Il tempo si era fermato.
Palpitava, il tempo,
pulsava nelle mie
tempie, sotto le mie palpebre chiuse, e in tutto il mio corpo; ogni
muscolo era teso, lo sentivo, sorpreso, sopraffatto, tremante.
Il mare, intorno a noi e
alle nostre
spalle, lasciava vibrare solamente qualche nota, a tratti, proprio
come un'onda. Ne percepivo i rumori tra un
respiro e l'altro, completamente avvolto.
Il tempo aveva iniziato a
fermarsi non
appena avevo lasciato casa mia, la mia gente. Il tempo si era
dilatato, ed era un tempo che profumava di una libertà mai
provata
prima: via, lontano, viaggiare, e nei tempi di pace ancora tutti da
scoprire era una sensazione inedita.
Avevo attraversato Rohan e
la grande
foresta di Barbalbero, Fangorn, con Gimli. Avevamo viaggiato per
mezzo mondo conosciuto, io e lui, due fratelli. Semplicemente
fratelli. Oltre l'amicizia, oltre rancori che non ci appartenevano e
che avevamo capito non esserci mai appartenuti, rancori figli di
un'epoca buia. Un amico leale, Gimli, come lo era Aragorn.
Avevamo soggiornato anche a
Gondor, per
lungo tempo, ospiti del re, suoi bracci destri, legati in eterno da
amicizia profonda. E l'amicizia che mi legava a quelle due creature
così diverse, con le quali avevo affrontato vita e morte,
era
diventata, se possibile, ancora più salda, un voto: non
avremmo
lasciato Gondor finché il suo re fosse stato in vita.
Fu con dolore, e perdita,
quindi, che
una mattina di prima estate, una mattina colorata di rosso da un sole
che si andava levando pigro, io e Gimli salpammo dai Porti Grigi,
lasciando la Terra di Mezzo.
Avevo costruito con le mie
mani una
barca. L'avevo ricavata da un piccolo albero che avevo conosciuto
là,
ai Porti Grigi, un albero che stava lentamente avviandosi alla morte.
Una piccola quercia molto simile a quelle che erano solite crescere a
Eryn Galen, non molto differente da esse. Ritenni che quel legno
sarebbe stato perfetto per il mio addio a quell'immensa parte di
mondo.
Iniziai a lavorarlo quando,
ormai,
riconobbi sul volto di Elessar i primi segni di una resa: stava
scegliendo il momento adatto per morire, il re di Gondor, e io
scavavo, pulivo e lavoravo, raffinavo, quel legno grigio tanto bello
e nodoso. La morte era una sensazione di freddo, di gelo, in fondo al
mio cuore, e mi sentivo stanco. La mia sete di scoperta e di vita non
si sarebbe esaurita lì.
Salpammo dai Porti Grigi
una mattina di
prima estate, dunque, e l'aria era fredda. Lasciavamo su quella
banchina di pietra, e lo sapevamo, un'Era intera. Cambiamenti e
conquiste, ormai ricordi.
Ricordo la lettera che
giunse dal di là
del Mare: Dama Galadriel concedeva a Gimli il Nano di raggiungere
Valinor. Era destino che, ovunque andassimo, io e quel mio imprevisto
amico – eravamo davvero una strana visione, agli occhi di
molti –
portassimo il cambiamento.
Ricordo lo sguardo di mio
padre, e il
dolore che difficilmente riuscivo ad ammettere nel separarmi da lui.
Ricordo i nostri occhi incrociarsi a malapena, nel momento
dell'addio. Un addio formale, di un re esperto e con la vocazione per
essere una vera guida per il suo popolo a un eterno principe, che non
aveva una corona con sé, perché non gli spettava.
I secondogeniti
hanno uno strano destino, di eterna sudditanza, di non appartenenza
alle linee gerarchiche; non era mia quella corona che mio padre
voleva indossassi.
Quando ci salutammo, quando
lasciai
casa, pensando “questa volta è
per sempre”, mi disse
solamente “Fai attenzione”. Mi sarebbe mancata la
sua posatezza,
e la sua severità. I suoi silenzi che raccontavano sempre
tutto come
un libro aperto.
Un libro. Fu proprio un
libro l'unico
regalo di Arian, un libro che ero solito amare, da giovane. Lo presi
dalle sue mani e la abbracciai forte, sicura che si sarebbe presa
cura di mio padre e della mia casa come sempre aveva fatto. C'era un
foglio, all'interno del libro, una pagina strappata da un'altra
storia: non so quale libro fosse, ma riguardava una piazza, una
piazza di un paese, affollata a festa.
Capii la referenza
solamente quando
ormai mi trovavo in alto mare, lontano.
Tutto mi tornava alla
mente, in quel
momento. Tutto quanto mi ero lasciato alle spalle, dolorosamente ma
con decisione. Persino la mano salda di Gimli che afferrava,
fiduciosa, la mia, quando si decise finalmente a salire a bordo.
Persino il suo comico mal di mare che era durato tutta la traversata
e si era intensificato con l'avvistamento di grossi nuvoloni neri
sopra la nostra testa.
La testa mi vorticava, e
non riuscivo a
smettere di godermi l'attimo, non avendone mai abbastanza,
abbracciando quella veste blu con delicatezza, un lungo abito blu
intenso, intenso come i capelli di lei, scuri come la notte,
voluminosi, in cui affondare le mani.
Respirai a fondo, serrando
improvvisamente le labbra. La guardai negli occhi e mi resi conto di
essermi completamente, profondamente e irrimediabilmente innamorato
di lei, di quella donna che tenevo tra le braccia e che mi sorrideva
con gli occhi lucidi e le guance rosse.
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