polverenera
Polvere
nera
Capitolo terzo:
rinascita
https://www.youtube.com/watch?v=_l1bW0QyOD0
“Perché
non puoi avere le ali per volare
Come la rondine, così orgogliosa e libera?”
Donovan – Donna Donna
Si
svegliò all’improvviso con una fitta allo stomaco
che lo fece letteralmente balzare a sedere sul materasso. Non
capì subito dove si trovasse, ma dalla morbidezza delle
lenzuola che lo avvolgevano dedusse di non aver ancora lasciato la
dimora dei Numai.
Ansimante, si prese un momento per ricordare.
La cena, la spada, lo stemma …
Si portò le mani dinanzi al viso, controllando di avere le
dita al posto giusto. C’erano anche le braccia, le gambe, le
dita dei piedi … Per sicurezza si tastò la
faccia, si toccò gli occhi, il naso, le orecchie.
Tutto al suo posto.
Dunque, nulla non gli era esploso addosso.
Confuso, provò a guardarsi attorno.
Si trovava in una stanza spoglia, su un letto pulito ma non
particolarmente lavorato. C’era odore di chiuso. Piegato
sullo scrittoio, un vecchio dall’aria impegnata annotava
qualcosa sulla pagina di un vecchio libro.
Niccolò si fece presente con un colpo di tosse.
«Ah, siete sveglio!», commentò
allegramente il vecchio, alzando il braccio e facendo volare sul
pavimento un pezzo di carta stropicciata. «Il padrone chiede
se avete intenzione di fermarvi a cena.»
«Perché no», rispose subito
Niccolò.
Provò a mettersi in piedi, ma le caviglie lo tradirono prima
di muovere un passo, costringendolo a sedersi di nuovo sul materasso in
un gran scricchiolio d’assi.
«Non così in fretta», lo
ribeccò il vecchio. «Il veleno è ancora
in circolo.»
Niccolò assottigliò lo sguardo castano.
«Il cosa?», chiese dopo un’attenta
riflessione.
Il vecchio roteò gli occhi, ma non si scompose in un
commento scorse, anzi. Con calma si alzò dallo scrittoio si
risedette accanto a Niccolò, passandogli una mano sulla
fronte e sorridendogli con fare incoraggiante.
«Avete mangiato qualcosa di avariato e il vostro organismo si
è ribellato», gli spiegò, pacato.
«Vi ho fatto bere acqua e sale, perciò potreste
vomitare ancora. Servirà a farvi riprendere più
in fretta.»
Niccolò lo guardò, lasciando che le sue labbra si
increspassero in un’espressione infelice. Per un istante si
fece pensieroso, imbronciandosi appena mentre la sua bocca si apriva in
un lampo di comprensione che parve destarlo da tutta la confusione in
cui aveva sguazzato fino a quel momento.
Poi, scuotendo il capo, ribadì la sua confusione.
«Continuo a non capire», sospirò.
«Che diavolo dovrei aver mangiato?»
Il vecchio arricciò il naso.
«Carne in salamoia, pesce marcio, tritoni.»
Niccolò alzò un sopracciglio.
«Tritoni.»
«Sì.»
Alzò anche l’altro.
«E dove li avrei trovati io, i tritoni?»
«Può esservi bastato un pezzo di carne di manzo
troppo vecchio per esser cucinato; il corpo è debole, in
questo periodo dell’anno. Ma non temete; entro sera vi sarete
rimesso completamente.»
Niccolò strabuzzò gli occhi, portandosi una mano
alla pancia per tastare la pelle tirata dai conati di vomito.
«Che diavolo ci faccio ancora qui?»,
domandò, riportando alla memoria solo in quel momento i
fatti della sera precedente.
L’esibizione, Cesare Borgia, i fuochi nel cielo …
Era tutto così confuso!
Nella sua testa, il colore dorato delle esplosioni si fondeva con i
visi e le risate degli spettatori.
Provò a rimettersi in piedi, stavolta con più
successo del primo tentativo.
Il vecchio lo raggiunse per posargli le mani raggrinzite sulle spalle.
«Il padrone ha insistito perché fossi io a
occuparmi di voi», rispose, cordiale. «Pare tenere
molto alla vostra amicizia.»
Voltandosi verso il giaciglio per recuperare borsello e cintura,
Niccolò alzò le spalle.
«Da ragazzo veniva alla nostra bottega»,
spiegò, mentre si allacciava i bottoni della casacca sul
petto glabro. Sua madre gli aveva parlato molto di Luffo Numai ma,
nonostante come fossero andate le cose tra le loro due famiglie, non
aveva mai usato parole cattive nei suoi confronti. «Mio padre
gli insegnava a mischiare gli ingredienti per fare la polvere nera.
Detto tra noi, non era un gran studente. Alla prima occasione ha fatto
saltare in aria il laboratorio e ciò che di vivo
c’era dentro.»
Il vecchio parve incupirsi un poco.
«Vostro padre?», chiese.
«E la sua prima moglie, sì.»
«Vedo che non serbate rancore.»
Niccolò sorrise appena, mostrando il palmo aperto della mano
sinistra. Gli mancavano il mignolo e parte dell’anulare,
vittime premature del suo primo esperimento nel laboratorio rimesso a
nuovo dopo anni di sforzi.
«Sono cose che capitano, quando si fa il mio
mestiere», disse, allora, alzando le spalle con fare
noncurante.
E noncurante lo era davvero: in fondo, di suo padre non ricordava che
la voce. Era troppo piccolo per serbarne altre memorie ma, in tutti
quegli anni, aveva fatto in modo di farselo bastare.
«Nulla che non sia capitato anche a me.»
Il vecchio assottigliò lo sguardo scuro.
«Cosa intendete dire?»
Niccolò rimase un istante in silenzio, avviandosi verso la
porta prima di afferrare la borsa che qualcuno aveva abbandonato a
ridosso del muro.
«Lasciamo il passato ai nostri avi», rispose,
sagace. «Andrò a ringraziare Messer Numai di
persona. Grazie di ogni cura … come avete detto che vi
chiamate?»
Il vecchio corrugò le sopracciglia.
«Cappelletti. Dottor Francesco Cappelletti.»
«Grazie di tutto.»
Soddisfatto, il ragazzo fece per andarsene, ma la voce del dottore lo
bloccò sull’uscio, costringendosi a voltarsi verso
lo scrittoio.
«Aspettate, Sartori!»
«Sì?»
«C’è una cosa che non vi ho
detto.»
Niccolò tirò su col naso.
«Sarebbe?»
«Mentre dormivate, la scorsa notte un uomo è
venuto più volte a chiedermi il vostro stato di
salute.» Il vecchio fece una pausa, torturandosi con dei
gesti nervosi i polpastrelli rinsecchiti. «Ha detto di
chiamarsi de Corella e di essere un mandante di Cesare
Borgia.»
Niccolò sospirò.
«Dunque il Valentino ora vuole la mia testa per essergli
svenuto sui piedi?», commentò, affranto.
Cappelletti si affrettò a scuotere il capo.
«Tutt’altro», precisò.
«Si è detto alquanto interessato alle vostre
polveri.»
Il rumore delle spade che si
stavano scontrando nella stanza affianco strappò
l’ennesimo sospiro scontento dalle labbra di Vittoria mentre,
dinanzi al caminetto con le sue dame di compagnia accanto, la ragazza
si accingeva a concludere un lavoro di ricamo di cui andava piuttosto
fiera.
«Che vita triste», commentò, affranta,
posando ago e filo per rivolgersi a Giacomo.
Il ragazzo, sdraiato su un divano, intento a farsi imboccare
scherzosamente da Francesca, si alzò sui gomiti, mancando
miseramente un acino d’uva.
«Vittoria, mia bella, che succede?», rispose,
mostrandosi addolorato per la sorella.
La ragazza sospirò.
«Cesare Borgia è qui da ieri sera e non mi ha
ancora rivolto la parola», confessò.
«Non un fiore, un sorriso, uno sguardo. Non capisco, Giacomo:
sono davvero così brutta?»
Attorno a lei cominciarono a fioccare i commenti delle sue dame.
«Siete bellissima, Madonna Vittoria», la
rassicurò Margherita, posando il libro che fino a poco prima
stava leggendo. «Di gran lunga la più graziosa tra
le fanciulle di Forlì!»
«Il Duca è comunque un uomo sposato»,
precisò Francesca. «Può darsi che
voglia rimanere fedele al patto stipulato con le nozze.»
«Non andrei di certo a raccontarlo ai quattro
venti», ribatté afflitta Vittoria, sprofondando
nelle vesti turchesi.
«Sarebbe comunque peccato», commentò
Giacomo. «Antico Testamento, Levitico diciotto-venti:
“Non avrai
relazioni carnali con la moglie del tuo prossimo per contaminarti con
lei”.»
Francesca commentò con un gridolino divertito la sua
preparazione in fatto di Scritture e il ragazzo parve ben soddisfatto
della sua esposizione.
Vittoria roteò gli occhi.
«Un minimo di interesse sarebbe comunque gradito»,
bofonchiò. «Persino Guglielmo, ha preso ad
ignorarmi.»
Giacomo fece spallucce.
«Guglielmo che ci ignora? Non mi pare poi così
strano.»
«Cesare e vostro fratello se ne stanno nell’altra
stanza da ore», commentò cauta Simonetta.
«Devono divertirsi un sacco, a farsi la guerra con le spade
dell’armeria.»
«Sono due ottimi spadaccini», ribatté
Giacomo.
«Due uomini di guerra», confermò
Vittoria.
Il più giovane dei Numai parve illuminarsi.
«Due uomini», ripeté, annuendo piano
mentre con lo sguardo passava da Francesca a Simonetta, le due dame di
compagnia più anziane. «Amano due donne, non due
ragazze. Se posso dare il mio umile consiglio di uomo di fede, sorella
cara, il tuo è fondamentalmente un problema
d’età: troppo giovane.»
Vittoria gonfiò il petto.
«Ti rammento che sono più vecchia di te di un
anno!», esclamò, offesa.
«E io ti rammento che ho compiuto quindici anni a novembre.
Tolto Guglielmo e i suoi modi da matusalemme, Cesare Borgia potrebbe
fare da padre a tutti noi.»
Margherita ridacchiò.
«Precoce, ad avere venticinque anni e un figlio di
quindici.»
«Margherita!», la rimproverarono subito Francesca e
Simonetta.
La dama rise appena, roteando gli occhi quando le sue due compagne le
lanciarono addosso un mare di gridolini scandalizzati.
Vittoria si limitò a scuotere il capo con aria divertita e a
incrociare le braccia sul petto, mentre Giacomo si portava a sedere
più compostamente sul cuscino morbido del divano.
Era incredibile quanto fosse divenuto arguto, a stare in seminario. E
dire che, quando era partito, in lacrime e alto neanche la
metà di Vittoria, era talmente timido da non riuscire
praticamente a rivolgere la parola agli sconosciuti.
Timido e astemio, per la precisione, ma quelle sue
peculiarità erano state completamente distrutte dopo i primi
due anni a Pisa.
Ormai, del Giacomo che era partito da Forlì non era rimasto
che il viso tondo e la mente brillante. Con grande gioia di Vittoria,
per inciso, che nel fratello aveva scoperto una fonte di
intrattenimento non indifferente.
«Che dovrei fare, in tua opinione?», gli chiese,
quindi, certa di ricevere qualche tipo di scherzo di rimando.
Giacomo, invece, parve prendere la faccenda alquanto seriamente.
«Essere una signora», rispose, annuendo piano.
«Le ragazzine non piacciono, agli uomini.»
Vittoria scattò in piedi.
Suo fratello aveva ragione, dopotutto.
Chinando appena il capo, si diede della stupida per non averci pensato
prima. Chi mai si sarebbe aspettato di poter apparire affascinante con
un cesto di ricamo tra le mani?
«So cosa fare», dichiarò, sottovoce,
volgendo lo sguardo verso Giacomo. «Dì alla
servitù di preparare una carrozza.»
Lui alzò un sopracciglio.
«Posso sapere dove siamo diretti?»
Vittoria strinse le spalle.
«Alla Rocca di Ravaldino.»
Vi fu un istante di silenzio in cui le dame di compagnia spalancarono
la bocca e in cui, sbigottito, Giacomo si infilò un dito
nell’orecchio, provando teatralmente a pulirlo.
«Temo di aver sentito male», commentò,
poi. «Dov’è che stiamo
andando?»
Vittoria roteò gli occhi.
«Da Caterina Sforza, alla rocca di Ravaldino!»
«Vorrai dire dal caro Generale d'Allègre che, per
inciso, ci taglierà le gambe solo per aver pensato di
conferire con Madonna Sforza.»
«Lasciami fare, Giacomo. Trovo che sia un’ottima
idea. Ne parlerò immediatamente con Guglielmo!»
Il ragazzo restò impalato dov’era, arricciando
appena il naso prima di dare una sonora sberla al bracciolo del divano.
«Al diavolo la carrozza!», esclamò, poi,
balzando in piedi per seguire Vittoria verso la porta della stanza
adiacente. «Tu, Guglielmo e il Valentino! È come
la Messa di Pasqua con il prete ubriaco! Figurati se me la
perdo!»
Congedate le dame di compagnia, i due fratelli bussarono alla porta
della stanza vicina, attendendo con garbo di venire invitati ad entrare
prima di fare il loro ingresso in quella che, solitamente, veniva
utilizzata da Guglielmo e i suoi garzoni per tirare di scherma.
Vittoria, ben lontana da tutto ciò che fosse più
affilato del suo ago per il ricamo, non aveva quasi mai messo piede in
quella sala.
Si stupì di trovarla riscaldata dal caminetto acceso, pulita
e ordinata, colma di luce che dalle finestre brillava sul marmo bianco
del pavimento.
Da quando ci fosse del marmo lì, per Vittoria era un mistero.
Rimase a contemplare il lastricato per un istante, pensierosa,
dopodiché piroettò sulle scarpine color del cielo
e si voltò a braccia conserte verso suo fratello Guglielmo,
in piedi accanto alla finestra con la spada poggiata alla spalla e la
camicia sporca di sudore. Ansimava parecchio, passandosi una mano nei
corti capelli neri per allontanare i ciuffi più lunghi dalla
fronte corrugata.
Mai come in quella volta, Vittoria lesse negli occhi di suo fratello
l’ombra dell’ira.
Si voltò allora verso Giacomo, che nel frattempo si era
comodamente seduto sul tavolo con le gambe a penzoloni, e
scambiò con lui una smorfia.
«Buon pomeriggio», esordì, poi, muovendo
un passo poco convinto verso Guglielmo.
Lui scosse il capo tanto rapidamente che un paio di ciuffi ribelli si
scostarono da dietro le orecchie e gli ricaddero sul naso.
«Sorella», mormorò, inchinandosi appena.
«Giacomo.»
Dal tavolo, Giacomo emise un suono acuto in segno di saluto.
Vittoria sospirò, alzando la gonna quel tanto che bastava
per voltarsi con grazia verso il Valentino, dritto dinanzi al caminetto
con le braccia incrociate, e onorarlo con un piccolo inchino.
Lui si avvicinò per prenderle la mano, mai lei lo
fermò con un lieve cenno del capo.
«Non vi disturbate», disse, con tono soffuso ma
deciso. «Vorrei conferire con mio fratello maggiore e terrei
particolarmente alla vostra presenza.»
Quando Cesare Borgia acconsentì alla sua richiesta con un
mezzo sorriso, Vittoria respirò a fondo, lasciando che anche
Guglielmo potesse avvicinarsi.
«Mia madre si sente sempre più debole»,
incalzò. «E la casa ha bisogno di una
governante.»
Guglielmo annuì con fermezza.
«Ne sono consapevole. Madonna Ricci sarà di
ritorno da Roma entro poche settimane.»
«Madonna Ricci ha servito con amore la nostra famiglia, ma
non c’è più bisogno di scomodarla. Sua
madre è anziana, sono certa che non sopporterebbe di veder
partire la figlia. Mi occuperò io della casa.»
Guglielmo Numai non era mai stato particolarmente espressivo, anzi,
molte volte Vittoria si era chiesta come potesse essere così
bravo a mascherare ogni sua più lieve emozione, eppure, in
quell’istante, nulla riuscì a celare lo sguardo di
profondo odio che lui le buttò addosso.
Sembrava una minaccia di morte.
Vittoria si sentì avvampare, ma non si scompose.
«So già far di conto, dirigere la
servitù non sarà un problema»,
insistette.
«Sei troppo giovane», decretò Guglielmo
e, in altre occasioni, quella sua affermazione sarebbe stata la fine di
ogni discussione.
Ma non quel giorno, perché Vittoria non aveva intenzione di
demordere.
Così, gonfiando il petto, la ragazza portò le
mani ai fianchi, pronta a controbattere con la stessa grinta di suo
fratello maggiore.
«Tua moglie aveva la mia età quando nostro padre
le ha affidato Palazzo Albertini, eppure casa tua è ancora
in piedi!», protestò.
«Hai già le tue dame di compagnia, a cui
badare.»
«Il padre di Simonetta la vuole sposa entro
l’estate, mentre Francesca è stata promessa in
sposa a un pisano. Di certo, tra qualche mese non mi resterà
poi molto da tenere sott’occhio.»
Guglielmo roteò gli occhi, guardandosi bene dal dare
ulteriori commenti. Scambiò una breve occhiata con Cesare
Borgia, dopodiché tornò a concentrarsi su sua
sorella, severo come mai prima d’ora.
«E sia», concesse, storcendo il naso. «Ma
che ti affianchi Cappelletti, visto che pare l’unico ad avere
ancora un po’ di sale in zucca.»
Vittoria sorrise, trattenendosi con fatica dal prendere a saltellare
assieme a Giacomo come era solita fare nelle normali occasioni. La voce
di suo fratello, infatti, le risuonava ancora in testa: una signora, Vittoria.
E le signore, che lei sapesse, non si scomponevano mai.
«C’è un’ulteriore richiesta,
che vorrei fare come governante», disse allora,
posizionandosi al fianco di Guglielmo per rivolgersi con educazione al
Valentino. «Che Messer Cesare il Duca mi accompagni prima di
sera fino alla Rocca di Ravaldino, se egli non è
occupato.»
Guglielmo sgranò gli occhi. Pareva sull’orlo di
dare di matto.
«La Rocca non è luogo consono a una donna, in
questo momento», commentò, ma Cesare lo
bloccò con alzando la mano e muovendola appena nella sua
direzione.
«Cosa dovete andare a fare, alla Rocca di
Ravaldino?», chiese, cortese, tanto che Vittoria non
poté evitare di arrossire. «È sede
dell’esercito francese, in questi giorni.»
«Ne sono conscia.» La ragazza si sforzò
di sorridere, sebbene l’imbarazzo le permettesse di muovere
persino un singolo dito. «Tuttavia, mi preoccupo per i figli
di Madonna Sforza.»
«I figli di Caterina sono sotto la custodia del Generale
d'Allègre», fece prontamente presente Guglielmo.
«E non dubito che le sue cure siano degne di quelle riservate
a un re», incalzò svelta Vittoria.
«Tuttavia, il più giovane degli Sforza, Giovanni,
non ha che due inverni. Sono convinta che sia la presenza di una donna,
ciò di cui ha bisogno, non quella di un soldato, per quanto
esso possa saper far bene il suo dovere.»
«E intenderesti occupartene tu?»
«Io e la balia, certo.»
Guglielmo si portò entrambe le mani al viso.
«Non intendo ascoltare oltre i tuoi deliri,
Vittoria», rispose, lapidale, mentre posava al muro la spada
per avvicinarsi alla tinozza d’acqua sul tavolo.
«Cesare, non prestatele attenzione; mia sorella deve ancora
imparare dove sia posto il limite tra realtà e
fantasia.»
Il Valentino sorrise, offrendo il braccio alla ragazza con un lieve
inchino.
«Invece ammiro molto l’apprensione di Madonna
Vittoria», rispose, guardandola in viso con
un’espressione per la prima volta rassicurante. «E
condivido appieno il suo punto di vista; un figlio ha bisogno di una
madre. Perciò, contate pure sulla mia presenza, Vittoria. Vi
accompagnerò da d’Allègre seduta
stante.» Sorrise di nuovo, stavolta socchiudendo gli occhi
per un istante. «A meno che Guglielmo non voglia continuare
il nostro duello.»
Guglielmo si accigliò, scambiando con Giacomo
un’occhiata seccata prima di sospirare e accennare un
sorrisetto tirato.
«Mio fratello Giacomo vi sostituirà»,
rispose, con una punta di perfidia nella voce roca.
Giacomo strabuzzò gli occhi.
«Accidenti, no!», protestò, ma nessuno
gli diede retta.
Vittoria sbuffò con leggerezza, stringendosi con grazia al
braccio di Cesare Borgia prima che questi prendesse a camminare con
passo bonario verso la porta.
«Avete uno straordinario talento nel far innervosire vostro
fratello», le sussurrò lui, senza mascherare un
certo divertimento.
«No», rispose Vittoria, accennando una smorfia
rallegrata. «Mio fratello ha uno straordinario talento
nell’innervosirsi da solo!»
Risero assieme, accostandosi per un istante alla porta prima di
abbandonare la stanza con il pavimento di marmo bianco per tornare in
quella dove poco prima le dame di compagnia si godevano un intero
pomeriggio d’ozio.
L’ultima cosa che Vittoria udì prima che
l’uscio le si serrasse alle spalle, fu lo scrosciare
dell’applauso che Giacomo riservò a
quell’uscita di scena.
Note
d'autore
Buonasera!
Volevo
pubblicare il capitolo ieri ma poi mi sono persa nei meandri
dell'oscuro fandom de Les Miserables e non sono riuscita a riemergere
in tempo per finirlo! :(
Ho
rimediato oggi.
Dunque,
nelle note di oggi volevo spiegare un po' la faccenda della tetrodotossina, quello che forse
ricorderete come il "veleno del tritone" e che ai giorni nostri
è più famoso come "veleno del pesce palla". Si
tratta di una potente neurotissina che pura risulta cento volte
più potente del cianuro (è stata sintetizzata
soltanto nel 1900 e, a dire il vero, il primo caso documentato della
sua esistenza si ha soltanto nel corso del '700). Presente nel tritone,
appunto, ma anche in moltissime specie di pesci e mammiferi, viene
solitamente prodotta da alcuni bateri.
La
massima concentrazione di tetrodotossina si ha nel fegato dell'animale
che, se ingerito, risulta letale (non nel caso di animali piccoli come
il nostro tritone, naturalmente). I sintomi di avvelenamento si
manifestano in media dopo 2-3 ore e comprendono emicranie, giramenti di
capo, vomito, paralisi.
La
morte, che in genere arriva dopo 5-6 ore, avviene per soffocamento.
Ad
oggi, non esistono antidoti efficaci al 100%, sebbene nei casi meno
gravi venga praticata la lavanda gastrica (o, come nel caso di
Niccolò, un bel po' di acqua e sale).
Detto
questo vi saluto, per oggi ho finito le lezioncine prese da Wikipedia
°-°/
Tanti abbracci,
Lechatvert
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