Accade tutto in pochi secondi. Le
luci di emergenza
smettono di corrermi davanti, il vagone si ferma di colpo e le luci si
spengono, facendo affondare volti e oggetti
nell’oscurità più cupa. Un neonato
comincia a singhiozzare, esplodendo in un pianto interrotto da
singulti.
Bisbigli, mormorii e sbuffi riempiono lo spazio che mi circonda, mentre
quel
senso di disagio non smette di pungermi.
Le voci si fanno più
alte, le lamentele più aspre, mentre
la voce del conducente, resa meccanica e gracchiante dal vecchio
altoparlante,
cerca di rassicurare i passeggeri che sarà
un’interruzione momentanea, una cosa
breve.
Stringo la borsa tra le mani,
affondando la schiena nel
sedile e cercando di calmare il respiro. Odio i luoghi chiusi, odio il
fatto di
dover essere schiava degli orari della metro, odio l’eccesso
di odori e colori
che si ammassano qui dentro.
Eppure ora il colore è
uno solo, più scuro che mai. Comincio
a rimpiangere le luci di emergenza e il rumore sferragliante del mezzo
sulle
rotaie.
Un improvviso movimento
d’aria mi fa voltare la testa, ma
non capisco da dove arrivi. Un secondo e tutto torna come prima,
incastrato nel
tunnel nero.
Il bimbo continua imperterrito a
urlare mentre le anziane
signore che rientrano dal mercato spettegolano e gli impiegati
sbuffano.
Penso all’appartamento
vuoto, al gatto che reclama la sua
cena, al ronzio del frigorifero che mi aspettano, mentre gli occhi si
abituano
gradualmente all’assenza di colore. Li chiudo, appoggiando la
testa al
finestrino e respirando profondamente, per cacciare
quell’agglomerato di
tensione e paura che pesa sullo stomaco.
Chissà come
starà reagendo lo sconosciuto nel fondo del
vagone. Con il buio non può fissare le persone. Nella mente
si delinea quella
scintilla inquietante, che mi fa tremare nuovamente le mani.
|