Oh, what'll you do now, my blue-eyed son?
I'm a-goin' back out 'fore the rain starts a-fallin',
I'll walk to the depths of the deepest black forest,
Kakashi aveva smesso di aver
paura dei fantasmi.
Kakashi continuava, però, a
crogiolarsi nel rimpianto.
In fondo, è più facile
rassegnarsi alla sofferenza che combatterla.
Aveva ventisei anni e una vita
sprecata.
Logorata dalla quotidianità.
Aveva ventisei anni e lo sguardo
antico.
Invecchiato da troppe colpe mai
perdonate.
Non udiva la voce del suo sensei
affermare bonariamente: «Hai fatto del tuo meglio.»
Era sempre stato gentile con
tutti, in fondo. Perché lui avrebbe dovuto costituire l'eccezione?
Non sentiva la voce di Rin
mormorare con quel suo tono dolce e comprensivo: «Ti voglio ancora bene.»
Era sempre stata una ragazza
pronta all'amore, in fondo. Come avrebbe potuto non voler bene a qualcuno?
Non ascoltava la voce di Obito,
che gli sussurrava all'orecchio la propria comprensione e un amichevole: «Non è
colpa tua.»
Era sempre stato un ragazzo
facile al perdono. Perché non avrebbe dovuto fare lo stesso con lui?
Semplicemente, Kakashi aveva
chiuso le orecchie al mondo.
Non ascoltava neanche i vivi,
perché avrebbe dovuto prestare orecchio ai morti?
Eppure
le orecchie sono fatte per ascoltare.
Ed
essere sordi troppo a lungo, può impedirci di ascoltare perfino noi stessi.
Sasuke
aveva compiuto dodici anni.
Il
bambino non c'era più; la sua tacca sulla porta aveva raggiunto, ormai, quella
di Itachi.
Non
sbagliava più un colpo con gli shuriken, né faticava a portare le buste della
spesa.
Era
il più bravo della classe.
Proprio
come suo padre e sua madre avevano desiderato.
Tra
poco si sarebbe diplomato.
Tra
poco sarebbe diventato un genin.
Tra
poco avrebbe ucciso Itachi.
Tra poco.
Forse.
Oh, what'll you do now, my blue-eyed son?
Where the executioner's face is always well hidden,
Non era felice della scelta del
terzo Hokage ma, come al solito, non aveva diritto di veto sulle scelte del
“grande capo”.
Poteva solo sperare che quel
gruppo non gli desse molti problemi.
In fondo, erano solo tre
ragazzini fastidiosi.
Sospirò, scorrendo i nomi dei
tre membri della sua squadra.
Passò rapidamente sopra a quello
della ragazza – era una brava studentessa all’accademia. Tranquilla e
diligente. – dirigendosi su quelli che, col tempo, avrebbe definito: “casi
problematici”.
Naruto Uzumaki, il jinchuuriki
del Kyuubi e Sasuke.
Sasuke Uchiha.
Ancora un Uchiha.
Di nuovo.
Merda.
Sasuke
era fiero di sé per aver superato l’esame.
Non
che la sua promozione fosse in dubbio, naturalmente.
Tuttavia,
le mani avevano tremato per un attimo nel posizionarsi per eseguire la tecnica
e le ginocchia lo reggevano a stento in piedi, mentre si avvicinava ad
Iruka-sensei per ritirare il coprifronte.
Quella
sera, a casa, ripassò più volte le dita sul simbolo della foglia inciso sul
freddo metallo.
Sorrise,
pensando a quanto aveva atteso quel giorno.
Se
il clan Uchiha fosse stato ancora in vita, i suoi genitori sarebbero andati a
prenderlo all’accademia; si sarebbero congratulati con lui e sua madre gli
avrebbe preparato il suo piatto preferito (non che fosse difficile, bastava
affettargli i pomodori. Ma erano ottimi quando li tagliava la mamma, proprio
perché era lei a farlo.); tutto il clan avrebbe festeggiato il suo diploma e
Itachi… Itachi sarebbe stato fiero di suo fratello minore.
Il
pensiero di Itachi fece un po’ male proprio in quello strano muscolo che aveva
dentro al petto; quello fastidioso che continuava a battere ancora. E ancora.
E…
Fissò
il coprifronte ancora una volta. Ricordò che anche Itachi ne aveva uno uguale.
Corrugò le sopracciglia e lo gettò alla base del letto.
In
fondo, era solo uno stupido, inutile pezzo di stoffa e di metallo.
Oh, what'll you do now, my blue-eyed son?
Where hunger is ugly, where souls are forgotten,
Il gruppo sette era nato, ormai.
Kakashi si era dovuto adattare a
quei ragazzi fastidiosi e irritanti, fino ad affezionarcisi.
Aveva conquistato, col tempo, la
fiducia di Sakura e il rispetto di Naruto.
Soltanto Sasuke lo trattava
sempre con la stessa algida indifferenza.
Quel bambino continuava a non
piacergli.
Non sorrideva mai.
Non parlava mai con i suoi
compagni, se non per offendere Naruto.
No, decisamente non gli piaceva.
Non era Obito.
E Kakashi continuava a dimenticarsi
che, nel clan Uchiha, Obito aveva costituito un’improbabile e magnifica
eccezione.
Tuttavia, quel dodicenne dal
volto imbronciato e le labbra da gatto continuava ad imporre la sua presenza e
a sostituire il viso tondo e sorridente del suo migliore amico.
E quando il passato ritorna, è
difficile cacciarlo.
Anche se sotto altre spoglie.
Il ventaglio sulla schiena, in
fondo, era lo stesso.
Kakashi
continuava a fare piccoli passi verso Sasuke, ma ogni qualvolta gli si
avvicinava, il ragazzo si allontanava di altrettanti.
Sembrava
timoroso di avvicinarsi a lui, a quel ninja che aveva – bene o male – sempre
incrociato in quei lunghi e difficili anni.
Nella
mente, conservava il vago ricordo di una testa argentata, collegata a favole
raccontate da una voce amica e parole appena balbettate.
Ma
Sasuke non si ricordava di “Tobi-chan”, né del suo: «Kachi baka!»
diligentemente strillato con l’euforia dei bambini quel giorno lontano di
undici anni prima.
Adesso
che era un ninja ed il tempo delle favole era finito per sempre, il suo
obiettivo era sempre più vicino.
Itachi
era un’ombra in lontananza che si faceva via, via più nitida.
E
le sue spalle, ancora troppo grandi e irraggiungibili, non sembravano più così
grandi.
Kakashi
tentò in tutti i modi di trattenere Sasuke, in modo da non perdere il suo
ultimo legame col passato.
Ma
Sasuke non era allegro.
Sasuke
non era esuberante.
Sasuke
non sorrideva.
Sasuke
non era un bambino, perchè la sua infanzia era stata annegata nel sangue.
Sasuke
non era Obito.
Però,
Kakashi continuava a sperarci.
Stupidamente,
testardamente, incessantemente sperava.
Ma
neanche lui poteva fare molto per un bambino troppo adulto che insegue, ancora,
le spalle del fratello.
E,
i bambini, si sa, sono molto creduloni.
Specie
quelli che hanno perso i sogni.
Kakashi
non capiva che i ventagli non sono tutti uguali, specie quelli di antica
famiglia e fatti a mano.
Inoltre,
sono anche molto facili da perdere.
Terribilmente
facili.
Oh, what'll you do now, my blue-eyed son?
Where black is the color, where none is the number,
Kakashi aveva ripreso a svolgere
le proprie missioni.
Kakashi aveva ripreso a fermarsi
di fronte alla tomba di Obito. Ogni mattina.
Kakashi, di fronte a quella
lapide, piangeva ogni giorno il suo amico perduto.
Dopo di che, si recava di fronte
al quartiere Uchiha, aspettandosi di sentire i lievi colpi di shuriken contro
l’albero, o lo sbadiglio di un bambino che abitava da solo.
Guardava la strada, cercando con
lo sguardo un ragazzino non ancora uomo che arrancava, trascinando le buste
della spesa.
Si apprestava a tornare a casa e
aspettava sempre di andare a sbattere contro un undicenne carico di incenso e
ravioli al vapore che correva sotto la pioggia.
Ogni mattina, andava al luogo
del ritrovo del suo primo gruppo genin e aspettava il rimprovero seccato del
dodicenne indisponente a cui aveva insegnato il chidori.
Ma nulla di tutto questo
accadeva e l’unico pensiero di Kakashi, allora, andava al piccolo uomo cui non
era riuscito ad insegnare veramente nulla, ma da cui aveva imparato molte cose.
In primis, che i ventagli non
sono tutti uguali, né uno è migliore di un altro: sono semplicemente frutto
dell’artigiano che li ha intagliati e dipinti.
A seconda della bravura
dell’artigiano, possono essere più pregiati o meno, ma ciò non sminuisce il
loro valore.
È l’uso che se ne fa, a
logorarli.
Se un ventaglio viene usato e
apprezzato, se “sente” l’amore di chi lo maneggia, allora non si romperà mai.
Se viene lasciato a se stesso, i
disegni sbiadiscono, fino a diventare tracce cineree di quello che erano; la
carta di riso si strappa e il legno del manico marcisce.
Kakashi aveva avuto due ventagli
e li aveva persi entrambi.
Uno era stato già seppellito,
l’altro aveva cominciato a marcire.
L’unica cosa che poteva fare,
era sperare di ritrovarlo e imparare a ripararlo.
Anche solo per sentire quel:
«Sensei.» che non gli aveva mai concesso.
And I'll tell it and think it and speak it and breathe it,
And reflect it from the mountain so all souls can see it,
Then I'll stand on the ocean until I start sinkin',
But I'll know my song well before I start singin',
«Kakashi-sen...»
«Sì,
Sasuke?»
«Niente.»
Il
giorno in cui Sasuke aveva abbandonato il villaggio...
…pioveva.
And it's a hard, it's a hard, it's a hard, it's a hard,
It's a hard rain's a-gonna fall.
E anche questa è fatta.
Grazie a tutte voi per averla seguita.
A presto.