Anche quella sera non si fecero vivi, non arrivarono
all’ora attesa, non partirono affatto in realtà.
Un laconico sms alle cinque e mezza del mattino ci informò
che avevano passato la nottata in studio e poi a casa di Brian, presi
dall’ardore dell’ispirazione che in quei giorni
sembrava non abbandonarli mai, rovinando così tutti i nostri
programmi.
Non
mi sarei stupito se avessero deciso, con la scusa del lavoro, di non
raggiungerci più e mancare alla vacanza familiare che loro
stessi avevano tanto insistito per organizzare.
Lo
squillo del cellulare di Helena che annunciava il messaggio mi aveva
riscosso, con una certa violenza, e nonostante la stanchezza mi facesse
sbadigliare non ero riuscito a riprendere sonno.
Pensavo
a quali sarebbero state le reazioni dopo l’ennesimo ritardo,
pensavo al disappunto di Helena che avrebbe scosso la testa esasperata
e sarebbe ricorsa ancora una volta al fumo come palliativo, pensavo
alla delusione di Cody che avrebbe passato il resto della giornata
imbronciato, magari buttandosi a capofitto sulle discese più
ripide, sfidando la pendenza delle nere, particolarmente numerose sul
versante est, semi nascosto dal sole e per questo completamente gelato
ai bordi.
Quei
ragazzini erano spaventosi. Si buttavano giù dalla montagna
come se non vi fosse un domani, i loro corpi si curvavano in maniera
armoniosa, scattante, aerodinamica come una fuoriserie dal muso
appuntito, come pointer a briglia sciolta.
Io,
ancora alle prime armi, ero terrorizzato dalla montagna, dai
suoi terreni scoscesi e scivolosi che catturavano il movimento
scomposto dei miei sci e mi costringevano a scendere, preso dal vortice
della pendenza. Era praticamente impossibile rimanere fermo, sentirsi
saldo e con i piedi ben radicati nel terreno; e poi vedevo
loro che sfrecciavano fuori dalla pista, compiendo audaci acrobazie
fino a saltare dal primo trampolino di lancio che i piccoli mucchi di
neve offrivano, tutt’intorno.
La
volta che ero uscito fuoripista invece io ero stato costretto a
fermarmi, spaventato dalla mia velocità che mi aveva
attirato al di fuori della mia traiettoria e mi ero bloccato, incapace
di proseguire.
Ogni
movimento, passo o tentativo di spostarmi in qualunque direzione
contribuiva solo a farmi affondare nella neve, come se mi stessi
scavando la fossa da solo.
Dopo
quell’esperienza, la prima mattina, avevo deciso il giorno
dopo di rimanere a casa, tanto più che accusavo un maledetto
mal di testa dal momento che non avevo chiuso occhio dalle cinque e
mezza del mattino fino alle sette, quando mi ero deciso ad alzarmi per
una bella doccia calda.
Immedesimandomi
nel ruolo del papà o della balia, come dir si
voglia, ero uscito a fare la spesa non appena aveva aperto il
supermarket sotto casa.
I
ragazzi non si erano svegliati prima delle nove e avevano trovato ad
attenderli ogni ben di Dio sulla tavola del soggiorno che si specchiava
nella finestra-vetrata, unica barriera che ci separava dal gelo nevoso.
Su
una tovaglia rustica, dai colori chiari, al centro tavola
troneggiava un vassoio di toast prosciutto e formaggio, pane caldo
integrale e fette biscottate fragranti, persino un dolce allo yogurt e
a i mirtilli.
Poi
c’era frutta, quali banane, mele e pere, burro e marmellate
varie, e avevo addirittura preso una crostata di mele
dall’aria attraente, avevo voglia di strafare.
Per
me e Helena caffè, per i ragazzi succo di frutta, the o
latte con il muesli alla frutta secca.
Tutta
quell’abbondanza faceva l’effetto delle
pubblicità della Kellogs cereali, troppo ricostruita per
essere vera, eppure i ragazzi non batterono ciglio, ancora mezzi
addormentati.
La
casa cominciò a rianimarsi quando cominciarono a discutere
dei soliti argomenti, conversazioni alle quali facevo sempre fatica a
partecipare.
“Ragazzi,
oggi il versante est!”
“Cody,
che cavolo, è solo il secondo giorno! Sto ancora
arrugginito.”
“Eddai
Will, tanto meglio di come scii non sai sciare. Sei negato.”
“Gill,
stai zitta.”
“Ma
se eri una lumaca!”
“Cody,
vuoi scommettere che oggi sulla discesa dell’orso ti semino
di chilometri?”
“Non
ci credo neanche se lo vedo.”
“Ragazzi”
la voce di Helena scivolò calda e materna in mezzo
all’astio generale, una musica per le orecchie, quasi il
canto di San Francesco che ammansisce le bestie feroci
“perché non rimandate il versante est a quando
arriva zio Stef? Non è il caso che vi avventuriate
da soli da quelle parti.”
“Mamma,
che ha detto papà? Arrivano oggi?”
Percepii
per un attimo lo sguardo della mia donna, un’occhiata di
intesa, come avesse bisogno di sostegno nel dire ciò che
stava per dire.
“Si,
tesoro. Arrivano oggi.” Dosò le parole e
i toni ad arte, dolciastri, un po’ cinguettanti, tanto che lo
vidi storcere il naso infastidito.
La
combinazione di toni zuccherini e il “tesoro”
materno bastavano ad imbarazzare e confondere qualunque adolescente, e
Cody rimase lì a mugugnare mentre cacciava la faccia nella
scodella del muesli.
Poco
prima di uscire, mentre i ragazzi affollavano il bagno, avevo avuto una
discussione con Helena che non sembrava rassegnarsi alla mia
incapacità e pretendeva di portarmi, ancora una volta, sulle
piste con lei.
Insisteva
che dovevo prendere lezioni, che non aveva senso quella vacanza dal
momento che non partecipavo dell’unione familiare.
Io
avevo chiuso l’argomento con una frecciatina di cui mi ero
pentito subito dopo, chiedendole, con piacere sadico, se Brian sciasse.
Conoscendo
il personaggio, era una romanza retorica e lei lo aveva subito intuito,
incapace di ribattere.
Questo
era bastato a troncare la nostra discussione e se la cosa aveva scosso
Helena, lei non lo dette a vedere.
Semplicemente
mi raccomandò di pensare a qualcosa per la sera visto che,
sperabilmente avremmo avuto Brian, Stef e Dave a cena.
Quando
mi ritrovai da solo in casa tirai un sospiro di sollievo, misi su un
po’ di buona musica e con le note scoppiettanti del
DaveBrubeck Quartet mi rilassai e mi misi a lavorare.
Il
tavolo della cucina non era abbastanza largo per contenere
tutte le carte che mi ero portato. Infatti checché ne
dicesse Helena, quello non era affatto un buon momento per me per
andare in vacanza.
Avevo
da lavorare e anche parecchio.
Mi misi a studiare incessantemente pagine e pagine di curricula di
giovani che avevano fatto richiesta di lavoro, di stage, di
praticantato, di finanziamento di un progetto artistico di qua, di una
lettura di là, richieste di affitto e utilizzo dei locali
delle gallerie di Soho a Londra e poi i conti di quella di Manchester.
Mentre
impazzivo, sommerso dalle scartoffie, non mi accorsi nemmeno del tempo
che passava. Si era fatta ora di pranzo eppure non avevo lo stimolo
della fame, l’orologio era silenzioso, il suo ticchettio era
coperto dalla musica che fluiva dalle casse mentre davo fondo a tutta
la discografia del Quartet e di altre formazioni, sempre melodie soft
che alleggerivano l’atmosfera eppure suonavano impalpabili,
invisibili, intangibili come non esistessero.
Fu
così che il campanello ruppe l’armonia che avevo
faticosamente riconquistato quella mattina di lavoro.
è
proprio vero che il lavoro può essere una droga, una di
quelle buone, mentre la vacanza può essere un inferno che
fiacca il corpo e affligge l’animo.
Dovetti
andare ad aprire la porta. Per un attimo sperai che fosse Helena,
già stanca di sciare, che aveva deciso di lasciare i ragazzi
sulle pista, magari per dedicarmi un po’ di tempo.
Ma
la donna che mi si presentò alla porta non assomigliava a
niente che conoscessi e mi lasciò sbalordito.
Era
giovane, non doveva avere più di trent’anni,
avvolta in un piumino bianco neve che mettevano in risalto il capello
castano incorniciato da una sciarpa verde petrolio e soprattutto la
pelle bronzea.
Sembrava
una copia di qualche anno più giovane di Eva Longoria, con i
jeans scuri e i Moonboot alti, quasi fino al ginocchio.
“C’è
Helena Berg?”
“Lei…
non è in casa.”
“Quindi
abita qui.”
“Beh,
si.”
Non
avevo neppure finito di rispondere che quella superò la
soglia con nonchalance trascinandosi dietro un trolley verde oliva di
medie dimensioni, abbastanza ingombrante da farmi indietreggiare in
fretta, colto alla sprovvista.
“E
tu devi essere Andrew. Piacere, sono Rebecca.”
Rebecca?
chi era Rebecca?
Per
un attimo mi sforzai disperatamente di ricordare se era una di quelle
amiche di lunga data di Helena, londinesi e donne in carriera, che ogni
tanto lei portava a casa.
Avevo
il buio più totale, una così bella e formosa me
la sarei ricordata, credo.
Forse
me ne aveva parlato e non l’avevo ancora incontrata.
Ma
perché non aveva avvisato che sarebbe venuta a trovarci? Non
era da Helena.
Non
che negli ultimi giorni Helena si fosse comportata come suo solito,
eppure mi pareva strano che l’argomento non fosse uscito
neppure di sfuggita, a tavola.
Rebecca
mi tese la mano con un sorriso luminoso e, con un ritardo di diversi
secondi, piuttosto significativo, finalmente mi decisi a stringerla,
ancora attonito.
“Ci
siamo già incontrati?“
La
sentii ridere, cristallina, gioconda come una lontra mentre si liberava
del piumino, lasciando il posto ad maglione bianco panna, lo scollo a
barca, che scendeva morbido fino a metà coscia, mentre in
piccolo si distingueva il logo blu del cavaliere, un Ralph Loren.
Ralph
Loren sarà l’unica casa di moda che mi
è veramente familiare.
Sono
i lussi che si conquistano quando improvvisamente si diventa ricchi
imprenditori in ascesa e allora si è costretti a vestirsi
come tali.
Non
ho mai avuto il coraggio di guardare in faccia i miei colleghi che
vestivano Burberry o Dolce & Gabbana e rivelare loro quanto li
trovassi ridicoli, con fantasie scozzesi create da menti perverse e
completi dai colori insoliti che li facevano assomigliare a venditori
porta a porta.
Non
concepivo assolutamente quella stupida moda di essere originali a tutti
i corsi, rischiando di assomigliare ad un semaforo ambulante*.
“In
realtà no. E non mi stupisce che Brian non vi abbia detto
niente di me.”
decretò
con grande naturalezza, aprendo l’armadio a muro accanto
all’ingresso e appendendovi il piumino. Si muoveva con tale
sicurezza che sembrava conoscere perfettamente l’ambiente,
forse persino l’angolo più recondito
dell’intero appartamento.
“D’altro
canto non siamo quello che si dice una coppia modello” mi
strizzò l’occhio sbarazzina, come una Lolita rossa
abituata ad ammaliare il suo professor Humbert con un sorriso.
Fu
in quel momento che mi ritornò in mente quella conversazione
feroce con cui mi avevano accolto Helena e il suo ex-marito, appena
dieci giorni prima, quando quella vacanza era ancora un progetto vago
nelle loro menti.
Rebecca,
la nuova compagna di Brian.
Che
cavolo ci faceva lì, a casa mia? Perché non era
in hotel, a reclamare la stanza d’albergo che Helena aveva
prenotato per lui, Stef e Dave?
Nel
frattempo quella era scivolata fuori dai Moonboot, lasciandoli
accostati all’armadio, ed aveva armeggiato con la tasca
anteriore del trolley, tirandone fuori un paio di ballerine,
pantofoline di velluto blu da cui spuntavano sottili caviglie avvolte
dalla calzamaglia nera di lana misto cashmere.
Mentre
ancora cercavo di levarmi di dosso quell’aria allibita, la
seguii in cucina e ancora una volta non chiese indicazioni,
la vidi tirare dritto come avesse la pianta della casa stampata in
testa.
Si
allungo verso il primo ripiano a destra, sopra il lavandino e con un
bicchiere in mano andò a recuperare una bottiglia
d’acqua dal frigo.
“Allora…
com’è che sono tutti a sciare e tu no? ”
“Ehm…
non ne vado matto.
è
già stata in questa casa?”
Nonostante
la sua parlantina spontanea e familiare, cercai di mantenere le
distanze.
In
fondo era appena la prima volta che ci incontravamo, per di
più senza presentazioni ufficiali, soli in casa, una
situazione che un po’ mi imbarazzava.
“Oh
si! Proprio l’anno scorso, stessa stagione.”
“Era
in vacanza con Brian?”
“Oh
no, ero da un amico.”
Per
un attimo ebbi la sensazione che la sua voce si caricasse di
significati nascosti, che la parola “amico” fosse
tremendamente ambigua, ma non riuscivo a spiegarmi perché
mai ammettesse la cosa in maniera serafica ma per nulla innocente.
Tuttavia
mi ostinai a chiedere conferma, cercando di mostrarmi interessato e per
lo meno educato:
“Avete
passato una buona vacanza, Lei e Brian?”
“Oh…
Brian non c’era. Ero sola, con il mio amico.”
“Ah.
E gliel’ha consigliata lei la casa?”
“Non
esattamente. ”
Ma
a che gioco giocava quella donna? Era quasi irritante, mentre mi
forniva risposte telegrafiche, come fossero preziose perle di saggezza
e, per di più, con tono frivolo e squillante,
sorseggiando l’acqua, appoggiata al banco della cucina.
“E
da quanto tempo vi conoscete? ”
“Saranno
quasi tre anni che ci frequentiamo. Con alti e bassi.”
“Capisco.
E con i bassi come fa?”
“Ogni
tanto mi prendo un periodo di vacanza.
Sai
com’è, abbiamo entrambi un carattere
difficile.”
Adesso
mi erano piuttosto chiare le dinamiche, talmente chiare che mi
sconvolgevano. Non saprei dire neppure perché; non
che non avessi mai sentito di coppie instabili,
“aperte” per così dire , eppure non mi
spiegavo come potessero funzionare.
“Ti
dispiace se faccio un bagno caldo? Il riscaldamento faceva le
bizze e l’auto era gelida. Brr.”
Sorvolai
sull’onomatopea, buttata lì fanciullescamente, e
per un attimo mi sentii le guance arrossarsi al pensiero di
un’estranea che si serviva della vasca da bagno di casa mia,
pur non essendo mia ospite.
Era
la situazione che mi appariva assurda, senza senso, una novella di
Lewis Carrol.
E
Alice era di fronte a me, pronta a mettermi davanti al fatto compiuto,
la semplice verità che non le potevo certo rifiutare
qualcosa chiesta in quella maniera garbata e allo stesso tempo allegra
come un trillo.
“Prego.
Fai pure come fossi a casa tua.”
Sfiatai,
arrendendomi all’evidenza.
******************************
Helena rientrò con le buste della spesa, i ragazzi al
seguito, tutti eccitati perché avevano ricevuto il permesso
di andare in piscina con Sam.
Subito
si rinchiusero in camera, intenti a ripescare dai bagagli il costume da
piscina, la cuffia e l’accappatoio in microfibra,
ignari della presenza della nuova ospite di casa.
Misi
piede in cucina e rimasi ad osservare la mia donna mentre riponeva i
freschi in frigo, le scatole di riso e i biscotti per la colazione
nella credenza, mentre la macchinetta del caffè ribolliva e
borbottava in sottofondo.
Tirai
un sospiro di sollievo.
Rebecca
non era nei dintorni. Forse era uscita. Forse era ancora in bagno.
O
forse semplicemente in veranda a godersi il panorama mozzafiato,
l’unico luogo in cui Helena avrebbe potuto fumare
in tutta la casa.
Era
accogliente, invitante, intimo in qualche modo,
surriscaldato, arredato con due sdraio e un tavolino di
vimini, in un angolo una cassapanca conteneva pesanti coperte di lana e
pile.
Me
la immaginavo lì distesa, le sottili gambe incrociate, la
schiena abbandonata all’indietro, magari un libro tra le mani
oppure semplicemente le braccia abbandonate lungo il corpo.
Poi
la vidi allungare la mano, in direzione della macchina del
caffè e portarsi poi la tazzina alle labbra, la
vidi scuotere la chioma castana, avrei giurato fosse morbida al tatto,
e ridacchiare briosa.
“Ha
chiamato qualcuno?”
La
voce di Helena mi arrivò attenuata, per un attimo ebbi la
sensazione che le due immagini si sovrapponessero, quella della
splendida mora dalle labbra piene e rosee e il profilo elegante,
sottile, chiaro e affilato della mia compagna.
“Andrew?
Tutto bene tesoro?”
Pian
piano ripresi il controllo di ciò che vedevo e relegai quei
pensieri da qualche parte, concentrandomi sulla macchinetta del
caffè, lucida e grigia, il manico in punta semisciolto
perché qualcuno doveva aver messo la fiamma troppo alta e la
plastica aveva minacciato di gocciolare come la cera di una candela.
“Io…
oggi è successa una cosa”
Cominciai
attirando l’attenzione di Helena. Quella mi versò
del caffè e me lo porse e io indugiai qualche secondo prima
di prenderlo, senza motivo.
Il
caffè caldo in gola mi tranquillizzò, mi
aiutò a riprendere possesso dei miei sensi, sentii perfino
il palato bruciare, inaridito dal liquido che scottava.
“è
venuta Rebecca. Da Londra. Lei… ha detto che si fermava con
Brian. Tu… ne sai niente?”
La
vidi spalancare gli occhi totalmente sorpresa ma, dopo pochi secondi,
eccola ritornare tranquilla, il volto teso in un sorriso forzato.
“Bene,
non sapevo che Brian l’ avesse coinvolta…
così staremo finalmente tutti insieme. È quello
che volevamo, no?”
“E
perché quella faccia allora?”
“Vorrei
solo che me lo avesse detto.” Confessò con un
sospiro che tradiva tutta la sua fatica “Lei
dov’è adesso?” si informò,
laconica.
“Non
lo so. Forse in salotto, o in veranda.”
Parli
del diavolo.
La
sua presenza fu annunciata da un canticchiare sommesso, la sua voce
allegra e acuta, persino intonata.
Entrò
ancheggiando sinuosa, padrona del campo, e subito si diresse verso il
ripiano dei bicchieri, accanto al lavandino.
“Oh
Helena! Ciao! Sono arrivata giusto un paio d’ore
fa!” riempì il bicchiere dal rubinetto e se lo
portò alle labbra, spiegate in un sorriso caloroso.
“Spero
di non avervi creato problemi. Sto aspettando che arrivi Brian, sai.
È
lui che ha tutti gli estremi della prenotazione e
poi…” mi strizzò l’occhio con
un’aria di complicità estremamente imbarazzante,
una vera civetta “…avevo bisogno di una doccia. E
di un posto accogliente. Di una casa insomma!”
decretò alla fine con tono di lusinga.
Quel
suo modo così sensuale mi stordiva, mi sentivo in perenne
imbarazzo, come se stessi tradendo la mia compagna mille volte.
Passeggiava chiacchierina per la cucina commentando le nostre scelte in
fatto di cibo, le marche che lei comprava, consigliava nuove ricette e
tutto questo chiacchierando a più non posso.
Dopo
l’iniziale stupore cominciai a notare che la mia
compagna rispondeva con la stessa moneta, alternava le sue frasi
cariche di entusiasmo con brevi commenti cortesi, la gentilezza in
persona e , di tanto in tanto, si dimostrava altrettanto civetta.
Forse
è questo il modo di comunicare delle donne in un contesto
non familiare?
Non
riuscivo a capacitarmi di quel cambiamento improvviso di registro.
Certo
tutto ciò le rendeva ancora più attraenti.
Entrambe.
“Rebecca,
per caso Brian ti ha fatto sapere quando sarebbe arrivato?”
“Oh
no, cara, mi dispiace. Ma sai com’è lui!
Così indipendente, misterioso nei suoi movimenti. ”
“Io
speravo che stasera avremmo cenato tutti insieme. ”
“Oh
si! Potremmo cucinare del pesce!”
“In
realtà da queste parti sarebbe più indicato del
semolino, magari degli gnocchi.”
“Magnifico!
Tesoro, che magnifica idea!”
“sarà
il caso di chiamarli? Tu che dici, facciamo anche del polpettone alle
erbe?”
“E
magari la variante ripiena di speck di montagna? Quello si che sarebbe
un colpaccio.”
“sono
sicura che i bambini ne saranno deliziati!”
“Non
vedo l’ora di cominciare!”
Improvvisamente
mi ritrovai cacciato dalla cucina, la porta chiusa oltre cui si udivano
rumori indistinti, a tratti stoviglie, a tratti il chiacchiericcio
femminile che si faceva sempre più insistente, un debole
chiocciare ovattato.
Ancora
stordito dalla rapidità con cui le cose erano cambiate mi
risolsi a rendermi utile: scoprire almeno se Brian, Stefan e Dave
sarebbero arrivati in serata.
Il
telefono squillò a lungo ma, all’ultimo, invece
della segreteria telefonica sentii la voce suadente di Brian
accarezzarmi l’orecchio.
“Pronto?
Andrew sei tu?”
“Brian!
Dove siete? Arrivate in serata?”
“Si.
Siamo per strada. Tra un paio d’ore o poco più
dovremmo arrivare.”
“Ottimo,
avverto Helena. Vi aspettiamo.”
“A
dopo.”
Subito
mi affrettai a dare la notizia in cucina ma le due donne ormai erano in
confidenza e si raccontavano episodi divertenti su conoscenti
in comune.
Non
mi restava che scomparire, socchiudendo la porta.
***************************
*
Questa Eva Longoria per intenderci : http://www.telefilmaddicted.com/wordpress/wp-
econtent/uploads/2013/09/eva-longoria-latest-wallpaper.jpg
*Per
inciso, ecco qui qualcuno che non è esattamente sobrio nel
vestire, con tanto amore:
http://wtfismattbellamywearing.tumblr.com/
Niente
postfazione. Mi scoccio. E perdonatemi, questo capitolo è
vergognosamente corto.
Ringrazio
solo chi mi segue/recensisce/ricorda/preferisce, un saluto particolare a @Nainai, sempre di
ispirazione e spero di aver risposto alla richiesta di @alexichains (p.s
grazie per l’incoraggiamento).
Soprattutto
spero che questo capitolo soddisfi voi, a me non ha convinto del tutto.
Ma
pian piano si chiarirà tutto. Abbiate fede.
Neal
C.
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