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Autore: Neal C_    14/12/2013    3 recensioni
“Chi è Rebecca?”
Brian per poco non sgranò gli occhi ma mi riservò solo un piccolo guizzo di sorpresa prima di lasciarsi andare in una risata ironica che mi punse sul vivo.
Era ragionevole che io non sapessi niente di questa Rebecca, sarebbe stato ragionevole che Brian, con la pazienza e l’amabilità che lo contraddistingueva nei momenti in cui era di buon umore, mi spiegasse tranquillamente di chi stavamo parlando. Non potevo certo conoscere tutte le frequentazioni di Brian, una rockstar che vedeva più facce in un’ora di quante ne vedessi io in una giornata. Ma allora, se avevo ragione, perché ero arrossito come un peperone e mi vergognavo come un ladro?

[Questa storia è correlata a "Just a perfect man", one-shot prequel, ma è autonoma in quanto può essere letta come una storia a sé stante]
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Brian Molko, Nuovo personaggio, Stefan Osdal
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: Triangolo
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Anche quella sera non si fecero vivi, non  arrivarono all’ora attesa, non partirono affatto in realtà. Un laconico sms alle cinque e mezza del mattino ci informò che avevano passato la nottata in studio e poi a casa di Brian, presi dall’ardore dell’ispirazione che in quei giorni sembrava non abbandonarli mai, rovinando così tutti i nostri programmi.

Non mi sarei stupito se avessero deciso, con la scusa del lavoro, di non raggiungerci più e mancare alla vacanza familiare che loro stessi avevano tanto insistito per organizzare.
Lo squillo del cellulare di Helena che annunciava il messaggio mi aveva riscosso, con una certa violenza, e nonostante la stanchezza mi facesse sbadigliare non ero riuscito a riprendere sonno.
Pensavo a quali sarebbero state le reazioni dopo l’ennesimo ritardo, pensavo al disappunto di Helena che avrebbe scosso la testa esasperata e sarebbe ricorsa ancora una volta al fumo come palliativo, pensavo alla delusione di Cody che avrebbe passato il resto della giornata imbronciato, magari buttandosi a capofitto sulle discese più ripide, sfidando la pendenza delle nere, particolarmente numerose sul versante est, semi nascosto dal sole e per questo completamente gelato ai bordi.
Quei ragazzini erano spaventosi. Si buttavano giù dalla montagna come se non vi fosse un domani, i loro corpi si curvavano in maniera armoniosa, scattante, aerodinamica come una fuoriserie dal muso appuntito, come pointer a briglia sciolta.
Io, ancora alle prime armi,  ero terrorizzato dalla montagna, dai suoi terreni scoscesi e scivolosi che catturavano il movimento scomposto dei miei sci e mi costringevano a scendere, preso dal vortice della pendenza. Era praticamente impossibile rimanere fermo, sentirsi saldo e con i piedi ben radicati nel terreno;  e poi vedevo loro che sfrecciavano fuori dalla pista, compiendo audaci acrobazie fino a saltare dal primo trampolino di lancio che i piccoli mucchi di neve offrivano, tutt’intorno.
La volta che ero uscito fuoripista invece io ero stato costretto a fermarmi, spaventato dalla mia velocità che mi aveva attirato al di fuori della mia traiettoria e mi ero bloccato, incapace di proseguire.
Ogni movimento, passo o tentativo di spostarmi in qualunque direzione contribuiva solo a farmi affondare nella neve, come se mi stessi scavando la fossa da solo.
Dopo quell’esperienza, la prima mattina, avevo deciso il giorno dopo di rimanere a casa, tanto più che accusavo un maledetto mal di testa dal momento che non avevo chiuso occhio dalle cinque e mezza del mattino fino alle sette, quando mi ero deciso ad alzarmi per una bella doccia calda.
Immedesimandomi nel ruolo del papà o della balia, come dir si voglia,  ero uscito a fare la spesa non appena aveva aperto il supermarket sotto casa.
I ragazzi non si erano svegliati prima delle nove e avevano trovato ad attenderli ogni ben di Dio sulla tavola del soggiorno che si specchiava nella finestra-vetrata, unica barriera che ci separava dal gelo nevoso.
Su una tovaglia rustica, dai colori chiari,  al centro tavola troneggiava un vassoio di toast prosciutto e formaggio, pane caldo integrale e fette biscottate fragranti, persino un dolce allo yogurt e a i mirtilli.
Poi c’era frutta, quali banane, mele e pere, burro e marmellate varie, e avevo addirittura preso una crostata di mele dall’aria attraente,  avevo voglia di strafare.
Per me e Helena caffè, per i ragazzi succo di frutta, the o latte con il muesli alla frutta secca.
Tutta quell’abbondanza faceva l’effetto delle pubblicità della Kellogs cereali, troppo ricostruita per essere vera, eppure i ragazzi non batterono ciglio, ancora mezzi addormentati.
La casa cominciò a rianimarsi quando cominciarono a discutere dei soliti argomenti, conversazioni alle quali facevo sempre fatica a partecipare.
“Ragazzi, oggi il versante est!” 
“Cody, che cavolo, è solo il secondo giorno! Sto ancora arrugginito.”
“Eddai Will, tanto meglio di come scii non sai sciare. Sei negato.”
“Gill, stai zitta.”
“Ma se eri una lumaca!”
“Cody, vuoi scommettere che oggi sulla discesa dell’orso ti semino di chilometri?”
“Non ci credo neanche se lo vedo.”
“Ragazzi”  la voce di Helena scivolò calda e materna in mezzo all’astio generale, una musica per le orecchie, quasi il canto di San Francesco che ammansisce le bestie feroci “perché non rimandate il versante est a quando arriva zio Stef? Non è il caso che vi  avventuriate da soli da quelle parti.”
“Mamma, che ha detto papà? Arrivano oggi?”
Percepii per un attimo lo sguardo della mia donna, un’occhiata di intesa, come avesse bisogno di sostegno nel dire ciò che stava per dire.
“Si, tesoro. Arrivano oggi.”  Dosò le parole e i toni ad arte, dolciastri, un po’ cinguettanti, tanto che lo vidi  storcere il naso infastidito.
La combinazione di toni zuccherini e il “tesoro” materno bastavano ad imbarazzare e confondere qualunque adolescente, e Cody rimase lì a mugugnare mentre cacciava la faccia nella scodella del muesli.
Poco prima di uscire, mentre i ragazzi affollavano il bagno, avevo avuto una discussione con Helena che non sembrava rassegnarsi alla mia incapacità e pretendeva di portarmi, ancora una volta, sulle piste con lei.
Insisteva che dovevo prendere lezioni, che non aveva senso quella vacanza dal momento che non partecipavo dell’unione familiare.
Io avevo chiuso l’argomento con una frecciatina di cui mi ero pentito subito dopo, chiedendole, con piacere sadico, se Brian sciasse.
Conoscendo il personaggio, era una romanza retorica e lei lo aveva subito intuito, incapace di ribattere.
Questo era bastato a troncare la nostra discussione e se la cosa aveva scosso Helena, lei non lo dette a vedere.
Semplicemente mi raccomandò di pensare a qualcosa per la sera visto che, sperabilmente avremmo avuto Brian, Stef e Dave a cena.
Quando mi ritrovai da solo in casa tirai un sospiro di sollievo, misi su un po’ di buona musica e con le note scoppiettanti del DaveBrubeck Quartet mi rilassai e mi misi a lavorare.
Il tavolo della cucina non era  abbastanza largo per contenere tutte le carte che mi ero portato. Infatti checché ne dicesse Helena, quello non era affatto un buon momento per me per andare in vacanza. 
Avevo da lavorare e anche parecchio. 


Mi misi a studiare incessantemente pagine e pagine di curricula di giovani che avevano fatto richiesta di lavoro, di stage, di praticantato, di finanziamento di un progetto artistico di qua, di una lettura di là, richieste di affitto e utilizzo dei locali delle gallerie di Soho a Londra e poi i conti di quella di Manchester.

Mentre impazzivo, sommerso dalle scartoffie, non mi accorsi nemmeno del tempo che passava. Si era fatta ora di pranzo eppure non avevo lo stimolo della fame, l’orologio era silenzioso, il suo ticchettio era coperto dalla musica che fluiva dalle casse mentre davo fondo a tutta la discografia del Quartet e di altre formazioni, sempre melodie soft che alleggerivano l’atmosfera eppure suonavano impalpabili, invisibili, intangibili come non esistessero.
Fu così che il campanello ruppe l’armonia che avevo faticosamente riconquistato quella mattina di lavoro.
è proprio vero che il lavoro può essere una droga, una di quelle buone, mentre la vacanza può essere un inferno che fiacca il corpo e affligge l’animo.
Dovetti andare ad aprire la porta. Per un attimo sperai che fosse Helena, già stanca di sciare, che aveva deciso di lasciare i ragazzi sulle pista, magari per dedicarmi un po’ di tempo. 
Ma la donna che mi si presentò alla porta non assomigliava a niente che conoscessi e mi lasciò sbalordito.
Era giovane, non doveva avere più di trent’anni, avvolta in un piumino bianco neve che mettevano in risalto il capello castano incorniciato da una sciarpa verde petrolio e soprattutto la pelle bronzea. 
Sembrava una copia di qualche anno più giovane di Eva Longoria, con i jeans scuri e i Moonboot alti, quasi fino al ginocchio.
“C’è Helena Berg?” 
“Lei… non è in casa.”
“Quindi abita qui.”
“Beh, si.”
Non avevo neppure finito di rispondere che quella superò la soglia con nonchalance trascinandosi dietro un trolley verde oliva di medie dimensioni, abbastanza ingombrante da farmi indietreggiare in fretta, colto alla sprovvista.
“E tu devi essere Andrew. Piacere, sono Rebecca.”
Rebecca? chi era Rebecca? 
Per un attimo mi sforzai disperatamente di ricordare se era una di quelle amiche di lunga data di Helena, londinesi e donne in carriera, che ogni tanto lei portava a casa.
Avevo il buio più totale, una così bella e formosa me la sarei ricordata, credo.
Forse me ne aveva parlato e non l’avevo ancora incontrata.
Ma perché non aveva avvisato che sarebbe venuta a trovarci? Non era da Helena.
Non che negli ultimi giorni Helena si fosse comportata come suo solito, eppure mi pareva strano che l’argomento non fosse uscito neppure di sfuggita, a tavola.
Rebecca mi tese la mano con un sorriso luminoso e, con un ritardo di diversi secondi, piuttosto significativo, finalmente mi decisi a stringerla, ancora  attonito.
“Ci siamo già incontrati?“
La sentii ridere, cristallina, gioconda come una lontra mentre si liberava del piumino, lasciando il posto ad maglione bianco panna, lo scollo a barca, che scendeva morbido fino a metà coscia, mentre in piccolo si distingueva il logo blu del cavaliere, un Ralph Loren.
Ralph Loren sarà l’unica casa di moda che mi è veramente familiare.
Sono i lussi che si conquistano quando improvvisamente si diventa ricchi imprenditori in ascesa e allora si è costretti a vestirsi come tali. 
Non ho mai avuto il coraggio di guardare in faccia i miei colleghi che vestivano Burberry o Dolce & Gabbana e rivelare loro quanto li trovassi ridicoli, con fantasie scozzesi create da menti perverse e completi dai colori insoliti che li facevano assomigliare a venditori porta a porta. 
Non concepivo assolutamente quella stupida moda di essere originali a tutti i corsi, rischiando di assomigliare ad un semaforo ambulante*. 
“In realtà no. E non mi stupisce che Brian non vi abbia detto niente di me.”
decretò con grande naturalezza, aprendo l’armadio a muro accanto all’ingresso e appendendovi il piumino. Si muoveva con tale sicurezza che sembrava conoscere perfettamente l’ambiente, forse persino l’angolo più recondito dell’intero appartamento.
“D’altro canto non siamo quello che si dice una coppia modello” mi strizzò l’occhio sbarazzina, come una Lolita rossa abituata ad ammaliare il suo professor Humbert con un sorriso.
Fu in quel momento che mi ritornò in mente quella conversazione feroce con cui mi avevano accolto Helena e il suo ex-marito, appena dieci giorni prima, quando quella vacanza era ancora un progetto vago nelle loro menti.
Rebecca, la nuova compagna di Brian.
Che cavolo ci faceva lì, a casa mia? Perché non era in hotel, a reclamare la stanza d’albergo che Helena aveva prenotato per lui, Stef e Dave?
Nel frattempo quella era scivolata fuori dai Moonboot, lasciandoli accostati all’armadio, ed aveva armeggiato con la tasca anteriore del trolley, tirandone fuori un paio di ballerine, pantofoline di velluto blu da cui spuntavano sottili caviglie avvolte dalla calzamaglia nera di lana misto cashmere.
Mentre ancora cercavo di levarmi di dosso quell’aria allibita, la seguii in cucina e ancora una volta non chiese indicazioni,  la vidi tirare dritto come avesse la pianta della casa stampata in testa.
Si allungo verso il primo ripiano a destra, sopra il lavandino e con un bicchiere in mano andò a recuperare una bottiglia d’acqua dal frigo.
“Allora… com’è che sono tutti a sciare e tu no? ”
“Ehm… non ne vado matto. 
è già stata in questa casa?”
Nonostante la sua parlantina spontanea e familiare, cercai di mantenere le distanze.
In fondo era appena la prima volta che ci incontravamo, per di più senza presentazioni ufficiali, soli in casa, una situazione che un po’ mi imbarazzava.
“Oh si! Proprio l’anno scorso, stessa stagione.”
“Era in vacanza con Brian?”
“Oh no, ero da un amico.”
Per un attimo ebbi la sensazione che la sua voce si caricasse di significati nascosti, che la parola “amico” fosse tremendamente ambigua, ma non riuscivo a spiegarmi perché mai ammettesse la cosa in maniera serafica ma per nulla innocente.
Tuttavia mi ostinai a chiedere conferma, cercando di mostrarmi interessato e per lo meno educato:
“Avete passato una buona vacanza, Lei e Brian?”
“Oh… Brian non c’era. Ero sola, con il mio amico.”
“Ah. E gliel’ha consigliata lei la casa?”
“Non esattamente. ”
Ma a che gioco giocava quella donna? Era quasi irritante, mentre mi forniva risposte telegrafiche, come fossero preziose perle di saggezza e, per di più,  con tono frivolo e squillante, sorseggiando l’acqua, appoggiata al banco della cucina.
“E da quanto tempo vi conoscete? ”
“Saranno quasi tre anni che ci frequentiamo. Con alti e bassi.”
“Capisco. E con i bassi come fa?”
“Ogni tanto mi prendo un periodo di vacanza. 
Sai com’è, abbiamo entrambi un carattere difficile.”
Adesso mi erano piuttosto chiare le dinamiche, talmente chiare che mi sconvolgevano.  Non saprei dire neppure perché; non che non avessi mai sentito di coppie instabili, “aperte” per così dire , eppure non mi spiegavo come potessero funzionare.
“Ti dispiace se faccio un bagno caldo?  Il riscaldamento faceva le bizze e l’auto era gelida. Brr.”
Sorvolai sull’onomatopea, buttata lì fanciullescamente, e per un attimo mi sentii le guance arrossarsi al pensiero di un’estranea che si serviva della vasca da bagno di casa mia, pur non essendo mia ospite.
Era la situazione che mi appariva assurda, senza senso, una novella di Lewis Carrol.
E Alice era di fronte a me, pronta a mettermi davanti al fatto compiuto, la semplice verità che non le potevo certo rifiutare qualcosa chiesta in quella maniera garbata e allo stesso tempo allegra come un trillo.
“Prego. Fai pure come fossi a casa tua.”
Sfiatai, arrendendomi all’evidenza.


******************************


Helena rientrò con le buste della spesa, i ragazzi al seguito, tutti eccitati perché avevano ricevuto il permesso di andare in piscina con Sam.

Subito si rinchiusero in camera, intenti a ripescare dai bagagli il costume da piscina, la cuffia  e l’accappatoio in microfibra, ignari della presenza della nuova ospite di casa. 
Misi piede in cucina e rimasi ad osservare la mia donna mentre riponeva i freschi in frigo, le scatole di riso e i biscotti per la colazione nella credenza, mentre la macchinetta del caffè ribolliva e borbottava in sottofondo.
Tirai un sospiro di sollievo.
Rebecca non era nei dintorni. Forse era uscita. Forse era ancora in bagno.
O forse semplicemente in veranda a godersi il panorama mozzafiato, l’unico luogo in  cui Helena avrebbe potuto fumare in tutta la casa.
Era accogliente,  invitante, intimo in qualche modo, surriscaldato, arredato con due  sdraio e un tavolino di vimini, in un angolo una cassapanca conteneva pesanti coperte di lana e pile. 
Me la immaginavo lì distesa, le sottili gambe incrociate, la schiena abbandonata all’indietro, magari un libro tra le mani oppure semplicemente le braccia abbandonate lungo il corpo. 
Poi la vidi allungare la mano,  in direzione della macchina del caffè e portarsi poi la tazzina alle labbra,  la vidi scuotere la chioma castana, avrei giurato fosse morbida al tatto, e ridacchiare briosa.
“Ha chiamato qualcuno?”
La voce di Helena mi arrivò attenuata, per un attimo ebbi la sensazione che le due immagini si sovrapponessero, quella della splendida mora dalle labbra piene e rosee e il profilo elegante, sottile, chiaro e affilato della mia compagna.
“Andrew? Tutto bene tesoro?”
Pian piano ripresi il controllo di ciò che vedevo e relegai quei pensieri da qualche parte, concentrandomi sulla macchinetta del caffè, lucida e grigia, il manico in punta semisciolto perché qualcuno doveva aver messo la fiamma troppo alta e la plastica aveva minacciato di gocciolare come la cera di una candela.
“Io… oggi è successa una cosa”
Cominciai attirando l’attenzione di Helena. Quella mi versò del caffè e me lo porse e io indugiai qualche secondo prima di prenderlo, senza motivo.
Il caffè caldo in gola mi tranquillizzò, mi aiutò a riprendere possesso dei miei sensi, sentii perfino il palato bruciare, inaridito dal liquido che scottava.
“è venuta Rebecca. Da Londra. Lei… ha detto che si fermava con Brian. Tu… ne sai niente?”
La vidi spalancare gli occhi totalmente sorpresa ma, dopo pochi secondi, eccola ritornare tranquilla, il volto teso in un sorriso forzato.
“Bene, non sapevo che Brian l’ avesse coinvolta… così staremo finalmente tutti insieme. È quello che volevamo, no?”
“E perché quella faccia allora?”
“Vorrei solo che me lo avesse detto.” Confessò con un sospiro che tradiva tutta la sua fatica “Lei dov’è adesso?” si informò, laconica.
“Non lo so. Forse in salotto, o in veranda.”
Parli del diavolo.
La sua presenza fu annunciata da un canticchiare sommesso, la sua voce allegra e acuta,  persino intonata.
Entrò ancheggiando sinuosa, padrona del campo, e subito si diresse verso il ripiano dei bicchieri, accanto al lavandino.
“Oh Helena! Ciao! Sono arrivata giusto un paio d’ore fa!” riempì il bicchiere dal rubinetto e se lo portò alle labbra, spiegate in un sorriso caloroso.
“Spero di non avervi creato problemi. Sto aspettando che arrivi Brian, sai. 
È lui che ha tutti gli estremi della prenotazione e poi…” mi strizzò l’occhio con un’aria di complicità estremamente imbarazzante, una vera civetta “…avevo bisogno di una doccia. E di un posto accogliente. Di una casa insomma!” decretò alla fine con tono di lusinga.
Quel suo modo così sensuale mi stordiva, mi sentivo in perenne imbarazzo, come se stessi tradendo la mia compagna mille volte. Passeggiava chiacchierina per la cucina commentando le nostre scelte in fatto di cibo, le marche che lei comprava, consigliava nuove ricette e tutto questo chiacchierando a più non posso.
Dopo l’iniziale stupore cominciai a  notare che la mia compagna rispondeva con la stessa moneta, alternava le sue frasi cariche di entusiasmo con brevi commenti cortesi, la gentilezza in persona e , di tanto in tanto, si dimostrava altrettanto civetta.
 Forse è questo il modo di comunicare delle donne in un contesto non familiare?
Non riuscivo a capacitarmi di quel cambiamento improvviso di registro.
Certo tutto ciò le rendeva ancora più attraenti. Entrambe.
“Rebecca, per caso Brian ti ha fatto sapere quando sarebbe arrivato?”
“Oh no, cara, mi dispiace. Ma sai com’è lui! Così indipendente, misterioso nei suoi movimenti. ”
“Io speravo che stasera avremmo cenato tutti insieme. ”
“Oh si! Potremmo cucinare del pesce!”
“In realtà da queste parti sarebbe più indicato del semolino, magari degli gnocchi.”
“Magnifico! Tesoro, che magnifica idea!”
“sarà il caso di chiamarli? Tu che dici, facciamo anche del polpettone alle erbe?”
“E magari la variante ripiena di speck di montagna? Quello si che sarebbe un colpaccio.”
“sono sicura che i bambini ne saranno deliziati!”
“Non vedo l’ora di cominciare!”

Improvvisamente mi ritrovai cacciato dalla cucina, la porta chiusa oltre cui si udivano rumori indistinti, a tratti stoviglie, a tratti il chiacchiericcio femminile che si faceva sempre più insistente, un debole chiocciare ovattato.
Ancora stordito dalla rapidità con cui le cose erano cambiate mi risolsi a rendermi utile: scoprire almeno se Brian, Stefan e Dave sarebbero arrivati in serata.
Il telefono squillò a lungo ma, all’ultimo, invece della segreteria telefonica sentii la voce suadente di Brian accarezzarmi l’orecchio.
“Pronto? Andrew sei tu?”
“Brian! Dove siete? Arrivate in serata?”
“Si. Siamo per strada. Tra un paio d’ore o poco più dovremmo arrivare.”
“Ottimo, avverto Helena. Vi aspettiamo.”
“A dopo.”
Subito mi affrettai a dare la notizia in cucina ma le due donne ormai erano in confidenza e si raccontavano episodi  divertenti su conoscenti in comune.
Non mi restava che scomparire, socchiudendo la porta.




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* Questa Eva Longoria per intenderci : 
http://www.telefilmaddicted.com/wordpress/wp- econtent/uploads/2013/09/eva-longoria-latest-wallpaper.jpg


*Per inciso, ecco qui qualcuno che non è esattamente sobrio nel vestire, con tanto amore
 http://wtfismattbellamywearing.tumblr.com/


Niente postfazione. Mi scoccio. E perdonatemi, questo capitolo è vergognosamente corto.
Ringrazio solo chi mi segue/recensisce/ricorda/preferisce, un saluto particolare a @Nainai, sempre di ispirazione e spero di aver risposto alla richiesta di @alexichains (p.s grazie per l’incoraggiamento).
Soprattutto spero che questo capitolo soddisfi voi, a me non ha convinto del tutto.
Ma pian piano si chiarirà tutto. Abbiate fede.

Neal C.
  
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