Guy e Nigel si scambiarono uno
sguardo complice, guardando il candidato numero uno uscire dalla
cantina della casa del bassista. Sospirarono rassegnati e scossero il
capo; d'altra parte, quando si trattava di scegliere un nuovo membro
per il gruppo, il primo che si presentava non era mai quello giusto,
qualsiasi ruolo dovesse ricoprire. «No, eh» disse Nigel passandosi una
mano fra i capelli.
«Mi sa che è meglio
aspettare domani e vedere il prossimo» Guy guardò Spike di sottecchi e
mimò l'azione di cacciarsi due dita in gola.
Il cantante ridacchiò e si
sfilò la bandana viola, sciolse il nodo e la aprì, guardando i
disegnini bianchi che si dispiegavano in modo regolare sul tessuto; non
appena distoglieva la mente da qualcosa che lo teneva più che
impegnato, come le audizioni che avevano appena terminato, il suo
pensiero finiva naturalmente sul ricordo di Leah. Guy guardò la sua
espressione mutare in pochi secondi, rabbuiarsi ed indurirsi; la bocca
si contrasse e gli occhi blu si velarono di una pellicola scintillante.
Spike alzò lo sguardo e si rimise frettolosamente la bandana: «Vado a
casa ragazzi».
I due non dissero nulla;
sapevano benissimo cosa stava andando a fare il cantante. Lo salutarono
con un fugace cenno della mano ed iniziarono a riordinare la sala.
Spike salì le scale e si
diresse a passo lento verso la stazione della metropolitana di White
City, con l'umidità che lo prendeva sotto braccio e gli gonfiava i
capelli, arruffandoglieli e rendendoli appiccicosi. Teneva gli occhi
blu fissi sull'asfalto che scorreva sotto i suoi stivali; ogni tanto
vedeva che il mondo iniziava a sdoppiarsi, così era costretto a
fermarsi un attimo, alzare la testa e fare un respiro profondo. Serviva
a riparare gli argini; li avrebbe rotti più tardi nel suo appartamento.
La metropolitana affollata non era il luogo ideale dove far fluire i
propri sentimenti. Cambiò treno a Tottenham Court Road per uscire
definitivamente dal tunnel a Leicester Square. Salì nell'appartamento,
si accese una sigaretta appena arrivato in salotto e scaraventò la
giacca sul divano. Con il naso a pochi metri dalla finestra, guardava
il vetro che si bagnava progressivamente e le goccioline che, su quello
sfondo grigio, un misto di cemento e nuvole pesanti, si rincorrevano su
quella superficie trasparente per diventare sempre più grandi e
scivolare verso il davanzale. Le iridi blu seguivano quelle linee
bagnate, mentre la mano meccanicamente portava la sigaretta alla bocca,
le labbra aspiravano senza un perchè e quel denso fumo grigio gli
scendeva per la gola, fino a finirgli nelle vene, nei reni, nel cuore e
nel cervello. Quel sapore di bruciato che gli solleticava il palato,
nei momenti di solitudine gli ricordava quello schifo di libro che bruciava
sotto la pioggia, mentre la sua mano rimetteva in tasca l'accendino.
Quasi a voler imitare lo spettacolo fuori dalla finestra, una goccia
salata gli percorse la guancia, silenziosa; poi un'altra. E un'altra
ancora. Sentiva ancora il vuoto in sé; manchi... possibile che mi manchi dopo
tutto quello che mi hai fatto? Tentava con tutto se stesso di
essere razionale, di lasciarla da parte per ovvi motivi; eppure una
piccola parte di lui, ancora, l'avrebbe rivista. Anche solo per dirti ciao. Tirò sul
con il naso e voltò di poco il capo; la chitarra lo stava guardando,
pregandolo di essere presa in mano. Spike la immaginò con sembianze
umane: una bellissima donna con indosso un vestito di satin blu scuro,
che lo prendeva per le spalle e si chinava su di lui, baciandogli il
collo. Rabbrividì; troppo tempo
senza sensazioni del genere. Afferrò lo strumento per il manico
e si chiuse nella sua camera, sdraiandosi sul letto, con la chitarra
adagiata lungo il fianco. Accarezzò con i polpastrelli le corde, poi le
suonò dolcemente, sfiorandole, immaginando fossero capelli morbidi e
profumati. Chiuse gli occhi e, girandosi sul fianco, l'avvicinò
lentamente al proprio corpo, poggiando la fronte al manico. Si ricordò
delle parole di Tyla: per tutta la
vita, la donna che tieni fra le mani in questo momento sarà l'unica che
ti capirà sempre fino in fondo. Con il cuore stretto in un
laccio invisibile, trattenne il fiato e baciò il manico, immaginando di
assaporare labbra morbide e calde; si figurò di nuovo quella bellissima
donna con il vestito di satin, che lo guardava negli occhi, lo
accarezzava e si appoggiava a lui, delicata e decisa allo stesso tempo.
Sembrava dirgli di parlarle, di lasciarsi andare. Il ragazzo si rimise
supino, sempre con la testa immersa nel suo universo celato dietro le
palpebre, e dopo un respiro profondo cominciò a raccontarle il suo male
e le sue mancanze, con la mente densa di ricordi e le mani che
scorrevano su e giù per la pelle, quasi a volersi infondere calore e
conforto. Ormai era consapevole che Leah non gli apparteneva più, che
era stato un dolce ricordo ma che ora, per il suo bene, doveva
lentamente accantonare. Aprì gli occhi, sentendo il cuore pulsargli
sfrenato nelle tempie; quel dialogo immaginario l’aveva aiutato a
riordinare le idee, facendogli percepire ancor più prepotentemente
l’esigenza di buttar fuori di sé tutto il dolore che lo devastava. Con
le ciglia umide e le dita frementi, si sedette sul letto ed impugnò la
chitarra:
No need
to shout girl I can hear you
No need
to scream you're not in pain
Desiderava averla ancora
lì, di fronte a lui, per cantarle quell’addio con tutto l’amore che
aveva provato per lei. Se una lacrima gli fosse scappata via dagli
occhi non sarebbe stato orribile; anzi, sarebbe risultato solo più vero
e sincero.
My my
little girl, you're sure a tough one
You
don't have to prove it once again
Anche se fosse stata la
cosa più inutile. Anche se a te non
frega più niente di me. Faccio finta di nulla, non mi importa. Vorrei
solo ricordarti che io ti ho amato con tutto me stesso. Vorrei solo che
tu possa parlare di me con il sorriso sulle labbra.
And all
the lies have been forgotten
All the
bad things that we said
Let's
leave it now with no hard feelings
The
best five years we ever had
Quattro mesi vissuti come
cinque anni. Intensi ed importanti come non mai. Eppure, everything comes to an end. Anche
l’esperienza più meravigliosa aveva un epilogo, uno straziante canto
del cigno che stracciava l’animo di chi la viveva.
It's
the last time
It's
the last time
It's
the last time
It's
the last thing that I'm denying
So baby
stop your crying
Over me
Spike guardò la chitarra
con un piccolo sorriso, sentendosi leggermente risollevato; suonò
ancora un accordo per proseguire con la canzone, ma un battito di mani
gli fece alzare la testa. Guy era entrato senza fare rumore e lo
guardava annuendo: «Devo dire che Leah, tutto sommato, ti ha fatto
bene».
«In che senso?» il cantante
si alzò e fece per dirigersi verso la cucina.
«Nonostante il male che ti
ha fatto, ti ha reso un cantante produttivo. Mi piace questa cosa,
bello. Che ne dici se ti do una mano a finire la canzone? Ho un paio di
idee interessanti».
Spike stava per dargli una
pacca sulla spalla per ringraziarlo quando il telefono cominciò a
squillare; con la mano bloccò il coinquilino e, strisciando tranquillo
i piedi, arrivò all’apparecchio. La sua crescente serenità venne
stroncata in un secondo: «Ciao Spike». Le pupille gli si dilatarono a
dismisura, nascondendo lo splendido blu degli occhi; si augurò con
tutto se stesso di aver sentito male. Rimase muto per qualche secondo,
destando la preoccupazione dell’interlocutore che stava all’altro capo
del filo: «Mi senti? Sono Leah».
Guy vide l’amico sbiancare
e crollare sul divano: «Chi è, tua madre?».
Il cantante iniziò a
tremare, mentre fissava il vuoto davanti a sé; non riusciva a capire il
perché di quella telefonata.
«So che ti starai chiedendo
perché ti ho chiamato» la ragazza dall’altro capo del filo fece una
breve pausa «ma… volevo dirti che fra un paio di settimane torno a
Londra a trovare i miei».
Quindi? Avrebbe voluto urlarlo nel
suo orecchio, sfondandole il timpano e facendole percepire almeno una
minima percentuale del dolore che lei gli aveva provocato spezzandogli
il cuore, ma non riuscì ad emettere nessun suono.
«Pensavo che… avremmo
potuto incontrarci».
Spike ebbe un capogiro. Guy
lo vide appoggiarsi sconvolto una mano sulla tempia, come se fosse
stato colpito da un mal di testa improvviso; continuava a non capire
cosa stava succedendo.
«Volevo parlarti» Leah
sospirò «spiegarti perché le cose fra noi sono cambiate così
all’improvviso».
Una valanga di pensieri e
domande che avrebbe voluto porle investì con violenza il cervello del
cantante; se avesse avuto un quaderno, non sarebbe bastato ad annotarle
tutte.
«Mi stai ascoltando Spike?»
non udendo alcuna risposta, Leah pensò di parlare con l’aria.
Il cantante rispose
glaciale: «Quindi sei qui la prima settimana di maggio?»
«Esatto».
Il ragazzo fece un respiro
profondo per riorganizzare le idee, poi sentenziò: «Allora ci vediamo
il 3 al Dark Crimson Velvet. C’è un concerto dei Dogs D’Amour, ci
troviamo direttamente lì». Buttò giù il ricevitore con foga ed affondò
le mani nei capelli, con il diaframma immobilizzato.
Guy, sospettoso, fece due
passi verso di lui: «Non era tua madre, vero?».
Spike stette immobile per
qualche istante, poi, sempre con la faccia nascosta dagli avambracci,
parlò lapidario: «Era Leah».
Il coinquilino stette per
un po' in silenzio, poi esplose: «E TU CON CHE CORAGGIO LE DAI UN
APPUNTAMENTO?».
«Vuole solo parlare, Guy.
Non ti scaldare per niente».
«Veramente» il chitarrista
scosse la testa schifato «ha proprio una bella faccia di culo a venirti
a chiedere un colloquio dopo tutto questo tempo per cercare di
spiegarti perché ti ha scaricato. Cos’è, vuole lavarsi la coscienza?».
Guy poteva anche avere
ragione, anzi, da com’era incazzato ce l’aveva di sicuro, eppure Spike
era convinto che, davvero, Leah volesse fare chiarezza fra loro due:
«Senti, ormai l’ho persa. Lei ha preferito uno stronzo francese biondo
come quel cazzo di principino e io, più di tanto, non posso fare.
Però…» gli fece una domanda apparentemente insensata «hai trovato il
batterista?».
Il coinquilino strabuzzò
gli occhi.
Spike continuò: «Ho bisogno
di incidere un paio di pezzi e voglio qualcuno che mi batta i quattro
quarti».
Incredulo, Guy rimase a
bocca aperta: «Fammi capire… sei passato dal “voglio piantarvi in asso”
al “ti prego, ho un mare di idee”?». Si fece scuro in viso e lo guardò
di sottecchi: «Non è che hai qualche intenzione strana? Tutta questa
fretta improvvisa…».
Spike lo interruppe:
«Voglio salutare Leah senza rimorsi. “I Don’t Love You Anymore” ed il
nuovo pezzo che stavo iniziando devono finire su bobina entro massimo
due settimane. Sono canzoni per lei e voglio che le ascolti. Senza
secondi fini. Sono sue e basta». Guy stava per riempirsi la bocca con
un sonoro “vaffanculo”, ma Spike lo bloccò di nuovo: «Senza contare che
sono comunque nostri pezzi e potrebbero anche finire nelle mani di
qualcuno che li porta a qualche discografico e ci fa un contratto».
Il chitarrista rimase
immobile per un paio di secondi, poi sospirò: «Okay, non fa una piega.
Troviamo sto cazzo di pestapelli e registriamo; ti do anche una mano a
finire il pezzo nuovo. Però giuro che, se dopo il concerto dei Dogs,
Leah non si eclissa, la faccio sparire io».
Spike scosse il capo e mise
una mano sulla spalla dell'amico: «Proprio non ti piace».
«No» rispose lapidario Guy
«Non mi è mai piaciuta».
* * *
Spike sedeva con il gomito
sinistro poggiato al bancone ed un bicchiere di Newcastle Brown che
ondeggiava inquieto nella mano destra. Gli occhi gli vagavano nervosi
per il pub; ad intervalli alterni guardavano le pareti offuscate dal
tabacco che aleggiava nell’aria e poi fissavano altri sguardi. Quello
di sua sorella Julie, che correva dietro il bancone e spillava in
continuazione birre ed ogni tanto gli donava un sorriso fugace mentre
si asciugava le mani nel grembiule nero. Quello di Guy, in piedi poco
distante da lui, un po’ secco ed un po’ pungente come al suo solito,
ben celato dietro un cilindro nero un po’ scassato. Quello di Tyla, in
piedi sul palco, intento a tenere il pubblico per il bavero, che ogni
tanto gli lanciava un'occhiata complice. Ma, ancora, non aveva
incrociato lo sguardo che più di tutti aveva voglia di vedere; quegli
occhietti marroni che qualche mese prima gli avevano fatto perdere
completamente il senno. Diede l'ultimo lungo sorso dal bicchiere e lo
appoggiò rumorosamente dietro di sé, mentre con la mano si tastava per
l'ennesima volta la tasca interna della giacca; aveva una paura folle
che il nastro che avevano inciso pochi giorni prima insieme a Rudy, il
nuovo batterista, potesse inspiegabilmente rotolargli sul pavimento ed
andare in frantumi. Preferiva custodirlo lì, nascosto, vicino al
proprio cuore. Sì, come se la
cassetta potesse assorbire i tuoi sentimenti al pari di una spugna.
Erano le sue ultime parole d'amore per Leah e, qualsiasi cosa si
sarebbero detti nei minuti a seguire, voleva che le giungessero intatte
sia alle mani che alle orecchie. Guardò di nuovo Tyla sul palco,
aggrappato con la mano destra al microfono, con la Gretsch che gli
pesava sulla spalla sinistra, intento in un'interpretazione molto
ubriaca di "Unconscious Boy"; aveva gli occhi spalancati, le pupille
dilatate e la classica espressione da indemoniato che gli deformava il
viso già non stupendo. Sembrava a metà fra un malato di mente ed uno
che aveva disperato bisogno dell'esorcista; nella sua pazzia sembrava
quasi sano. Poi, d'un tratto, lo vide cambiare completamente
espressione; notò che sembrava quasi si stesse pietrificando, come se
stesse sprofondando in un baratro oscuro. I suoi occhi verdi allucinati
avevano visto qualcosa di reale che lo disarmava. Spike seguì la loro
traiettoria, mentre l'amico suonava l'accordo finale della canzone e
cominciava lo scroscio di applausi, in cerca della causa di questo
cambio così repentino. Nonostante fosse passato un sacco di tempo
dall'ultima volta che l'aveva vista, la riconobbe quasi
istantaneamente: Katherine, con i capelli biondi che le cadevano
ordinati sulle spalle, avvolta in un cappottino nero stretto e bella
come non mai, era appena entrata nel pub, catapultando nuovamente
l'amico indietro nel tempo, squarciandogli nuovamente quel cuore
apparentemente di piombo, ma in fondo così delicato, e medicato in
qualche modo con bourbon e Marlboro per anni e anni. Vide Kat fare due
passi verso il palco ed alzare timidamente la mano destra, facendo
ondeggiare le dita nell'aria in direzione dell'amico. Spike osservò
Tyla respirare pesantemente mentre le faceva un occhiolino fugace e si
impegnava il più possibile a sorriderle. Poi chinò il capo,
nascondendosi dietro la frangia spettinata, e cominciò a suonare "The
State I'm In". Avrebbe voluto alzarsi, per vedere la faccia di lei, per
capire se Kat realizzava che Tyla stava male; che aveva l'anima a
brandelli per colpa sua. Ma non voleva fare la figura dell'invadente,
non voleva intromettersi in quel dolore a cui Tyla, nonostante tutto,
era fortemente legato. Spike tornò a guardare il cantante dei Dogs
D'Amour che aveva ripreso una posizione più composta; ora stava eretto,
aggrappato all'enorme chitarra, con i capelli sudati appiccicati al
viso ed i suoi occhi verdi fissi sulla donna che non riusciva a
detestare. Suonava nella penobra del palco, con una luce rosso sangue
puntata addosso e gli accendini del pubblico che parevano quasi un
contorno funereo. Cantava quelle parole: "If you could see the state I get in, I'm
thinking 'bout you again. Every time I see you, it always seems to be
the wrong place" con la voce intrisa di dispiacere. Spike
rabbrividì e si rese conto che la ferita di Tyla era ancora aperta;
l'amico non si sentiva come lui, rassegnato, cosciente del fatto che la
ragazza che gli aveva ridotto il cuore ad un pezzo di carne macellata
non l'avrebbe mai più desiderato in alcun modo. Forse perchè con Kat
non aveva mai litigato, o forse perchè, tacitamente, qualcosa si
trasmettevano ancora: un'irrinunciabile chimica magica. Dentro di sé
aveva ancora il coraggio di custodire una piccola fiammella di
speranza. "I'm here 'cause the
whisky's free, that don't really bother me, yeah! I just don't wanna
say a long goodbye". Per un istante lo invidiò, ma subito si
ricredette; Leah, per come l'aveva trattato, non si sarebbe nemmeno
meritata le canzoni che lui le aveva scritto. Però non gli interessava;
voleva comunque dirle addio come se fosse un'amica. Proprio in quel
momento una folata di aria fredda ed umida gli schiaffeggiò la guancia,
facendolo voltare verso la porta d'ingresso. Spike sentì il proprio
stomaco contrarsi ed annodarsi mentre vedeva Leah entrare al Dark
Crimson Velvet con i capelli mogano acconciati come l'ultima volta che
l'aveva vista a Lione; si passava energicamente le mani sulle spalle
del cappotto bagnato dalla pioggia londinese come se dovesse levarsela
a tutti i costi di dosso. Per un secondo la ragazza guardò la parete,
poi diresse i suoi occhi castani verso il bancone. Quando Leah lo vide,
Spike percepì un netto tuffo al cuore. Guy guardò il coinquilino, con
gli occhi sapientemente nascosti sotto il proprio cilindro: era più
teso di un obelisco, non era quasi più capace di respirare; fece
qualche passo indietro per prendere le distanze dalla situazione e da quella zoccola che sgomitava
fra la folla del pub per dirgigersi verso l'amico con indosso uno dei
sorrisi più falsi della storia dell'umanità. Spike sentiva la propria
gola farsi sempre più stretta ed il cuore premergli contro la custodia
della cassetta, mentre Leah gli si metteva davanti e si apriva il
cappotto. Improvvisamente tutte le parole che voleva dirle sparirono
dalla sua testa. Con le pupille dilatate all'inverosimile la vide
disfarsi lo chignon, accompagnata dallo scroscio di applausi che
salutava calorosamente i Dogs D'Amour, pregandoli di tornare presto sul
palco a suonare.
«Salut, Spike» voleva suonare
spiritosa, simpatica e piacevole; gli aveva perfino fatto l'occhiolino.
Ma il ragazzo reagì quasi
disgustato: «Leah, sei a casa. Non mi parlare in francese».
Lei ridacchiò facendo
spallucce: «Dai, stavo solo scherzando. Come stai?».
«Devo essere sincero?». Fu
una risposta lapidaria, pronunciata con un tono parecchio infastidito,
che stupì lo stesso Spike; sembra
quasi che si stia prendendo gioco di me.
Leah rimase per un attimo
basita, poi cercò di cambiare argomento: «Mi stai aspettando da molto?».
«Calcola che è appena
finito il concerto, ed io ero qui dall'inizio». Altra granata lanciata
contro di lei; Spike si stupì di nuovo. Non riusciva a capire come
stesse manifestando con così tanta facilità tutto quell'astio.
Leah reclinò la testa di
lato, facendo un altro sorrisino: «Perdonami» gli parlava con voce
stridula, quasi infantile «ma ho dovuto aspettare una persona». Spike
la vide allungare dietro di sé una mano per trascinarsi di fianco un
altro ragazzo; anche questo era biondo, con la faccia rosea e gli
occhietti innocenti come quelli del Piccolo Principe. Ma non era quello
con cui Leah l'aveva tradito. «Spike, ci tenevo a presentarti Thierry,
il mio nuovo fidanzato».
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