gli ribolliva per la
rabbia; guardò lui e l'ambiente che lo circondava. Erano giorni che
in quella stanza, praticamente, non entrava luce: le persiane erano
chiuse ed il timido sole londinese disegnava chiare strisce sfumate
sulla moquette scura della stanza, costellata delle varie bottiglie
di alcolici recuperate dal soggiorno, tutte svuotate del liquido e
riempite del dispiacere di Spike. L'unica bottiglia ancora piena era
poggiata sul comodino. Guy guardò un raggio di sole illuminare il
liquido ambrato che l'etichetta bianca nascondeva in parte e si
soffermò su di essa; poteva vedere il gallo cedrone fissarlo con i
suoi occhietti tondi. Famous Grouse, la mia bottiglia. Inspirò
fra i denti, sempre più nervoso, ed arricciò il naso; nell'aria
aleggiava un forte odore di chiuso mischiato ad una fitta nebbia
fatta di nicotina. E Spike si nascondeva in quella nuvola torbida, un
misto di sporcizia, distacco e testa pulsante per i troppi pensieri,
cercando di non avere nessun contatto con la realtà. Non parlava per
esorcizzare il suo demone. Non urlava per sfogare la sua rabbia. Non
piangeva nemmeno. Non faceva assolutamente nulla; solo metteva a
tacere quel male affogandolo nell'alcol. «Non puoi scappare in
eterno, bello» il chitarrista raccolse dal pavimento due bottiglie
vuote «prima o poi ti prenderò. E quando lo farò, tu verrai con me
a suonare».
La porta fu chiusa con un tonfo sordo e Spike sospirò,
facendosi scivolare addosso le parole del coinquilino. Dava le spalle
all'unico ponte con il mondo esterno, adagiato su quel letto
completamente sfatto e freddo. Già... sfatto come il letto di
Leah in quell'appartamento. Rabbrividì; cercò un lembo della
coperta e se la tirò fin sopra la testa. Nascosto nel suo mondo, con
la lana che gli pungeva le guance, Spike si rifugiò nel passato, nel
frangente in cui Leah gli aveva detto che non lo amava. Celò gli
occhi blu dietro le palpebre e fece un respiro profondo, rivedendo a
rallentatore tutti i dettagli di quel fatidico giorno: la facciata
dell'edificio, i muri scrostati del pianerottolo, Colette che lo
tirava in casa scambiandolo per il nuovo trombamico (perchè è
questo che lui è, vero Leah?), la camera da letto con le scarpe
sparse sul pavimento e la chitarra classica che lui aveva perso tempo
ad accordare, le voci... il bacio... la rosa che veniva
buttata a terra e quelle parole che lei gli aveva sbattuto in faccia
con violenza: all the pain is with yourself, all the blame is with
yourself.
Io? Era l'ennesima volta che se lo chiedeva in
quei quattro giorni insonni: io, cos'ho sbagliato? Ripensò
alla loro breve relazione, a come aveva subito perso la testa per lei
e a come quell'incendio passionale, nel giro di quattro mesi scarsi,
si era estinto completamente, laciando il posto al nulla più
completo. Spento per lei, ma non per me. Fin dalla prima volta
che l'aveva addocchiata, le rotelle del suo cervello si erano per
magia inceppate e le cose erano andate sempre più accentuandosi,
finchè, dopo due settimane, le aveva detto le due paroline magiche.
Non sapeva spiegare perchè provava quel sentimento così forte; Leah
aveva quel non so cosa che mi tirava scemo... è successo e basta. In
fondo, non si decide arbitrariamente di chi innamorarsi. Si mise
a pancia in giù, con la fronte appoggiata al cuscino, in cerca di
una risposta; la storia del “tu non mi hai mai capita fino in fondo
perchè non sei in grado di apprezzare quel libro” gli suonava fin
troppo assurda. Proprio non riusciva a capire perchè Leah si era
attaccata a lui, ci aveva fatto l'amore e poi l'aveva piantato in
asso per andare in Francia e farsi il primo che capitava. Era così
frastornato che non riusciva a reagire in alcun modo; gli sembrava di
essere sigillato in una bolla di sapone. Tutto sembrava uno scherzo
ai suoi occhi. Sempre rimanendo nascosto sotto le coperte, si mise
seduto ed allungò il braccio per afferrare il whisky che aveva
lasciato sul comodino; diede una lunga sorsata e poi si poggiò la
bottiglia in grembo. Con la bocca e lo stomaco che bruciavano per il
troppo alcol, appoggiò la schiena e la testa al muro. Rivide di
nuovo Leah che lo fissava con sguardo glaciale: all the blame is
with yourself... ma perchè? Ormai era così confuso che non
riusciva più a connettere; l'unica cosa chiara nella sua testa era
il tonfo lento e regolare del suo cuore. Un suono triste e continuo;
non c'era modo di fermarlo.
Improvvisamente la serratura della porta d'ingresso
scattò e delle scarpe pesanti si posarono sulla moquette. Guy...
Un rumore crescente di passi si stava avvicinando al suo
nascondiglio; a quanto pare non è solo. Fece spallucce. Vorrà
presentarmi il mio sostituto; tutto sommato, è stato veloce. Sapevo
che non sarebbe stato per nulla difficile. La porta della camera
si aprì e Guy disse a qualcuno: «È lì sotto». Spike si
appallottolò ancor di più su se stesso, vergognoso di farsi vedere
da un estraneo ridotto in quelle condizioni. Ma quando una mano gli
tolse bruscamente di dosso le coperte ed una voce conosciuta lo
chiamò per nome, fu costretto ad alzare il capo.
SPIKE!
Tyla lo stava fissando con le sopracciglia corrugate ed
un'espressione dura; non lo salutò, andò immediatamente al punto:
«Cosa stai facendo?».
Proprio non lo sapeva: «Sto cercando di... pensare?».
«Sì, questo lo vedo» gli occhi verdi di Tyla
passarono al setaccio la stanza velocemente, poi tornarono
sull'amico: «Perchè non sei andato a provare?».
Il ragazzo parlava con tono quasi minaccioso; Spike si
irritò e cominciò lui stesso ad alzare la voce: «Perchè non ho
voglia, non puoi costringermi».
Guy si intromise nel discorso: «Ripeti un po' quello
che mi hai detto, dai!»
«Che non voglio più suonare» Spike si alzò in piedi
barcollando ed urlò con tutto il fiato che aveva in corpo: «NON
VOGLIO PIÙ
SUONARE!»
«Piantala di dire
stronzate» Guy gli si buttò addosso con violenza e lo prese per il
bavero della maglietta bianca, inzaccherata di spirito: «Se lo
ripeti, anche solo una volta, ti sfondo la faccia a pugni».
Spike ridacchiò fra
i denti, mentre una scintilla gli attraversava lo sguardo: «Fallo...
coraggio. Tanto ormai non ho più nulla da perdere».
Guy vide rosso per
un secondo ed alzò la mano destra, ma fu bloccato tempestivamente
dalla voce di Tyla: «Buono Guy, lascia perdere». Fece scivolare
fuori dalla tasca della giacca rosa una sigaretta e se l'accese:
«Senti un po'» parlava a Spike con tono stranamente tranquillo «lo
sai che sei conciato uno schifo?».
Il ragazzo non si
rispose; si limitò a mettersi seduto e a guardare in faccia l'amico
dopo aver spinto via Guy.
Tyla proseguì: «E
credo anche che tu sappia molto bene che non puoi andare avanti
così». Spike indurì i propri lineamenti, ma, di nuovo, non proferì
parola. Per parte sua, Tyla lo osservò attraverso il fumo grigio
della Marlboro che stava facendo fluire dalle proprie labbra verso il
soffitto della stanza e, come era solito fare in quelle situazioni,
lo mise fuori gioco con una sola domanda: «Hai pianto?».
Nella stanza scese
il silenzio più assoluto; sia Guy che Spike guardavano sbalorditi il
cantante dei Dogs D'Amour per quello che aveva appena chiesto. Dopo
qualche secondo, la voce ruvida del ragazzo fece vibrare l'aria: «No»
che puttanata, che roba
da bimbe «dimmi
tu, è necessario?».
Tyla
finì la sigaretta con una lunga aspirata, carbonizzando in parte il
filtro, poi fece due passi verso la finestra e la spalancò con
veemenza, scaraventando il mozzicone in strada: «Allora:
innanzitutto, aprire le finestre per lasciar uscire questa puzza
insopportabile».
Spike
grugnì e si coprì il viso con un braccio, sentendo i propri occhi
colpiti brutalmente dalla luce del giorno.
«Poi,
fili immediatamente a lavarti via il lerciume che hai addosso» Tyla
alzò l'amico di peso e gli mollò uno spintone in direzione del
corridoio «e non tornare finchè non avrai un odore decente».
«Non...».
Spike
fece per ribattere, ma Tyla gli urlò contro: «VACCI, PORCA DI
QUELLA TROIA».
Guy
fissò il coinquilino sbalordito, mentre con il capo chino e
l'espressione vuota ciondolava verso il bagno; si voltò verso Tyla
con la bocca semi aperta in cerca di spiegazioni.
«Ormai
lo conosco come le mie tasche» il cantante bevve un sorso di Famous
Grouse e poi continuò: «tranquillo che lo recuperiamo alla grande».
«Me
lo auguro» Guy si passò una mano in mezzo ai capelli sbuffando
«posso aiutarti in qualche modo?».
Tyla
annuì in silenzio e gli mise un braccio intorno al collo: «Vai a
farti un bel giro... diciamo per un paio d'ore. Non cercare altri
musicisti per il momento. Vai a fare una bella partita a freccette e
poi chiama tutta la band. Ci vediamo allo scantinato di Bam intorno
alle sette questa sera».
Guy
aggrottò la fronte: «Perchè proprio alla vostra sala prove?»
«Perchè
noi abbiamo un registratore che a voi manca» Tyla lo accompagnò
verso la porta «fidati che entro mezzanotte avrete il vostro primo
brano inedito».
Il
chitarrista sgranò gli occhi incredulo.
Tyla,
di rimando, gli fece l'occhiolino e lo lasciò sul pianerottolo:
«Soprattutto, Spike si rimetterà in bolla».
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