Capitolo
2
Il
passato ritorna a trovarci in modi che ci stupiscono sempre: un suono,
un odore, un oggetto possono scatenare ricordi che pensavamo sepolti.
Ricordi divertenti, ricordi dolorosi, ma sempre ricordi.
*
* *
Cinque
anni dopo…
*
* *
«
Fliché. Cavazione. Parata. Affondo. Parata. Finta. Affondo! Perfetto, Emma! Stai
andando sempre meglio. »
«
Ma non riesco ancora a reggerla con una sola mano. Devo fare di meglio,
zio Jem! »
«
Puoi migliorare, è vero, ma sei comunque bravissima per la
tua età. E con quella spada te la cavi sicuramente meglio di
quanto non me la cavassi io. E sono sicuro che Julian è
d’accordo con me. Non è vero? »
Il
suddetto Julian, seduto sui gradini della palestra
dell’Istituto di Los Angeles con un album da disegno sulle
ginocchia, alzò lo sguardo e annuì. Non aveva
seguito la conversazione nei dettagli, ma di solito quando Emma parlava
con suo zio era sempre dei suoi progressi e di quanto fosse brava. Non
era difficile capire che ancora una volta James Carstairs, lo zio di
cui nessuno aveva conosciuto l’esistenza prima che saltasse
fuori per prendersi cura di Emma quando aveva perso i genitori, lo
aveva tirato in ballo per farsi aiutare a convincerla della sua bravura.
Tornò
con gli occhi al suo disegno, un bozzetto che aveva tutta
l’intenzione di far diventare un ritratto da regalare ad Emma
il giorno in cui le avrebbe finalmente confessato quanto la amava, e
cercò di renderlo il più possibile vicino alla
sua Emma. Era perfetta. Non importava quante volte le avesse tirato le
trecce quando erano bambini, o quante volte l’avesse vista
con gli occhi gonfi di lacrime e il naso arrossato. O forse
sì, importava, e gliela rendeva ancora più cara.
Riprese
in mano il carboncino e continuò a disegnare.
«
Puoi chiedergli qualunque cosa, tanto non gli interessa! Passa tutto il
suo tempo in compagnia dell’album da disegno, o di tela e
pennelli, o con la tavola da surf. »
Julian
si sentì chiamato in causa per l’ennesima volta
dalle solite lamentele di Emma. Sorrise, cercando di nascondere la
soddisfazione che provava nel capire quanto le desse fastidio il suo
disinteresse. Che poi, prima o poi avrebbe dovuto spiegarle quanto quel
suo disinteresse fosse in parte fittizio, per innervosirla, e in parte
reale, perché se avesse potuto abbandonare la vita da
Shadowhunter senza abbandonare la sua famiglia, e lei,
l’avrebbe fatto.
«
Sei gelosa, Emma? » le chiese, in un tentativo poco segreto
di innervosirla ancora di più e di mettere da parte i suoi
neri pensieri. A cui Emma abboccò immediatamente.
«
Nei tuoi sogni, Blackthorn. È che vorrei un Parabatai
più interessato ad allenarsi per combattere al mio fianco
che a farmi da zavorra ogni volta che usciamo ad uccidere demoni.
»
Mentre
parlava Emma si era avvicinata a Julian, che prontamente aveva chiuso
l’album da disegno per nasconderle quello a cui stava
lavorando, e si era fermata con la faccia a pochi centimetri dalla sua.
E lui era un ragazzo, e quella vicinanza gli faceva fare strani
pensieri. E sotto i venti centimetri ci scappa il bacio, sempre, anche
se si è Parabatai. E…
«
Emma, dagli un po’ di tregua. »
Emma
si voltò verso suo zio e Julian respirò di nuovo.
Si sentiva le guance accaldate e sperava di non essere arrossito.
«
Facciamo una pausa. Voglio raccontarti una storia. »
«
Che storia? » chiese Emma, sinceramente curiosa. Julian
ricordava ancora quando si nascondevano nella palestra e guardavano
John Carstairs, il padre di Emma, tirare di scherma ed allenarsi con
gli shuriken. Li portava sempre a fare merenda e in spiaggia a surfare,
facendo finta di non essersi accorto che erano stati lì
tutto il tempo. E raccontava loro sempre qualcosa. Una fiaba, una
storia vera, qualcosa.
La
preferita di Emma era…
«
La storia della spada che hai in mano. »
Emma
sussultò, ma riuscì ancora una volta a farlo
passare per fastidio. Lui, che la conosceva bene, vedeva oltre quella
faccia scocciata e quello sbuffo spazientito. Era colpita dal fatto che
lo zio James conoscesse la sua storia preferita.
«
La conosco già. Papà me la raccontava sempre. E
subito dopo mi suonava un pezzo meraviglioso al violino. Mi manca un
sacco la musica che mi suonava, ma non ho ereditato neanche un briciolo
del suo talento. »
Emma
si era incupita, come ogni volta in cui tirava fuori i suoi genitori.
La loro perdita le pesava ancora molto, nonostante cercasse di pensarci
il meno possibile.
«
Ok, vai a prendere il violino di tuo padre. Ti suonerò
qualcosa. »
*
* *
Vedere
quella custodia e precipitarsi a strapparla dalle mani di Emma era
stata quasi un’unica azione, per Jem. Julian ed Emma si erano
scambiati uno sguardo stupito, Jem non si era mai comportato
così, era sempre stato molto calmo e paziente.
Tirò
fuori lo strumento dalla custodia con cura, e lo salutò
accarezzandolo come si accarezza un’amante. Non che Julian
sapesse come si accarezza un’amante, ovviamente, ma era il
tipo di devozione che lui avrebbe avuto per Emma, se lei glielo avesse
lasciato fare.
Passò
del grasso sul crine di cavallo dell’archetto e
pizzicò le corde per controllare l’accordatura
dello strumento, che Emma faceva aggiustare ogni sei mesi con
attenzione quasi maniacale. Il fatto che non fosse in uso, diceva, non
era una buona ragione per lasciarlo in balia della polvere e della
rovina. Quello che non diceva era che curare lo strumento di suo padre
le dava l’idea di averlo ancora vicino.
Quando
Jem poggiò il violino sulla spalla, un attimo prima che lo
incastrasse sotto il mento e sollevasse l’archetto sulle
corde, Emma trattenne il fiato e abbandonò la testa sulla
spalla di Julian, che le cinse la vita con un braccio. Quando le prime
note si liberarono nell’aria, fu lui a trattenere il respiro
per la bellezza di quella musica, che gli raccontava un grande amore e
una grande amicizia, le risate di un bambino, il mistero della vita e
il silenzio della morte. Si rese conto che quella musica era molto
simile a quella che John suonava di solito a lui ed Emma, quando lo
rincorrevano per l’Istituto, impazienti di imparare a
maneggiare la spada che lui aveva sempre al suo fianco. La spada che
ora Emma aveva al suo fianco.
Le
ultime note vibrarono nell’aria insieme alla consapevolezza
che Emma gli era stata vicina per tutto quel tempo, insieme alla
consapevolezza che Emma gli aveva pianto addosso tutto quel tempo.
Jem
sorrideva, mentre metteva via lo strumento, accarezzandolo per
un’ultima volta prima di chiudere il coperchio della custodia
di legno che doveva avere almeno cent’anni e dove erano
incise le iniziali di uno dei proprietari del violino. J.C. Avevano
sempre pensato che si trattasse delle iniziali del padre di Emma, ma se
invece fossero state quelle del primo proprietario del violino? E se
quel primo proprietario fosse stato proprio lo zio James, venuto fuori
dal nulla quando Emma aveva avuto bisogno di lui?
«
Era… una musica bellissima, zio Jem, » disse Emma,
tirando su con il naso in modo poco signorile. Ma in fondo, cosa
pretendeva da una guerriera? E poi lei era perfetta così.
Jem
si sedette vicino a lui, e lo fissò per qualche
istante—li fissò per qualche
istante—prima di sospirare e parlare.
«
Anche io mi nascondevo in palestra quando mio padre si allenava con la
spada. Mi piaceva guardare quei movimenti eleganti e sognare che un
giorno mi avrebbe insegnato a maneggiare Cortana con la stessa eleganza
con cui la maneggiava lui. Poi uscivamo in giardino e lui si sdraiava a
terra mentre io mi esercitavo con il violino. Quando lui e mia madre
sono morti ho pensato che fosse colpa della mia scarsa
abilità con la spada. E poi ho conosciuto Will. »
«
Will? » chiese Julian, consapevole di non aver mai sentito
quel nome se non nelle Cronache.
«
William Owen Herondale. Il mio Parabatai. Il padre della tua antenata
Lucie. »
«
È ridicolo, dovresti avere—»
«
Centocinquant’anni, Emma. »
Emma
scoppiò a ridere, come se quel pensiero fosse semplicemente
ridicolo. Beh, lo era. Per avere centocinquant’anni sarebbe
dovuto essere decrepito.
«
Dovresti essere morto da un pezzo, a meno che tu non fossi…
» Emma si interruppe bruscamente, in preda a una strana
epifania. « Fratello Zaccaria. »
Jem
sorrise quasi imbarazzato. « Jace ha salvato anche me.
»
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