Premessa:
Salve a tutti!
Chi di voi ha letto
qualche mia altra storia in precendenza, sa benissimo che io tendo a
chiacchierare molto nelle mie premesse, ma stavolta credo
sarò appena un poco più breve (specie
perché non so nemmeno io che dire lol). Innanzitutto (e notate
bene perché questo è importante), la seguente
storia è stata sviluppata grazie ad un gioco che ho di
recente "brevettato" con una mia amica, secondo il quale una persona
scrive un dialogo e un'altra è incaricata di usarlo per
costruirci una storia. Quindi dovete ringraziare la favolosa
Karan Haynes (a cui deidico questa storia con infinito
affetto <3) per i dialoghi! :)
Seconda e credo anche
ultima cosa, è la prima volta che mi cimento in questo
genere. E' un po' diverso da quello che tratto solitamente e
perciò sono un po' incerta sul risultato, ma spero che sia
di vostro gradimento!
Detto questo, non mi
resta che augurarvi buona lettura! :)
Quella non era la prima
volta che Eunsook percorreva il lungo corridoio della villa.
Ma per quanto fosse
ormai passata una settimana dal giorno in cui aveva deciso di accettare
l’invito dell’amica – la cara, ma ormai
quasi sconosciuta Minjung -,sembrava le fosse impossibile abituarsi a
quegli alti finestroni e al costante silenzio che troneggiava su ogni
stanza. Non riusciva nemmeno a sentire il rumore delle sue scarpe che
battevano contro la moquette rosso vermiglio (di quelle che ormai si
vedono soltanto negli alberghi di lusso), quasi come se tutto in quella
villa – ogni persona, ogni letto, ogni vecchio pavimento o
quel che fosse- vivesse di un riverente rispetto per quel vuoto di
suono e parole.
Eunsook non avrebbe
saputo dire se trovava ciò più spaventoso o
più affascinate; era certo però che il battito
assordante del suo cuore – quel martellio onnipresente e
inarrestabile- fosse solo colpa della chioma lunga e corvina di
Minjung, dei suoi occhi acquosi e grandi abbastanza da annegarci dentro
e delle sue labbra carnose – quelle bellissime labbra
carnose.
In ogni caso non aveva
importanza. Anche quei pensieri si persero lentamente nel silenzio,
passo dopo passo fino all’ultima camera che affacciava su
quel corridoio.
Prese un ultimo,
profondo respiro – un’istante per strizzare gli
occhi e dimenticare tutto-, per poi dipingersi un raggiante sorriso in
volto e aprire la porta di quella stanza. La sua stanza.
“Oh, che bella
giornata, vero Minjung?” esclamò non appena messo
piede dentro. La preoccupazione che l’altra potesse star
ancora dormendo sembrava impallidire di fronte alla speranza che fosse
la sua voce soffice il primo suono a riaccoglierla ancora una volta
nella realtà, a destarla quell’oggi dal sonno.
Sperava potesse in quel sol gesto cancellare ogni sospiro bollente che
il Conte aveva di sicuro dipinto la notte prima sulla pelle della sua
amica.
Quando non ricevette
alcuna risposta, le labbra le si incurvarono lungo le tracce di un
sorriso. Le tende erano già state aperte e la luce del sole
riluceva con forza contro le lenzuola bianche del grande letto
matrimoniale. La divertiva il fatto che dopo tanti anni in cui avevano
perso i contatti, vi fossero ancora quelle piccole abitudini, quei
piccoli dettagli così tipici di Minjung: il modo in cui
assottigliava gli occhi quando immersa nei suoi pensieri, la sua mania
di tamburellare il piede quando seduta e, come in questo
caso, il suo sonno pesante.
Non era un problema; al
contrario Eunsook si sentiva elettrizzata al pensiero di tornare a
giocare come ragazzine – qualche passo in punta di piedi
verso il letto e le braccia già protese in avanti per
avventarsi sul corpo dormiente dell’amica. Quante volte si
erano fatte questo tipo di scherzi a vicenda?
Era proprio Minjung la
prima ad avere la passione di svegliarla in modi impensati,
solleticandole la pancia o soffiandole sull’orecchio. Se li
ricordava ancora quei polpastrelli callosi massaggiarle
l’ombelico, quel respiro caldo giocare con il suo lobo
scatenando in lei pensieri che non aveva mai davvero sepolto, ma solo
finto di dimenticare durante gli anni trascorsi senza più
vedersi.
Ma quella volta il suo
non fu altro che un tuffo in una nuvola ed Eunsook affondò
inaspettatamente e un po’ goffamente nel soffice materasso.
Il letto era deserto.
“Minjung dove
sei?” mormorò un po’ incerta, esplorando
con lo sguardo il resto della stanza, in cerca di un segno che le
potesse far capire dove fosse scomparsa la sua amica. In quei giorni
aveva avuto modo di registrare ogni sua più piccola
abitudine (nuova o vecchia che fosse) ed alzarsi prima delle 9 e mezza
non rientrava fra queste.
In quella villa
gigantesca, pregna di silenzio e piena di volti quasi sconosciuti,
Minjung costituiva la sua unica certezza ed Eunsook non poté
fare a meno di sentirsi un poco sperduta, inginocchiata in quel letto
troppo grande.
Ebbe appena il tempo di
rialzarsi che una voce inaspettata giunse dall’uscio alle sue
spalle, facendola un poco sobbalzare.
“Mi scusi
signorina,” era Jonghyun, il maggiordomo dei signori ad
osservarla con calma e appena un pizzico di compassione di fronte alla
sua aria spaesata. Scomparve nel giro di un istante, rimpiazzata da una
perfetta inumanità,
da una precisione quasi robotica nel modo in cui quelle labbra si
modellavano attorno alle più semplice parole, come fossero
state invece infinite pennellate di un’opera
d’arte. Ancora una volta, si sentiva combattuta da uno strano
fascino, che sembrava voler stringere la sua anima in una morsa, e un
timore molto più genuino ed istintivo, che quasi le faceva
girare la testa
“La colazione
è pronta.” aggiunse l’uomo dopo pochi
istanti – le pupille ancora fisse sulla sua figura di bambina
sperduta.
“S-sì,
arrivo.” balbettò lei di rimando, scendendo in
fretta e furia dal letto, come avesse commesso un peccato e fosse stata
colta in flagrante (ed in un certo senso era così). Quando
vide Jonghyun rimanere piantato sull’uscio, senza accennare a
muoversi, tentò di sfoggiare un sorriso, tremolante e
nervoso suo malgrado. Con un cenno della testa indicò il
corridoio, ripetendo il gesto una seconda volta e muovendo anche le
braccia nella speranza di rendere il suo messaggio un poco
più chiaro.
Le parve di attendere
un’eternità prima che l’altro si
decidesse ad allontanarsi - e i passi erano pesanti ma
Eunsook notò che nemmeno quelli facevano alcun rumore.
“Questo posto
mi sembra sempre più strano.” non poté
fare a meno di mormorare.
***
“Signorina
Eunsook! Sono lieto di vederla, ha riposato bene?” furono le
prime parole che l’accolsero non appena fatto il suo ingresso
nella sala da pranzo. Quella voce nasale l’avrebbe
riconosciuta fra mille, così strana e particolare da
risultare quasi sgradevole alle orecchie.
Il Conte, marito della
sua amica di vecchia data, era una persona decisamente particolare
sotto svariati punti di vista. In tutta onestà Eunsook non
avrebbe saputo da dove cominciare, se dal suo strano culto per
l’antichità o se dalla nonchalance con cui
sembrava affrontare ogni più svariato argomento, si fosse
trattato di un’improvvisa pioggerellina pomeridiana o di una
serie di atroci omicidi avvenuti nella cittadina più vicina.
Ma più di
ogni altra cosa, era incuriosita da quella strana maschera di
rispettabilità che sembrava indossare con una naturalezza
fuori luogo, tanto da dare l’impressione fosse una seconda
pelle per lui.
Perché lei
sì, lo sapeva che non era altro che una raffinata
messinscena.
Lo aveva visto il
raffinato Conte Kim Kibum spingere con violenza Minjung contro il muro
di una camera, violare la sua pelle con brutalità e
passione, giocare con il suo corpo come con quello di una marionetta.
Era stata una vista eccitante e tremenda; i gemiti poco sommessi della
sua amica avevano avuto il sapore di tradimento ma non avevano mancato
di eccitarla. Ne era rimasta vergognata a tal punto da non riuscire
quasi più a vedersi allo specchio il giorno dopo, quando
Minjung aveva trillato un “buon giorno” nel suo
orecchio e le aveva carezzato la spalla con affetto.
Dopo un paio di giorni
però, la sua vergogna aveva lasciato spazio ad
un’accecante e profonda gelosia e, peggio ancora, ad
un’insaziabile curiosità. Chi era
quell’uomo per cui la più piccola aveva
abbandonato la sua vita di punto in bianco, solo per poi farci
irruzione di nuovo anni dopo, senza preavviso né motivo?
Chi era davvero?
Erano domande che
avrebbero dovuto aspettare, nascoste sotto le pieghe della loro
quotidiana sceneggiata.
“Direi di
sì!” confermò lei prendendo posto a
tavola e scacciando quegli inutili pensieri in qualche anfratto lontano
della sua mente, come si era abituata a fare. Kibum le sorrise
affettuosamente dalla sedia di fronte alla sua, prima che iniziassero
finalmente a servirsi.
Eunsook avrebbe quasi
potuto lasciarsi stregare da quella ormai familiare routine, se solo
non fosse stato per un piccolo elemento che stonava con essa e quasi le
rendeva insopportabile il silenzio a tavola. C’era una sedia
vuota accanto alla sua, nemmeno il coperto di fronte ad essa sulla
tavola, come se Minjung non fosse mai esistita. Era una tale
sciocchezza, si ripeteva fra sé e sé, eppure non
riusciva a scacciare l’impressione che qualcosa in
quell’intera situazione non quadrasse.
“Ma…”
cominciò a mormorare, osservando come l’uomo
alzò lo sguardo dal piatto per posarlo su di lei
“posso chiederle una cosa, conte?” il suo tono era
incerto – mai si era persa in troppe chiacchiere con colui
che considerava nient’altro che un affascinante rivale.
“Mi dica.”
“Ha mica visto la mia amica? Stamani non l’ho vista
nel letto ed è strano visto che è una
dormigliona”
Lo osservò
tamburellarsi il mento con le dita in un atteggiamento pensoso
– la forchetta ormai abbandonata sul tavolo. Per quei pochi
istanti non poté fare a meno di notare come fosse perfetto
quel volto – gli occhi di una bellezza ipnotica e le labbra
gonfie e accattivanti. Si sentì per l’ennesima
volta smarrita e faticò a concentrarsi di nuovo su
ciò che aveva domandato poco prima.
“Umm…
no, mi dispiace signorina. Non l’ho vista.” gli
sentì dire infine. Il Conte si voltò verso il suo
maggiordomo Jonghyun – le era bastato poco per imparare che
il ragazzo seguiva il suo datore di lavoro come fosse stata la sua
ombra, sempre presente e fedele ad ogni sua più piccola
volontà-, sfoggiando uno sguardo interrogativo.
“Ha fatto
colazione mentre voi stavate dormendo.” rispose quello,
chinando un poco la testa “Mi ha detto che non deve
preoccuparsi e che è andata a fare un giro nel
giardino.”
“Forse si
è addentrata nel labirinto.” aggiunse il conte.
Eunsook si
ammutolì a quell’informazione, piuttosto confusa.
Aveva notato l’intricato labirinto che occupava buona parte
dell’immenso giardino della villa – era impossibile
non farlo-, ma il motivo per il quale Minjung avesse mai potuto volerlo
esplorare…in tutta onestà le sfuggiva.
E ancor più
importante: perché proprio quell’oggi? Senza dirle
nulla, per di più.
“Ma non si
preoccupi,” udì il conte rivolgersi a lei e,
nonostante non fosse altro che un’affermazione cordiale,
avrebbe potuto giurare che fosse sembrato un suadente sussurro alle sue
orecchie “se tarderà Jonghyun andrà a
cercarla”
Le offrì un
sorriso, immobile, statico, che non mancò di farle un poco
tremare le mani. Si decise finalmente ad impugnare la forchetta,
sperando che la lauta colazione bastasse a distrarla dal turbinio dei
suoi confusi pensieri e dall’intricata matassa che stavano
divenendo le sue emozioni – un misto di soffocante paura,
fascino e preoccupazione ad annebbiarle la mente.
“Non si
preoccupi.” ripeté ancora il conte ed Eunsook
annuì.
***
Minjung non si era più vista per il resto della giornata. La
più grande aveva passato il pomeriggio a vagare per il
giardino, nella speranza di intravederla lì da qualche
parte, per poi rassegnarsi dopo alcune ore e cercare soltanto di godere
del sole splendente, dell’aria fresca e del canto melodico
degli uccelli. Arrivata alle soglie del labirinto, era stata quasi
tentata di avventurarsi anche lei nei suoi intricati cunicoli di
cespugli e fiori, ma prima che potesse anche solo allungare il piede,
il conte si era premurato di fermarla.
Era inusuale incontrarlo
a quell’ora, siccome in genere spariva subito dopo la
colazione per dedicarsi ai suoi affari, rispuntando solo appena pronta
la cena. Eppure le si era parato innanzi come comparso dal nulla- dita
lunghe e affusolate strette attorno al suo polso un po’
tozzo, quasi vibrando al ritmo del suo battito- per offrirle un sorriso
e uno sguardo quasi severo in netto contrasto con esso. I suoi vestiti
neri creavano uno strano connubio di colori con il verde brillante
della natura attorno a loro e i raggi del sole che rilucevano contro la
sua chioma bionda quasi le tolsero il respiro.
Non era il caso di
cercare Minjung- le aveva dolcemente detto-, sarebbe tornata entro
quella sera stessa.
Eunsook gli aveva
creduto, si era quasi sentita in dovere di farlo, e si era lasciata
guidare verso la biblioteca, passando il resto della serata in sua
compagnia. Il pensiero dell’amica aveva piano piano
abbandonato la sua mente: non c’era più
l’immagine dei suoi lunghi capelli corvini e del suo
bellissimo corpo a farla impazzire d’amore. C’era
soltanto il conte- Kibum e la sua voce suadente, Kibum e le sue mani
pallide, Kibum e il modo in cui le ridacchiava di tanto in tanto in un
orecchio.
Solo una volta
risprofondata nel silenzio della sua camera da letto si era finalmente
ricordata dell’altra.
In piedi, di fronte allo
specchio del bagno, si diede un’ultima sciacquata alla bocca,
prima di rimanere a fissare il suo riflesso per qualche minuto,
tracciandosi le labbra con le dita nella stagnante quiete, regina della
magione.
“Se Minjung
fosse qui” cominciò a mormorare fra sé
e sé, rapita dal suo stesso riflesso “mi direbbe
che li spazzolo tropp-“
Un lieve tonfo
dall’altra parte del muro interruppe i suoi ragionamenti,
facendola un poco sobbalzare.
“Oddio che
cos’era?!” quasi urlò dallo spavento,
mentre sentiva il suo cuore correrle frenetico in petto.
Rimase zitta per alcuni
istanti a seguire, tendendo le orecchie in attesa di qualche rumore
rivelatore- il suo torace ansante che si alzava ed abbassava scosso
dalla paura e a nulla serviva la sua mano per calmarlo.
“No, non era
niente.” si disse dopo qualche secondo. La voce
però le tremava e non era difficile comprendere quanto non
credesse alle sue stesse parole “Non vedo Minjung da stamani
e sono spaventata solo per questo”
Si affrettò a
spazzolarsi i capelli e raccoglierli in una treccia, non vedendo
l’ora di buttarsi sul soffice letto che l’attendeva
nella sua stanza. Agognava l’incoscienza del sonno come unica
consolazione dagli strani eventi di quel giorno; ne aveva bisogno.
Troppi pensieri affollavano la sua testa, troppe ansie e troppi strani
sentimenti che nemmeno lei era in grado di comprendere, specie nello
stato di eccessiva agitazione in cui versava in quel momento.
Non poteva certo
immaginare che non era stata la sua fervida fantasia a giocarle un
brutto scherzo.
Non ebbe il tempo di
notare un paio di occhi fissarla intensamente, un’ombra
allungarsi in controluce lungo il tappeto e verso il caminetto. Fu solo
quando una mano calda le afferrò quasi brutalmente la spalla
destra, che il suo corpo si rese conto dell’altra presenza
nella stanza. Il cuore le sobbalzò in petto ancora una
volta, scuotendolo in frenetici singulti che quasi le impedivano di
respirare. In un gesto istintivo, si voltò di scatto nel
tentativo di sferrare uno schiaffo, un pugno – qualunque
cosa, per la miseria! – al suo presunto aggressore, ma la sua
mano si bloccò a mezz’aria non appena incontrati
un paio di familiari occhi scuri.
“Ah! Minjung
sei qui… mi hai spaventata!” esclamò
allora con quel poco di fiato che le era rimasto in gola –
l’adrenalina le scorreva ancora furiosa nelle vene e qualcosa
nel volto dell’altra le impediva di sentirsi rassicurata del
ritorno della sua amica. Il sorriso “incoraggiante”
che le stava rivolgendo sembrava quasi privo di vita – le sue
pupille animate invece da uno strano guizzo di malizia.
“Scusami…”
la sentì mormorare.
D’improvviso
le girava la testa, si sentiva quasi di svenire e, sebbene continuasse
a ripetersi che era tutto normale e che era stato lo spavento a ridurla
così, dentro di sé sapeva che il suo era solo un
debole tentativo di illudersi.
Infatti, nonostante non
avesse fatto altro fino ad allora che attendere il ritorno della
più giovane, ora che l’aveva finalmente davanti
non se ne sentiva affatto rallegrata, né confortata. Tutte
quelle domande che l’avevano tormentata fino ad allora
– che fine avesse fatto, perché fosse sparita
senza dir nulla- erano state dimenticate nell’impalpabile
tensione che percepiva fra loro, nell’irrealtà di
quel silenzio, nel gelo del sorriso di quella cara amica – il
suo amore-
ora irriconoscibile.
Minjung non le sembrava
più lei e fu con quell’orrido presentimento in
gola che gracchiò a stento “Che
c’è?”
Vide ancora quel guizzo
strano animare ogni riflesso di quei grandi occhi, prima che morisse di
nuovo sepolto nel suo sguardo. Ne rimase in un qualche modo rapita e
forse fu per ciò che fu una sensazione del tutto
inaspettata, quella di un paio di labbra carnose d’improvviso
premute contro il suo orecchio, come in un bacio leggero.
“Dovresti
venire con me.”
Aveva il sapore di un
sussurro proibito e un brivido di piacere le scosse il corpo in un
fremito. Fu così che ogni protesta andò perduta
nel turbinio di sentimenti che confondeva il suo animo e nel calore
delle loro mani intrecciate.
***
Le due amiche
attraversarono la labirintica villa in silenzio: il passo di Minjung
era svelto e sicuro, mentre Eunsook osservava lo spazio intorno a
sé senza realmente vederlo – stregata, era
così che si sentiva.
Fu solo quando si
ritrovarono a percorrere un lungo corridoio buio (senza che lei avesse
alcuna idea di come ci fossero arrivate) che si riscosse finalmente da
quello strano stato di trance in cui il sussurro dell’altra
l’aveva fatta cadere. Se durante la sua permanenza nella
villa i mobili antichi e i pregiati drappeggi da cui era circondata
l’avevano fatta sentire immersa in un altro mondo, di qualche
tempo lontano, questa sua sensazione si era acuita, ora che gli occhi
le scivolavano lungo le pietre scure segnate dal tempo e ricoperte di
muschio e che l’aria umida le baciava la pelle. Nemmeno il
calore di quel corpo così vicino al suo era sufficiente a
rincuorarla – quel brutto presentimento che le stava
martellando in petto stava divenendo troppo pressante per poter essere
ignorato.
“Cosa sarebbe
questo?” mormorò così piano che non
avrebbe saputo dire se si stesse rivolgendo a se stessa, piuttosto che
a Minjung.
“È
tutto umido…” aggiunse poco dopo quando non
ottenne alcuna risposta. In un primo momento si arrese quasi
all’idea che l’altra la stesse volutamente
ignorando – l’occhiata fugace che le aveva rivolto
non era passata in osservata, ma non vi era stato altro suono oltre al
rumore dei loro passi.
Fu forse
quell’ennesimo silenzio e la sua quasi ritrovata
lucidità ad ispirare quelle riflessioni che di lì
a poco le affollarono la testa: Minjung non era stata più la
stessa sin da quando
lei aveva messo piede in quel luogo, e non solo da quella
sera. In lei c’erano ancora vaghe tracce di quello che era
stata un tempo, così da cullarla nell’illusione
che non tutto fosse andato perduto, ma in realtà bastava
sbirciare oltre quella debole maschera per accorgersi che vi fosse
qualcosa di diverso, di sbagliato, di innaturale in lei.
E il Conte…il
solo pensiero di quell’uomo scatenava in lei strane emozioni
– la paura di quel suo sorriso gelido e misterioso,
così come il fascino per i suoi modi di fare che avevano il
sapore di un’epoca lontana. Tutto quello che aveva vissuto e
provato sino ad allora – il riaffiorare di vecchi sentimenti,
le premure ricevute, la “collaterale” presenza di
Kibum nelle loro vite- le si rivelarono all’improvviso per
ciò che in realtà erano, ovvero atti di una ben
studiata commedia di cui lei era stata l’ignara marionetta;
una recita che si era mostrata in ogni sua parte nel buio rivelatore di
quei luoghi.
Non c’era
stato nulla di vero.
No, Minjung non era
più la stessa.
I suoi sentimenti
per lei non erano più gli stessi, si rese conto tutto ad un
tratto, agitando finalmente la mano per divincolarsi dalla presa
dell’altra.
Quest’ultima
non demorse nemmeno per un secondo: al contrario, strinse ancora di
più le dita attorno al polso, quasi al punto di farle del
male – non che sembrasse preoccuparsi del lieve lamento di
dolore che Eunsook si lasciò sfuggire pochi attimi dopo.
“Le
cantine…” le rispose finalmente senza tanto
interesse, quasi come avesse deciso di concederle
quell’inutile informazione purché essa la
zittisse. O chissà, magari sperava addirittura di
assicurarsi una maggiore collaborazione, cosa che invece la
più grande non aveva alcuna intenzione di offrire.
Ora come ora, avrebbe
soltanto desiderato risvegliarsi nel suo letto – quello del
suo piccolo appartamento di cui faticava a pagare le rate-, madida di
sudore e reduce da un brutto ma fittizio incubo.
Le sue erano solo
sciocche speranze; e più si addentravano per quei luoghi,
più si rendeva conto di quanto essi fossero labirintici e
contorti, proprio come i sotterranei dei vecchi castelli medievali.
Anche se fosse riuscita in un qualche modo a divincolarsi da Minjung,
non sarebbe mai stata in grado di trovare l’uscita.
Era in trappola,
soffocata nella morsa di colei che un tempo aveva amato con tutta se
stessa e tale crudele ironia quasi le faceva risplendere gli occhi di
lacrime a stento trattenute.
Si sentiva solo il
rimbombo dei loro passi e del suo cuore terrorizzato – e
ancora passi, passi e passi, sempre più veloci.
Tum, Tum, Tum.
Poi, improvviso e
terrificante, lo sentì, quel rumore sinistro che
riecheggiò fra le mura fino a gelarle il sangue nelle vene.
Non era come nessun altro suono avesse mai udito nella sua vita, non
avrebbe potuto descriverlo neppure volendo: non esistevano parole per
descrivere la crudeltà che sembrava aggrapparsi ad ogni nota
di quella voce profonda e roca, quasi mostruosa nella sua
inumanità. Ciò che però più
di tutte la faceva tremare era il fatto che lei, per un qualche
inspiegabile motivo se ne sentisse innegabilmente attratta, come un
falena stregata dalla viva fiamma.
Con un filo di voce,
incerta e tremante, si ritrovò a domandare: “Hai
sentito quel latrato…malvagio?” e la sua vaga
definizione aveva ben poca importanza, quando tutto ciò che
ottenne fu la noncurante risposta che già si aspettava.
“No.”
Eunsook non aveva
bisogno di indugiare oltre o di riflettere ancora su quanto stesse
avvenendo per comprendere che l’altra mentiva, e che
qualunque cosa l’attendesse non potesse nulla di buono.
Agitò di nuovo la mano, con più forza stavolta,
ma sempre senza successo. Afferrare quel braccio fino, puntare i piedi
per terra….nemmeno l’ennesimo gemito di dolore che
si fece strada fra i suoi denti stretti quando Minjung la
strattonò con violenza in avanti bastarono perché
l’altra provasse pietà di lei.
“Dai,
Min” pregò un’ultima, disperata volta,
nella speranza di infrangere quel gelido muro, quel sortilegio che
aveva ammaliato e rapito l’anima della sua amica.
“Andiamocene”
Ed ecco che allora i
passi cessarono.
Silenzio.
Quell’effimero
istante fu tutto ciò di cui Eunsook aveva bisogno per
sentire un peso sollevarsi dal suo petto ansante ed un sorriso farsi
strada sul suo volto- perché sì, forse ce
l’aveva fatta, era salva. Furono queste suo sciocche speranze
a non farle notare la pesante porta di legno innanzi a loro, a stento
illuminata dalla lampada ad olio posta accanto allo stipite.
La cruda
realtà fu per questo ancora più dolorosa: il
cigolio dei cardini di metallo risuonò nell’aria
come fosse stato il rumore di pesanti e soffocanti catene e di
lì a poco l’ennesimo irruento strattone quasi la
fece cadere in avanti. Non si soffermò nemmeno a cercare di
comprendere in che razza di luogo fosse stata spinta. Si
voltò di scatto, tentando con tutta se stessa di aggrapparsi
alle spalle della più giovane.
“Min, non mi
chiuderai dent—“ non si rese conto di star
strillando – la voce roca e logorata dalle lacrime. Tutto
ciò che il suo cervello era stato in grado di registrare era
stata la smorfia di disgusto che aveva sfigurato il viso di Minjung,
quel lampo sanguigno che le aveva smosso le pupille, il tonfo sordo
della porta e lo scatto della serratura che avevano segnato la sua
condanna.
Mai nella sua vita
avrebbe pensato che un suono così innocente come un
“click” potesse scatenare una simile disperazione
in lei.
Perse il controllo di
sé.
Non era padrona del suo
corpo mentre sbatteva i pugni contro l’uscio, che vedeva a
stento fra le lacrime copiose che le bagnano le guance; mentre gridava
e gridava, con quanto fiato avesse in gola e pregava l’altra,
scossa dai singulti. Il sangue che le si era raggrumato piano piano
sulle nocche scivolò via inosservato, sullo sfondo del suo
sconforto, così come fece quel perverso gemito di piacere
che qualcuno intonò alle sue spalle.
Non le interessava il
mondo attorno a lei. Continuava a lottare per una libertà
che aveva appena perso, senza volersi arrendere alla cruda
realtà dei fatti – una tenacia che
l’altro occupante della stanza non poté fare a
meno di ammirare ed al tempo stesso trovare esilarante.
Fu solo quando le forze
cominciarono a mancarle che si concesse di crollare sulle sue ginocchia
– il busto ansante a stento retto dalle mani che ora
poggiavano a terra.
Per qualche attimo solo
il rumore del suo respiro stremato rimbombò fra le imponenti
mura di pietra.
“Signorina”
esordì poi una voce inaspettata ma fin troppo familiare,
facendola così trasalire. “Finalmente è
qui.”
Non avrebbe avuto
bisogno di voltarsi per dire a chi appartenesse, ma nondimeno non
resistette alla tentazione di confermarlo con i suoi stessi occhi. Se
li strofinò e ripulì dalle lacrime, mentre poteva
percepire l’uomo alle sue spalle attendere paziente che lei
si rimettesse in sesto e si preparasse ad affrontare ciò che
l’attendeva.
Così come
aveva immaginato l’aristocratica figura longilinea del conte
si ergeva dinnanzi a lei in tutta la sua fierezza e compostezza. Le sue
pupille color nocciola divorarono ogni centimetro di
quell’uomo in un solo istante e non avrebbe saputo dire se
quella strana sensazione che le opprimeva il cuore fosse terrore o
qualcos’altro.
Qualunque fossero state
le intenzioni di Kibum aveva ormai poca importanza: lei era in sua
balia e, se gli avvenimenti di quella serata non erano stati un
avvertimento sufficiente di per sé, la leggera differenza
nel suo modo di porsi e lo sguardo intenso che sembrava trafiggerle il
petto le si spiegavano innanzi ad indizio che la sua vita non sarebbe
stata più la stessa da quella sera.
“L’aspettavo”
ghignò lui infine, pronunciando quelle parole con un qualche
gusto perverso.
Quella frase ebbe un
effetto impensabile su di lei–sentì il suo corpo
tremare di piacere a quel tono suadente e tale era la sua vergogna che
tentò invano di mascherare la sua reazione. Eunsook non
poteva sapere che Kibum percepiva ogni fremito di quel suo corpo
formoso, ne toccava con mano l’eccitazione con depravato
compiacimento. Era arrivato al suo limite: la maschera di calma
serafica che si era sempre premurato di portare indosso si stava
rapidamente sgretolando sotto gli occhioni ignari della sua preda.
“Lei-“
singhiozzò quella, indietreggiando senza staccare gli occhi
dall’uomo che aveva di fronte.
In
quell’istante ripromise a se stessa di fare tutto
ciò che era in suo potere per fuggire da quel luogo
maledetto, ma il conte non ebbe alcuna difficoltà a
comprendere le sue intenzioni prima ancora che lei facesse nulla per
metterle in atto. Nel giro di pochi secondi, sentì un paio
di forti mani stringersi con violenza attorno ai suoi polsi e i suoi
occhi si specchiarono ben presto in quelli noncuranti della sua amica.
Non aveva idea di ella
quando avesse fatto ritorno – non aveva sentito il rumore
della porta, né avvertito un’altra presenza
accanto alla loro. Eppure era là, pronta ad offrirla a
quello che era ora divenuto il suo carnefice. La trascinò di
peso fra le braccia del conte, e nonostante la poveretta stesse
lottando con tutte le sue forze per divincolarsi, la mora non ebbe
alcuna difficoltà a portare a termine il suo compito tanto
che Eunsook sentì presto un respiro caldo solleticarle il
collo.
“Minjung
è una brava servitrice, lo devo ammettere” lo
sentì mormorare dopo che le ebbe poggiato un bacio sulla
pelle candida.
“Cosa?!”
La sua voce era un
connubio di puro panico perché, sì, poteva
giurare che fossero lunghi artigli quelli che sentiva scorticargli i
fianchi, perché era sicura che il conte si stesse
crogiolando nell’aroma del suo collo come fosse stato quello
di una prelibata pietanza – perché erano zanne quelle che
stavano per trafiggerla.
“No! Non
voglio!” fu il suo doloroso, disperato grido, prima che un
vortice di dolore l’avvolgesse.
Tutto si fece buio.
***
Calore.
Fu la prima cosa che
Eunsook avvertì alcune ore dopo – una soffocante
sensazione di calore che le indolenziva le membra, che le bruciava la
pelle, che le grattava la gola. Respirare le appariva come
un’impresa impossibile, mentre boccheggiava alla ricerca
d’ossigeno.
Solo alcuni minuti dopo
si rese conto che respirare non le era poi così necessario
– che aria o non aria, il dolore non passava, né
d’altra parte si acuiva. Riuscì anche a
determinare di essere stesa su un morbido letto e di non essere sola:
c’era un corpo accanto al suo, uno al quale lei era
avvinghiata come se da esso fosse dipesa la sua stessa vita. Era da
quella pelle così morbida, così profumata
–così invitante-
che proveniva il calore che l’opprimeva.
Eunsook
realizzò di aver perso il senno quando si accorse che le piaceva la
sensazione di morire fra quelle braccia.
Pensò che
fossero tutto ciò di cui aveva bisogno e un gemito
abbandonò le sue labbra gonfie e bagnate – di
sangue, si rese conto in un secondo momento.
“Svegliati,
mia cara sposa”
Era stato un sussurro
dolce quello, uno pieno d’affetto e seguito da baci leggeri
posati sulle sue gote piene. Prima che potesse fermarlo, un altro verso
di piacere si fece strada a forza fra i suoi denti –
perché era lui, Kibum, lui, il suo eterno amante, lui, il
suo adorato sposo.
Aprì finalmente gli occhi e li dovette sbattere
più volte prima di riuscire finalmente a schiarirsi la vista
e prendere nota della lussuosa camera da letto in cui si trovavano e di
quelle pupille scure, fisse sulle sue.
Il sangue del suo
creatore era la melodia più dolce che avesse mai udito: era
il richiamo primordiale dei battiti di quel delizioso cuore che quasi
lei sentiva nel suo palmo, quelli che le avevano dato la vita.
“Come ti
senti?” si sentì chiedere, mentre un dito le
carezzava con premura il labbro inferiore che lei si era morsa nel
sonno (una delle due zanne era ancora conficcata in esso e il sangue
che fuoriusciva dalla ferita non si era ancora fermato).
Eunsook sentì
una scarica di adrenalina a quel tono melodioso.
Fu allora che capì che non era il calore del suo amante a
soffocarla, ma quell’amore
di cui lei si sentiva piena.
“Forte…” sussurrò sulle sue
labbra, approfittandone per posarvi sopra un
bacio“…e assetata come non mai”
Note
finali: Ed eccoci qui alla fine!
So che questa storia era
forse un po' banale, ma spero comunque che vi abbia intrattenuto per
qualche minuto :)
Mi scuso per eventuali
errori grammaticali (pur ricontrollando, me ne sfuggono sempre) e vi
invito a segnalarmeli in caso li troviate, così che
provvederò immediatamente a correggerli! Inoltre avere il
vostro parere su questa fic mi farebbe un'immenso piacere <3
Grazie ancora!
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